Celestino V e Bonifacio VIII poi uno schiaffo chiude il papato medioevale

Riassumere in poche righe ciò che fu Benedetto Caetani, Bonifacio VIII (1294 +1303) non è facile, perciò prendiamo spunto da quelle vicende storiche per trarne un articolo che, lungi dall’essere esaustivo e conclusivo, cercherà di offrirvi più semplicemente del buon materiale di riflessione.

Un saggio proverbio dice che se vuoi conoscere davvero la Chiesa, la sua storia, devi per forza conoscere la vita dei Pontefici, qui comprenderai la vera azione dello Spirito Santo che pur lasciando agli uomini di Chiesa il muoversi nel proprio libero arbitrio, sarà sempre Lui a guidare alla fine la Chiesa dove Dio la vuole.

Il 13 dicembre del 1294 ci troviamo davanti al gesto, di dolore inesprimibile, di Papa Celestino V nella rinunzia alla guida della Chiesa. Qui la storia gioca tra favole e leggende, difficile affermare con delle prove inconfutabili che fu il cardinale Caetani a suggerire a Celestino V di ritirarsi, così come puzza di favola che egli in “…una notte con una tromba venuta dal cielo, gli avrebbe insinuato di abbandonare il Pontificato…” (1).

Tuttavia di vero c’è il fatto che il Caetani riteneva che sotto il Pontificato di Celestino V il governo della Chiesa sarebbe andato a ramengo, e vi è da aggiungere che invece di approfittare della presunta debolezza del Pontefice mistico, che in lui riponeva fiducia e stima, lo avrebbe dunque consigliato di ritirarsi per il bene della Chiesa, sentendo in cuor suo la certezza che sarebbe stato pronto ad assumere lui stesso il pesante fardello petrino.
Ma attenzione, questa sua ispirazione a voler farsi eleggere, nulla ha che vedere con le accuse di simonia strombazzate con certi libelli diffusi da altri due cardinali contro l’elezione del Caetani, Bonifacio VIII, a successore di Celestino V.
Tutto il mondo è paese, e non di rado le storie si ripetono. Qui ciò che si ripete è l’attacco ad un Pontefice che, piaccia o non piaccia, fu regolarmente eletto.
Coerente con il suo atteggiamento insofferente nei confronti del governo della Chiesa sotto Celestino V, Bonifacio VIII come primi atti del suo governo fu la revoca di concessioni fatte dal predecessore giustificando il tutto che “al debole ed inesperto Celestino erano state strappate soverchie concessioni…”.
Questa presa di posizione aprì immediatamente le ostilità con Carlo II di Napoli, il quale avrebbe voluto di certo manipolarlo per averlo dalla sua parte.

Ma Bonifacio VIII, eletto appunto a Napoli, si trasferì immediatamente a Roma per cercare di non rimanere in qualche modo incatenato e influenzato dalla politica corrente, ed esercitare così liberamente il suo ruolo.
Carlo II dovette fare buon viso a cattivo gioco quando si accorse di avere a che fare con una persona di una energia straordinaria e risoluto a tutto pur di fare gli interessi della Chiesa, e così in silenzio lo accompagnò fino a Roma.
Il Caetani pur essendo cardinale non era però un vescovo e così il 24 gennaio 1295, presso l’altare di San Pietro, veniva consacrato Vescovo, quindi fu incoronato e gli fu posta la tiara che all’epoca era a duplice corona per sottolineare il potere spirituale e temporale del Pontefice.
Come era di usanza all’epoca, il re di Napoli, Carlo II e il figlio re di Ungheria, Carlo Martello, entrambi con la corona in testa, tenevano le briglie del bianco cavallo del Pontefice sul quale, dopo la funzione religiosa, il Papa vi saliva per fare la trionfata cavalcata fino a San Giovanni in Laterano, per prendere così possesso della cattedra romana.

Qui si apre la questione: quale fine avrebbe dovuto fare l’asceta e pio Celestino, il quale sognava soltanto di ritirarsi per tornare ad essere Pietro da Morrone, lontano dalle beghe di palazzo.

Bonifacio VIII però non si fidava non tanto di Celestino, quanto della corte papale pronta, secondo lui, a sfruttare ogni occasione o qualche malcontento per abbindolare nuovamente l’umile monaco e farne una bandiera di scisma e spaccatura nella Chiesa, e fra coloro che ritenevano inaccettabili queste dimissioni. Tra l’altro Celestino V appena sapute le intenzioni del Successore, di volerlo portare con sè a Roma, decise di scappare e dopo una serie di inseguimenti Carlo II lo accompagnò, con tutti i dovuti riguardi, nella Città eterna.
Perciò dopo ascoltato i pareri dei vari cardinali, Bonifacio VIII decise con loro che era prudente “custodire” il papa dimissionario affinchè non incontrasse nessuno e da nessuno venisse influenzato contro il suo pontificato, quindi lo ospitò nel suo palazzo ad Anagni e poi al castello di Fumone dove, per compiacere il pio eremita, gli fu costruita, riprodotta, una grotta del tutto simile a quella da lui abitata sul monte Maiella.

-celestino-bonifacio-1_54451a75a8375Ma come si arrivò alla elezione di Pietro da Morrone?

Parliamo di una Roma abbandonata a se stessa, divisa in fazioni fra le nobili famiglie e casati, rivalità e guerriglie tra guelfi e ghibellini, la politica francese che premeva da una parte con la presenza di due cardinali contro i dieci cardinali italiani fra i quali, spiccava appunto, Benedetto Caetani, l’unico che comunque sia fosse in grado di mantenere una certa rotta chiara e di più ampia condivisione.

Tanto per fare un esempio della situazione: alla morte di Niccolò IV (1288 +1292) i cardinali, che erano dodici, erano divisi dalle due potenti famiglie degli Orsini e dei Colonna. Il decano, cardinale Latino di Ostia, li congregò prima a Santa Maria Maggiore, poi sull’Aventino, infine in Santa Maria sopra Minerva, ma quando il caldo afoso romano si fece sentire, sparirono tutti, lasciando i romani alla loro estate afosa.
I cardinali si riunirono di nuovo a settembre, ma le discussioni, alternate da alti e bassi, si protrassero ancora per il 1293.
La città di Roma era in preda all’anarchia da una parte e dall’altra turbata continuamente dalle stesse fazioni. Si combatteva per le strade, si demolivano i palazzi, si saccheggiavano le chiese!
Le cronache di allora sono una vera ecatombe per la città eterna, e tutto proseguirà così fino al 1294, ed oltre come vedremo.
Dopo 27 mesi di situazioni inconcludenti, il cardinale Latino di Ostia, mostra alla congregazione dei cardinali le lettere di tale Pietro da Morrone, un pio eremita che viveva sull’omonimo monte, amato dalla gente, il quale riportava visioni apocalittiche sulla Chiesa, profezie di punizioni divine a causa della corruzione degli uomini, soprattutto, di Chiesa, invitando tutti alla conversione.
Questo bastò per catturare l’interesse dei cardinali i quali alla fine decisero che forse, l’elezione di una tal pia persona timorata di Dio e che da Dio riceveva tali profezie, potesse giovare a tutta la Chiesa.
Così venne eletto Sommo Pontefice, e a sua insaputa, Pietro da Morrone il 4 luglio 1294.

Quando la delegazione pontificia giunse all’eremo prostrandosi davanti all’eremita, mentre gli offrivano la tiara, Pietro da Morrone tentò la fuga. Poi, consigliato anche dai suoi monaci, accettò il grave peso.
Si fecero avanti Carlo II e il figlio re di Ungheria i quali gli si strinsero subito ai fianchi comprendendo quanto fosse poi così facile raggirare il pio emerita che di mondo, di politica e di governo della Chiesa, non sapeva davvero nulla, diventando così anche strumento ignaro dei loro progetti.

Il primo progetto fu quello di non essere incoronato a Roma, ne a Perugia ma, condotto su un umile asinello (è la richiesta del nuovo Papa che non voleva il più nobile cavallo), le cui briglie venivano tenute dai due re, si fece condurre ad Aquila e fuori le mura di Santa Maria di Collemaggio, il 29 agosto 1294, si fece incoronare.
I cardinali che con quel caldo non volevano muoversi dalla loro dimora, con riluttanza obbedirono al nuovo Pontefice che, già pentiti, avevano comunque eletto loro stessi.
L’ignaro altro fautore della sua nomina, il cardinale Latino di Ostia, che aveva riportato le sue lettere con le profezie avviandolo così alla nomina petrina, moriva prima della sua partenza per l’Aquila, quasi avesse adempiuto al suo ultimo compito.
Aveva un difetto Pietro da Morrone ora Celestino V, si fidava più del re di Napoli che non dei suoi cardinali, ai quali non chiedeva alcun consiglio, mentre si intratteneva volentieri con i due re per prendere le decisioni di governo.
Da questo aspetto si può comprendere così l’atteggiamento diffidente prima ed ostile poi del suo futuro successore, il cardinale Benedetto Caetani.

Celestino V in effetti non aveva alcuna possibilità di governare la Chiesa del suo tempo, non solo non ne aveva l’indole, ma non sapeva davvero neppure cosa fare o da dove cominciare, e non ci è facile oggi comprendere come un pio eremita, timorato di Dio e che riceveva “messaggi” spirituali, avesse potuto cedere davanti ai suoi consiglieri politici nel mentre diffidava comunque sia di cardinali.
Senza avvisare o preannunziare nulla un giorno creò di colpo altri dodici cardinali fra cui sei francesi e tre napoletani, suggeriti naturalmente dal re di Napoli ed infatti uno era suo figlio che a soli ventuno anni divenne arcivescovo di Lione.
Si mise a distribuire con facilità privilegi, favori, dispense e benefici vari e tuttavia volle ridurre ad un tenore di vita più sobrio ed austero i cardinali.

Lo stesso Celestino V si rendeva conto di non essere in grado di portare avanti il governo della Chiesa ed affidò, all’inizio dell’Avvento, gli affari più urgenti ed interni alla Chiesa a tre cardinali, per tornare così a ciò che sapeva fare meglio: pregare.
Quando gli Orsini da una parte e i Colonna dall’altra cominciano a premere sul Papa perchè non lasciasse ad altri cardinali ciò che doveva fare lui, Celestino V si rende conto di essere stato preso in una trappola mortale fatta di avidità, di giochi di potere, di interessi per le cose del mondo, ed inizia a maturare la scelta per la rinuncia.
Convoca i migliori giuristi del suo tempo per avere un parere teologico in merito. La risposta fu semplice: se un Papa potesse deporre la tiara, sì, era generalmente affermativa; e Celestino V si sentì beneficiato e non se lo fece ripetere due volte.
Avendo compreso poi che il re di Napoli, Carlo II, avrebbe fatto di tutto per dissuaderlo dalla rinuncia, al contrario di come iniziò il suo pontificato, qui cominciò a chiedere consiglio ai cardinali.
Qui entra in gioco il cardinale Benedetto Caetani che all’epoca era appunto un dotto canonista che ben meritava di essere ascoltato ancor prima della meditata rinuncia.
Il Caetani gli preparò una Bolla papale scritta in termini perfetti atti a non dare adito a dubbi futuri sulla scelta di Celestino, e con questa, letta al Concistoro tenuto a Napoli il 13 dicembre del 1294, Papa Celestino V era il primo Pontefice della storia della Chiesa a rinunciare all’alto ministero.

E così morì, il 19 maggio del 1296, Pietro da Morrone, Celestino V.
Altre leggende, poste contro il successore Bonifacio VIII che lo avrebbe addirittura fatto assassinare, non si possono davvero accogliere non solo perchè prive di fondamento ( in fondo il Caetani aveva avuto due occasioni per farlo uccidere – se avesse voluto – durante il contesto della fuga di Celestino, perchè aspettare due anni quando più si andava avanti e più si sarebbero dimenticati di lui?), ma questo pensiero omicida era anche lontano dall’indole stessa del Caetani, come avremo modo di appurare.
Quando Clemente V canonizzò Celestino V il 5 maggio del 1313 nella bolla fece scrivere che questo Pontefice fu un uomo semplice ed inetto al governo della Chiesa; non preparato in sostanza a capire le cose del mondo perchè preparato ed attento alla ricerca delle cose celesti; rivolgendo con profonda umiltà lo sguardo sopra se stesso comprese il dovere di rinunziare al peso onorifico del pontificato, perchè la Chiesa non avesse a soffrire a causa sua. In definitiva la bolla sottolineava come Celestino V volle rinunziare alle cure di Marta per stare con Maria ai piedi di Gesù, estatico e contemplante…

L’epitaffio dice a buona ragione che collocato di repente sul trono più eccelso della terra per imprudenza di elettori, è ritornato alla polvere, per merito della sua rettitudine.

E ci lasciò la famosa “Perdonanza” della quale parleremo in un altro articolo.
Dante lo mise all’inferno, ma la Chiesa lo pose sugli onori dell’Altare.

-celestino-bonifacio-2_54451b3a372a3Torniamo così al povero Bonifacio VIII, Benedetto Caetani.

Non nuovo alla politica interna ed esterna alla Chiesa (il Cateani era stato già impegnato dai suoi predecessori e da Martino IV che lo creò cardinale il 23 marzo del 1281), colto e molto istruito, impressionato dalle varie guerre che tenevano sottosopra tutta la cristianità e vedendo anche lo stato in cui versava Roma, appena eletto alla cattedra petrina annunciava a tutti i sovrani la sua nomina con parole di pace, e con un accorato appello a finire ogni guerra. La sua prima cura fu quella di riappacificare l’Italia meridionale, travolta dalla guerra che venne dietro ai Vespri Siciliani.

Ma la pace che il Papa chiedeva aveva un prezzo da pagare: tanto mi dai e tanto ti do; se mi chiedi questo mi devi quest’altro… e così, Giacomo d’Aragona, accettando di riconciliarsi con Carlo II e rinunciando ad ogni suo diritto sulla Sicilia, ricevette prima l’investitura del regno d’Aragona e poi, come non bastasse, Bonifacio lo nomina – il 20 gennaio 1296 – ammiraglio generale della Chiesa investendolo, feudalmente, della Corsica e della Sardegna. Come poi era d’uso per sigillare certa “pace fatta” la sorella di Giacomo d’Aragona, Violante, andava in sposa al figlio di Carlo II, Roberto, portando così in dote i diritti aragonesi sulla Sicilia.
Ma furono conti fatti senza l’oste che in questo caso erano i siciliani che non sopportavano la dominazione Angioina rifiutandosi di ritornare sotto la medesima.
Essendosi sentiti traditi da Giacomo d’Aragona, i siciliani acclamarono come loro re Federico III d’Aragona, fratello minore di Giacomo. Il 25 marzo del 1296 Federico III pretendeva così la corona sicula che il popolo gli aveva sostanzialmente già dato, e si disse pronto a difenderla con le armi contro Carlo II, contro il Papa Bonifacio VIII e contro anche gli stessi parenti aragonesi… la situazione si risolverà, tra una guerra e un’altra, cinque anni dopo.
Le ripercussioni di questa strategia giunsero fin dentro la Curia romana.

Nel sacro collegio infatti, Giacomo e Pietro Colonna – zio e nipote – si erano dichiarati apertamente fautori della rivolta siciliana contro gli Angioini (a dimostrazione che difficilmente è dal popolino che partono le rivolte se non c’è, fra loro, chi fomenta in accordo, come oggi è qualche lobby, la rivolta stessa…) e così si accese la rivalità fra i Colonna e i Caetani degenerando in ostilità e perfino in odio, dopo che Stefano Colonna il 3 maggio 1297 assaliva e depredava un convoglio di 80 muli provenienti da Anagni, carichi del tesoro papale che veniva trasportato a Roma.
La confusione era alle stelle: alcuni della numerosa parentela Colonna avevano fatto ricorso al Papa contro i due parenti cardinali, colpevoli di essersi impadroniti dei castelli di famiglia escludendo tutti gli altri membri della famiglia.

Non vi sembri che ci stiamo dilungando inutilmente, questi fatti hanno un senso infatti, Bonifacio VIII impose ai due cardinali di restituire il maltolto, ma naturalmente non solo non venne ascoltato, ma da questa situazione e per non avere avuto il Papa dalla loro parte, qui iniziano i due cardinali a dare il peggio delle loro anime.
Cominciarono a far circolare la voce del dubbio sulla validità della rinuncia di Celestino V e per conseguenza infirmavano la legittimità dell’elezione di Bonifacio.

Non dimentichiamo che all’epoca era facile creare un antipapa, bastava seminare una voce stonata ed era fatta, la stessa Caterina da Siena dovrà combattere contro le voci infamanti sul Papa Legittimo prendendone le difese.
Pronta la risposta di Bonifacio VIII che il 10 maggio 1297, convocato un Concistoro, ammoniva di scomunica i due cardinali Colonna se non fossero rinsaviti e giunse confiscandogli tutti i beni.
I due cardinali invece di pentirsi dei danni apportati, creano un libello pieno di menzogne ed infamante contro il Papa, si chiusero a Palestrina e presero a diffondere ulteriori manifesti contro la legittima nomina di Bonifacio, chiedendo l’apertura di un concilio per risolvere la questione.
Coi due cardinali ribelli della famiglia Colonna stava Jacopo da Todi – che componeva versetti infamanti contro il Pontefice – ed altri detti “Spirituali”.
Dopo aver tentato, invano, altre vie per una pacificazione immediata, Bonifacio VIII fu costretto ad emettere una Bolla “Lapis abscissus” il 23 maggio con la quale comunicò la scomunica solenne, dichiarandoli decaduti dalla loro dignità e da ogni ufficio ecclesiastico.

La pace che Bonifacio VIII pensava di avere ottenuto facendo compromessi politici, si rivelò di fatto la miccia per accendere una guerra ancor più grave.

Le milizie ghibelline si radunavano a Palestrina a favore dei Colonna ribelli i quali, a loro volta, avevano chiesto l’aiuto di Filippo il Bello di Francia e naturalmente da Federico di Sicilia.
Roma non era più sicura già solo per come era ridotta, il Papa decide di rifugiarsi ad Orvieto.
I ribelli aumentavano diventando più potenti e sempre più minacciosi, il Papa non aveva più altra scelta:
o fermare i ribelli domandoli, o se avessero vinto lo scisma avrebbe lacerato l’unità della Chiesa portando conseguenze ben più gravi delle perdite che si sarebbero avute, ora, in uno scontro diretto.
Così il 14 dicembre 1297 Bonifacio VIII indisse una immediata crociata contro i Colonnesi ribelli, scismatici e turbatori dell’unità dello Stato Pontificio.

A capo delle truppe fedeli al Papa fu messo un altro Colonna, il cugino Landolfo, e il cardinale Matteo d’Acquasparta andò in giro per l’Italia per raccogliere il popolo a fianco del Pontefice, in difesa del legittimo Vicario di Cristo.
La guerra si ridusse così presso la roccaforte di Palestrina e, giunti all’estremo delle forze e in disfatta, prima di soccombere letteralmente, i due Colonna ribelli vestiti da penitenti, si recarono a Rieti per supplicare dal Papa il perdono e la pace.
Bonifacio si dimostrò paterno: accolse i due penitenti in modo onorevole, evitandogli ogni umiliazione, prosciolse i colpevoli dalle censure, ma per prudenza non li reintegrò nella dignità cardinalizia.
Tuttavia la vittoria fece vacillare un tantino il Caetani che in un impeto di superiore afflato, si dice per dare una lezione a chi avesse avuto in futuro la tentazione di ribellarsi al Pontefice, ordinò la distruzione totale di Palestrina, obbligando gli abitanti a traslocare a valle in una pianura dove sarebbe dovuta sorgere una nuova città “Civita Papale” a ricordo di questa vittoria.
Questa decisione parve effettivamente esagerata a tutti, anche al collegio cardinalizio, appariva troppo un gesto di soverchia animosità, quasi una forma di vendetta.

Commenta il Balan: ” Severa, troppo severa giustizia, che non è certamente da lodarsi; ma che può scusarsi con la creduta necessità di un terribile esempio ad impedire ribellioni”.
Noi oggi ci scandalizziamo, ma soluzioni come questa era del resto normale e conforme ai costumi del tempo! Basta pensare come il tutto sia nato da atti di cupidigia e di potere non da persone analfabete del popolo, ma da due rampolli di nobile famiglia e pure incardinati fra i cardinali.

-celestino-bonifacio-2a_54451c0e85006Ma aveva davvero torto Bonifacio VIII?

La pace durò poco, i due Colonna ribelli infatti, vedendo sfumata la possibilità di essere reintegrati fra i cardinali (bella pretesa!), gettarono la maschera del pentimento e iniziarono una nuova campagna contro Bonifacio VIII con perfidia e astuzia.
L’astuzia fu tale che persino Dante, il sommo poeta, si convinse delle calunnie dei Colonna con il racconto del capitano dei ghibellini, Guido da Montefeltro, che poi si convertì e si ritirò presso la Porziuncola di Assisi.

Naturalmente non ci siamo preoccupati di riportare tutte le vicende vissute da Bonifacio VIII, qui vi abbiamo riportato solo un filone che collega i fatti sia al suo predecessore Celestino V quanto poi al suo Successore Benedetto XI e, in definitiva, alla fine del papato romano medioevale con l’inizio della cosiddetta cattività avignonese.
Certo non è facile, neppure oggi, ricostruire per filo e per segno nei fatti la parte che ebbe poi Bonifacio VIII nelle altre diverse questioni di governo. Gli scrittori moderni, non meno di quelli antichi, li hanno travisati spesso a seconda delle proprie passioni politiche, guelfe o ghibelline, liberali o democratiche ma, altro esempio pratico, l’accusa di ingerenza di Bonifacio nei fatti di Firenze è inconsistente dal momento che il Papa aveva tutto il diritto di agire per il bene della Chiesa stessa, mentre tutti pensavano esclusivamente ai propri interessi territoriali, di casato e di corona. Inoltre l’agire del Papa era del tutto conforme alle leggi e al diritto vigenti dell’epoca.

Ricordiamo anche che fu Bonifacio VIII ad iniziare l’Anno del Giubileo nel 1300, ma di questo faremo un articolo a parte.
Un altro fatto però è degno di essere riportato correttamente: il famoso schiaffo al Pontefice.

L’11 agosto del 1297, con grande pompa in Roma si celebrava la canonizzazione di San Luigi IX, re di Francia, avo di Filippo il Bello e così la pace sembrava essere ritornata. Roma venne messa a nuovo, si costruiva e tutto si aggiustava.
Ma fu di breve durata e non certo per colpa di Bonifacio.

Edoardo d’Inghilterra e Filippo il Bello avevano firmato un armistizio il 6 febbraio del 1298 e a fare da arbitro all’impresa chiamarono loro stessi il Pontefice Bonifacio VIII ma specificando che il suo arbitraggio non doveva essere da Pontefice, quanto da persona privata.
Ma il nobile arbitro non poteva dare un verdetto privato rischiando che se qualcosa fosse andata storta sarebbe poi ricaduta su tutta la Chiesa di cui lui era comunque sia il diretto responsabile. Così in un Concistoro del 27 giugno Bonifacio promulgò il suo verdetto che pendeva a favore di Edoardo e dunque Filippo il Bello mal digerì.
Accadde un fatto strano, che dopo poco questo arbitraggio il Clero di Francia si lamentò duramente con il Papa a causa di un aumento ingiustificato delle tasse, l’oppressione fiscale si era fatta insostenibile, e intanto si venne a sapere che i due fuggiaschi ribelli Colonna, si erano rifugiati proprio in Francia che, insieme ad altri sibillini frequentatori di Corte, iniziarono a seminare veleni di nuovo contro il Pontefice fino a raggiungere l’animo suscettibile di Filippo.

Tutto casuale?

Bonifacio VIII, armato di santa pazienza, inizia ad inviare al re dei messaggeri di pace, manda il Nunzio Bernardo Saisset vescovo di Pamiers colla missione di sollecitarlo alla crociata per la Terra Santa, ma anche per muovere qualche rimostranza per la violazione dei diritti ecclesiastici. La risposta di Filippo il Bello fu l’incarcerazione del nunzio.
Bonifacio minacciò il re di scomunica se non avesse subito rilasciato il vescovo e contemporaneamente lo invitava a convenire a Roma per un concilio.
Ma accadde un altro imprevisto. Il messo pontificio che recava un altro messaggio il 10 febbraio 1302 inizia a leggere il messaggio del Papa davanti alla corte. Il conte d’Artois, cugino del re, glielo strappa dalle mani e lo getta nel fuoco. Interviene il guardasigilli del regno tale Pietro Flotte a ricostruire a modo suo, e in modo ingiurioso, la breve lettera pontificia, in termini offensivi verso il re e mettendo in bocca al Pontefice l’affermazione che il re di Francia non solo nello spirituale, ma anche nel temporale è soggetto al Papa.
Filippo il Bello fece pubblicare il finto messaggio pontificio, seguito da una risposta che segnava così la rottura: “sedicente romano pontefice”.
In opposizione al concilio indetto a Roma Filippo convocava a Parigi il 10 aprile l’Assemblea degli Stati, nella quale Flotte proclamava la libertà della Chiesa di Francia e affermava che Bonifacio VIII era un intruso, illegittimo e da definirsi al concilio generale per essere deposto.
Dalla nobiltà alla borghesia con gran parte del clero, o per piaggeria o per paura, si schierarono a fianco del re contro le presunte – e false – rivendicazioni attribuite al Pontefice. Per impedire che il clero fedele al Papa andasse a Roma per schierarsi con il Vicario di Cristo, Filippo il Bello vietò loro di uscire dallo Stato, e ordinava il sequestro immediato di tutta la corrispondenza che si aveva con il Pontefice.

E qui ci avviamo alla processo farsa e al sacrilego schiaffo.

La nobiltà francese scrisse ai cardinali in Roma una lettera in difesa del re, dal canto loro il collegio cardinalizio da Anagni rispondevano, il 20 giugno, sfatando le accuse contro Bonifacio e smentendo che il Papa avesse scritto quelle parole al re. Scrivono anche i vescovi di Francia al Papa i quali, ignari della congiura e del diabolico piano avanzato da Filippo, supplicano il Papa a non rompere la pace e a revocare il concilio romano. Insomma, inizia un via vai di corrispondenza frenetica, ma non servirà a nulla.
Ma il Papa non può tacere ai vescovi francesi e così dirige a loro la bolla “Verba delirantis filiae” nella quale disapprova (non sapendo neppure il Papa del piano ordito dal re, nè comprendendo che i vescovi non sapevano quello che era accaduto) la condotta dei vescovi tenuta all’Assemblea degli Stati: per servilismo ad un sovrano essi stavano rinnegando la Santa Chiesa.
Ogni tentativo di conciliazione fallisce, Bonifacio VIII vorrebbe, ma Filippo il Bello è deciso nel dare l’affondo alla Chiesa.
Il 30 ottobre 1302 si apre in Laterano il concilio con una quarantina di vescovi provenienti dalla Francia. In conformità ai sacri canoni fu lanciata la scomunica contro chiunque avrebbe impedito ai Vescovi l’andare a Roma per compiere il proprio dovere, poi fa pubblicare la bolla “Unam Sanctam” il 18 novembre.

Il Documento era imponete (2), riassunto portava in sostanza quattro punti salienti:

1. Non si da che una Chiesa vera al mondo; fuori di questa non v’è salute; uno solo è il corpo mistico di Cristo con un Capo solo e non due. Il Capo è Cristo, e Suo Vicario il Romano Pontefice; chi non vuole essere pasciuto da Pietro non appartiene al gregge di Cristo.
2. V’hanno due spade, la spirituale e la temporale: quella è della Chiesa, questa è per la Chiesa: quella posta in mano al sacerdote, questa al re, ma giusta l’indirizzo il sacerdote.
3. E poichè l’infimo si rannoda per gl’intermedi col supremo, e in tutto si da per subordinazione di gradi; così la potestà spirituale sovrasta alla temporale e ha per debito di istruirla rispetto all’ultime fine, e dirigerla se da esso devia. Chi dunque resiste al potere spirituale supremo stabilito da Dio, resiste alla divina ordinazione.
4. E’ di necessità per la salute eterna che tutti gli uomini siano soggetti al Romano Pontefice.

-celestino-bonifacio-3_54451cd71238eI legalisti di Francia – forse come accade un pò oggi con i Media quando spulciano le parole del Papa – estrassero alla peggio il significato del contenuto del testo, sostenendo che il Pontefice imponeva la sua superiorità. Filippo il Bello otteneva così quello che voleva riuscendo a convincere una trentina di vescovi a lui devoti, nel palazzo del Louvre il 30 giugno 1303, con una lettera di fedeltà al re e contro Bonifacio VIII che conteneva 32 capi di accusa e dove facevano appello ad un concilio generale con l’intento di processare il Pontefice. Il re continuava a sollecitare il clero obbligandolo alla fedeltà per la sua causa, i pochi rimasti fedeli al Papa, specialmente religiosi, che non vollero piegarsi, furono perseguitati, incarcerati e banditi dalla Francia.

In Anagni Bonifacio VIII teneva un Concistoro ad agosto, e con solenne giuramento protestava la sua innocenza di tutte le calunnie ordite dai ministri francesi insieme ai ribelli Colonna. Il Papa aveva pronta la scomunica grave. Ma i Colonna ribelli insieme ad un gruppo di ghibellini, scesi ad Anagni a settembre, fecero irruzione al grido: “Viva il re di Francia! Morte a Bonifacio !”.
Penetrarono negli appartamenti del Pontefice il quale, sentito il trambusto, indossati gli abiti pontifici si andò a sedere sul trono in attesa dei ribelli. Gli erano a fianco gli unici due cardinali rimasti fedeli in quel pericolo supremo: il cardinale Niccolò Boccasino (frate domenicano che gli successe poi nel pontificato col nome di Benedetto XI) e il cardinale Pietro di Spagna, vescovo di Sabina.
All’intimazione di farlo prigioniero, Bonifacio rispose: “Ecco la mia testa! per la libertà della Chiesa, io, legittimo Vicario di Cristo, soffrirò di essere condannato e deposto, e anche martirizzato per mano di Patrini!”

E’ qui, a questo punto che Sciarra, uno dei Colonna ribelli, sfoderò il sonoro schiaffo sulla sacra persona del Pontefice.

Persino Dante che non aveva simpatia per Bonifacio e che per la questione fiorentina aveva messo il Papa all’Inferno nella sua Commedia, al ricordo di quell’atto che definì sacrilego, inorridì e paragona Bonifacio a Cristo messo in croce, e bolla di infamia la condotta di Filippo il Bello che tenne la condotta di Pilato:
Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto? (3)

Ma la ragione pian piano ritorna.
Il cardinale Luca de’ Fieschi, guidando il popolo di Anagni stanco del sopruso, insorsero per liberare il Pontefice. Scortato da quattrocento nobili cavalieri Bonifacio VIII rientrò a Roma accolto trionfalmente dal popolo che seppur si dimostrò indignato per l’oltraggio ricevuto, alla fine era tripudiante per lo scampato pericolo alla vita del Pontefice.
Ma al Papa che aveva iniziato il Pontificato con parole e progetti di pace, questa gli era negata soprattutto dai nemici interni. Infatti a Roma l’attendeva un nuovo colpo, il tradimento degli Orsini che, fingendosi suoi protettori contro i Colonna ribelli, di fatto divennero i suoi nuovi carcerieri, tenendolo come un prigioniero.

La forte fibra del Pontefice fu troppo scossa a questa ennesima prova, sopraggiunsero una serie di febbri forte che lo condussero alla morte un mese dopo essere stato liberato, era l’11 ottobre 1303.

A dispetto del suo movimentato pontificato, gli ultimi giorni furono sereni e confortati dai Sacramenti. Neppure in morte venne lasciato in pace giacché i suoi nemici fecero girare la voce che fosse morto in preda alla disperazione rigettando persino i Sacramenti, fecero circolare una falsa profezia di Celestino V il quale aveva augurato la morte disperata al suo Successore: ” Intrabit ut vulpes, regnabit, ut leo, morietur ut canis.”
In verità la serena morte del Pontefice fu riportata sotto giuramento dai testimoni al suo capezzale e descritta come morte santa e serena dal cardinale Giacomo Gaetano de Stefaneschi, con altri sette cardinali, più l’archiatra di corte.

Questa storia, raccontata brevemente e nell’essenziale, è fondamentale per comprendere come si giungerà poi alla Cattività Avignonese: la politica francese così esclusivista, si arrogava di dominare spiritualmente tutta la cristianità e questo la Chiesa non poteva accettarlo. Il soggiorno ad Avignone ebbe sempre forma di provvisorietà, in attesa della riforma o restaurazione nello Stato Pontificio, schiacciato da sistemi e metodi e dal mal governo che avevano intrappolato Roma in una morsa mortale.
Ma questa è un’altra storia che vi narreremo più avanti.

-celestino-bonifacio-4_54451d955f1e7Vogliamo invece concludere con un Discorso, davvero breve nel quale Paolo VI in visita da San Celestino prima e ad Anagni poi, il 1°settembre 1966, difende Bonifacio VIII non tanto per una commemorazione quanto per un atto di giustizia all’autorità petrina che egli ricopriva.

Leggiamo prima e poi ascoltiamo anche il breve video, solo un minuto, le vibranti parole di Paolo VI tratte da quella visita.

“Siamo nella Chiesa, apparteniamo alla Chiesa; siamo battezzati, siamo Figli di Cristo, abbiamo la stessa fede, bene: chi appartiene a questa società che si chiama, oggi, il popolo di Dio, che si chiama la comunità cristiana, ebbene deve sapere che questa Comunità è organizzata e non può vivere senza l’innervazione di una organizzazione precisa e potente che si chiama la Gerarchia.
Figlioli miei è la Gerarchia che vi sta parlando, e il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi vi dice questo: che non siamo fatti tanto per comandare quanto per servire.
Posso domandarvi, Figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il Papa.
Amate il Papa perchè senza alcun suo merito e senza certamente alcuna sua ricerca gli è capitata questa strana, singolare vocazione di rappresentare Nostro Signore.
Non guardate a Noi, guardate al Signore di cui rappresentiamo..
Siamo al vostro servizio fratelli!”

SOSTA DI PAOLO VI
AD ANAGNI «CITTÀ PAPALE»
Giovedì, 1° settembre 1966

Il Santo Padre, sostando ad Anagni, insiste sul concetto fondamentale di questa visita e non dimenticabile giornata: la continuità della Chiesa, nella sua storia, nei suoi insegnamenti, della sua missione quaggiù.

Paolo VI si è soffermato sull’ininterrotto collegamento degli avvenimenti della Chiesa, che sembrano vincere le distanze del tempo, e sulla necessità che i cristiani si facciano sempre guidare dalla sapienza e dall’amore della Chiesa madre. Sono stato a venerare la memoria del grande e santo Pontefice Celestino – ha soggiunto il Santo Padre – ma non si può rievocare la memoria di questi senza ricordare anche quella del suo successore Papa Bonifacio che fu tanto diverso da lui, formidabile nella sua azione per la Chiesa e che ha dato con la sua presenza e la sua opera celebrità immortale a questa città.

Noi non stiamo qui – ha proseguito il Santo Padre – per avanzare rivendicazioni o tessere panegirici, né commemorazioni, ma unicamente per cogliere l’aspetto più caratteristico dell’opera di questo Pontefice. Nessuno ebbe, forse, più di lui tanti nemici, nessuno, come lui, fu tanto bersagliato, calunniato e perfino oltraggiato. Perché? – si è chiesto Paolo VI -.
Perché al di là di certi atteggiamenti della sua personalità, della sua politica, del suo carattere, egli è stato il Papa che più degli altri ha affermato l’Autorità del Romano Pontefice, la continuità che ad esso deriva dall’aver ereditato il potere che Cristo aveva dato a Pietro e in Pietro a tutti i successori. Egli svolse il suo mandato apostolico con forme di autentica luce.

Bonifacio VIII – ha osservato il Sommo Pontefice – ha fatto quello che oggi si vorrebbe fare senza forse riuscirci: quello che oggi si chiama «la scala dei valori». Perché Bonifacio VIII ha avuto l’intrepida forza di affermare la formula della più piena e solenne autorità pontificia, il concetto – che fu, poi, dagli altri Papi meglio definito – dell’esistenza dei due poteri, uno spirituale, l’altro temporale, entrambi sovrani nel loro ordine, salvo che nella loro applicazione nella vita umana: i valori dello spirito devono condizionare gli altri valori umani.
La lezione di questo Papa è il senso dell’appartenenza alla Chiesa, la comprensione degli obblighi di lealtà alla gerarchia per ogni cattolico, dal momento che appartiene a una società organizzata. La gerarchia, ha detto ancora il Santo Padre, è la causa efficiente, il principio di vita della Chiesa. Dio – ha proseguito – non ci ha lasciato camminare come pecore senza guida, ma ha incaricato qualcuno di organizzare il suo Corpo Mistico.
Perciò alla gerarchia dobbiamo obbedienza, una obbedienza, capita, professata, meditata, non come schiavi o vinti, ma come figli che la reclamano, l’amano, la servono. Posso domandarvi – ha esclamato, a questo punto, il Papa, suscitando come risposta un fervido e prolungatissimo applauso – la grazia che voi non vi rifiutate di amare il Papa? «Amate il Papa», al quale senza suo merito o ricerca è affidata la singolare missione di rappresentare il Signore davanti alla Chiesa universale e che non ha altra aspirazione se non quella di salvare, di farvi felici, perché la sua autorità è un servizio: il servizio del Servo dei servi di Dio.

Accennando agli avvenimenti storici vissuti dalla Cattedrale di Anagni da dove partirono le più gravi scomuniche contro re e imperatori e dove ebbe inizio lo scisma d’Occidente, l’Augusto Pontefice esprime l’augurio di pace, di fraternità, di amore; ed il voto che da questo stesso luogo parta il fraterno invito a quanti sono ancora divisi dalla Chiesa perché sia ritrovata e raggiunta l’unità e si faccia un solo ovile sotto un solo pastore. Perché questo avvenga – ha concluso il Papa – voi dovete essere come lampade luminose nel cielo della Chiesa, esempio di carità e di rinnovamento spirituale come vuole il Concilio.

Grazie per averci seguito fin qui.

Note

1) tutto l’articolo prende spunto dal Vol. II Storia dei Papi – C.Castiglioni prefetto all’Ambrosiana – 1957 seconda Ed. riveduta e aggiornata fino al Papa regnante Pio XII
2) Padre Tito Bottagisio ” Bonifacio VIII e un celebre commentatore di Dante”
3) Divina Commedia, Purgatorio, XX, 85-90