Da La mia vita — Autobiografia, di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Titolo originale dell’opera: Aus meinem Leben Erinnerungen (1927-1977).
Il 24 luglio 1976, quando fu trasmessa la notizia della morte improvvisa dell’arcivescovo di Monaco, cardinale Julius Dòpfner, fummo tutti sconvolti. Presto giunsero voci che mi indicavano tra i candidati per la successione. Non potevo prenderle molto sul serio, dato che i limiti della mia salute erano altrettanto noti come la mia estraneità a compiti di governo e di amministrazione; mi sentivo chiamato a una vita di studioso e non avevo mai avuto in mente niente di diverso. Anche le mansioni accademiche che ricoprivo — ero nuovamente decano della mia facoltà e vicerettore dell’università — restavano comunque nell’ambito delle funzioni che un professore deve mettere in conto ed erano ben distanti dalla responsabilità di un vescovo.
ARCIVESCOVO DI MONACO E FRISINGA
Non pensai quindi a niente di pericoloso, quando il nunzio Del Mestri, con un pretesto, mi fece visita a Ratisbona, chiacchierò con me del più e del meno e, alla fine, mi mise tra le mani una lettera che dovevo leggere a casa, pensandoci sopra. Essa conteneva la mia nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga.
Fu per me una decisione immensamente difficile. Mi era concesso di consultare il mio confessore. Ne parlai con il professor Auer, che conosceva molto realisticamente i miei limiti — teologici e umani. Mi aspettavo che egli mi sconsigliasse. Ma, con mia grande sorpresa, mi disse, senza pensarci su molto: «Devi accettare».
Così, dopo aver ancora una volta esposto i miei dubbi al nunzio, sotto i suoi occhi, sulla carta da lettera dell’albergo dove era alloggiato, scrissi la dichiarazione con cui assentivo alla mia nomina. Le settimane fino alla consacrazione furono difficili. Interiormente continuavo a essere titubante e, oltre a ciò, c’era un tale carico di lavoro da sbrigare, che arrivai quasi esausto al giorno della consacrazione.
Quel giorno fu straordinariamente bello. Era una raggiante giornata d’inizio estate, alla vigilia di Pentecoste del 1977. La cattedrale di Monaco, che dopo la ricostruzione seguita alla seconda guerra mondiale dava un’impressione di sobrietà, era magnificamente adornata trasmettendo un’atmosfera di gioia, che coinvolgeva in maniera davvero irresistibile.
Ho sperimentato la realtà del sacramento — che qui accade davvero qualcosa di reale. Poi, la preghiera davanti alla Colonna della Vergine Maria — la Mariensaule — nel cuore della capitale bavarese, l’incontro con le molte persone che accoglievano il nuovo venuto, a loro sconosciuto, con una cordialità e una gioia, che non riguardavano tanto me, ma che mi mostravano ancora una volta che cosa è il sacramento. Salutavano il vescovo, colui che porta il mistero di Cristo, anche se forse la maggior parte dei presenti non ne era consapevole. Ma la gioia di quel giorno era appunto qualcosa di realmente diverso dal consenso a una determinata persona, che, anzi, doveva ancora mostrare la propria capacità. Era la gioia di vedere nuovamente presente quel ministero, quel servizio, in una persona, che non agisce e vive per se stessa, ma per Lui e, dunque, per tutti.
Con la consacrazione episcopale comincia nel cammino della mia vita il presente. Il presente, difatti, non è una determinata data, ma l’adesso di una vita, che può essere lungo o breve. Per me quello che è cominciato con l’imposizione delle mani durante la consacrazione episcopale nella cattedrale di Monaco è ancora l’adesso della mia vita. Per questo non posso descriverlo come un ricordo, ma, appunto, posso solo tentare di adempiere bene questo adesso.
LO STEMMA DI RATZINGER E DI BENEDETTO XVI
Ma, allora, che cosa devo dire a conclusione di questi appunti?
Come motto episcopale ho scelto due parole dalla terza lettera di san Giovanni: “collaboratori della verità”, anzitutto perché mi pareva che potessero ben rappresentare la continuità tra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze si trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel mondo di oggi l’argomento “verità” è quasi scomparso, perché appare troppo grande per l’uomo, e tuttavia tutto crolla, se non c’è la verità, questo motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno, nel senso buono del termine.
Sullo stemma dei vescovi di Frisinga si trova da circa mille anni il moro incoronato: non si sa quale sia il suo significato. Per me è l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe, poiché noi tutti “siamo uno” in Cristo (Gal 3,28). Inoltre, ho scelto per me altri due simboli.
Il primo è la conchiglia, che è anzitutto il segno del nostro essere pellegrini, del nostro essere in cammino: “Non abbiamo qui una stabile dimora”. Ma essa mi ricorda anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello intorno al mistero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare e cercava di travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto: tanto poco questa buca può contenere l’acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio. Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza.
Infine, dalla leggenda di Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisinga, ho preso l’immagine dell’orso. Un orso – così racconta questa storia – aveva sbranato il cavallo del santo, che stava recandosi a Roma. Corbiniano lo rimproverò aspramente per quel misfatto e, come punizione, gli caricò sulle spalle il fardello che fino a quel momento era stato portato dal cavallo. L’orso dovette trasportare quel fardello fino a Roma e solo qui il santo lo lasciò libero di andarsene. L’orso che portava il carico del santo mi ricorda una delle meditazioni sui Salmi di sant’Agostino. Nei versetti 22 e 23 del salmo 72 (73) Agostino vedeva espressi il peso e la speranza della sua vita. Quel che egli trova espresso in questi versetti, e che presenta nel suo commento, è come un autoritratto, tracciato davanti a Dio e, dunque, non solo un pio pensiero, ma spiegazione della vita e luce nel cammino.
Quel che Agostino scrive qui, mi è parso rappresentare il mio destino personale.
Il salmo, appartenente alla tradizione sapienziale, mostra la situazione di bisogno e di sofferenza che è propria della fede e che deriva dall’insuccesso umano; chi sta dalla parte di Dio non sta necessariamente dalla parte del successo: i cinici sono spesso persone che la fortuna pare viziare.
Come va inteso questo fatto? Il salmista trova la risposta nello stare davanti a Dio, che gli permette di capire che la ricchezza e il successo materiale sono ultimamente irrilevanti e di riconoscere che cosa è davvero necessario e apportatore di salvezza. «Ut iumentum factus sum apud te et ego semper tecum». Le traduzioni moderne rendono così: “Quando si agitava il mio cuore…, ero stolto e non capivo, davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre…”. Agostino ha interpretato un po’ diversamente l’espressione riguardante la bestia. Il termine latino iumentum designava soprattutto gli animali da tiro, che vengono usati dai contadini per lavorare la terra; per questo egli vi riconosce un’immagine di se stesso, sotto il carico del suo servizio episcopale: «Un animale da tiro sono davanti a te, per te, e proprio così io sono vicino a te». Aveva scelto la vita dell’uomo di studio e Dio lo aveva destinato a fare “l’animale da tiro”, il bravo bue che tira il carro di Dio in questo mondo.
Quante volte è insorto contro tutte le inezie che si trovava caricate addosso e che gli impedivano il grande lavoro che sentiva come la sua vocazione più profonda. Ma proprio qui il salmo lo aiuta a uscire da tutta l’amarezza: Sì, è vero, sono divenuto un animale da tiro, una bestia da soma, un bue, ma proprio in questo modo io ti sono vicino, ti servo, tu mi hai nella mano. Come l’animale da tiro è il più vicino al contadino e compie per lui il suo lavoro, così anch’egli, proprio in questo umile servizio, è vicinissimo a Dio, è tutto nella sua mano, è fino in fondo un suo strumento – non potrebbe essere più vicino al suo Signore, non potrebbe essere più importante per Lui. L’orso con il carico, che sostituì il cavallo o, più probabilmente, il mulo di san Corbiniano divenendo – contro la sua volontà – il suo animale da soma, non era e non è un’immagine di quel che devo essere e di quel che sono? «Sono divenuto per te come una bestia da soma e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a te».
Che cosa potrei raccontare di più e di più preciso sui miei anni come vescovo? Di Corbiniano si racconta che a Roma restituì la libertà all’orso. Se questo se ne sia andato in Abruzzo o abbia fatto ritorno sulle Alpi, alla leggenda non interessa. Intanto io ho portato il mio bagaglio a Roma e ormai da diversi anni cammino con il mio carico per le strade della Città Eterna. Quando sarò lasciato libero, non lo so, ma so che anche per me vale: «sono divenuto la tua bestia da soma, e proprio così io sono vicino a te».