La “teologia della comunicazione”: il mezzo è il messaggio

La Chiesa cattolica ha sempre curato la liturgia e il linguaggio perché ha sempre saputo che «quando si perde la battaglia delle parole si perde anche quella delle idee» (Georges Bernanos). Purtroppo pare abbia perduto, negli ultimi anni, questa consapevolezza.

Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte di Marshall McLuhan, il grande sociologo canadese – convertitosi dal protestantesimo al cattolicesimo – che più di ogni altro ha studiato i mezzi di comunicazione.

Herbert Marshall McLuhan 1911-1980)
Ritratto di Herbert Marshall McLuhan (1911-1980)

Lo studio di McLuhan è molto vasto e articolato, non è facile da riassumere, ma vi è una sua frase che, in un certo senso, può spiegare il fallimento della pastorale usata dal clero dal Vaticano II in poi: «Il medium (mezzo) è il messaggio».

Ovvero, nell’arte del comunicare, della comunicazione, è necessario usare un mezzo, un linguaggio, che non distorca o manipoli il messaggio. Al di là del contenuto, è la forma il primo vero messaggio che giunge ai singoli e alle masse.

Facciamo un esempio pratico. Nel 1960 ci fu il primo faccia a faccia, negli Stati Uniti, fra due candidati alla presidenza, John Kennedy e Richard Nixon; “dibattito presidenziale” che fu trasmesso dalla radio e dalla televisione.

È interessante notare che la stragrande maggioranza dei telespettatori affermò che “vinse” JFK, mentre i radioascoltatori furono pressoché unanimi nel ritenere che lo “scontro” finì in pareggio, anzi, per quanto riguarda la politica estera, Nixon, forte della sua esperienza di vice-presidente uscente, fu più concreto.

Com’è possibile questa differenza nel decretare l’esito del dibattito? I telespettatori e i radioascoltatori non udirono le stesse parole? Sì, ovviamente, ma non videro le stesse immagini. Anzi, si potrebbe dire che, mentre i radioascoltatori ovviamente non videro gli sfidanti, i telespettatori non gli ascoltarono, perché furono distratti dal campo visivo. Il mezzo (tele)visivo, veicola non alla sostanza, ma all’apparenza, confonde, “manipolando” il messaggio che giunge.

Il duello televisivo fra Kennedy e Nixon. Fu la prima vera "televendita" della storia.
Il duello televisivo fra Kennedy e Nixon. Fu la prima vera “televendita” della storia.

John Kennedy, infatti, più che sulla concretezza del proprio programma politico, puntò sul suo essere “telegenico”, quello che in gergo viene detto “bucare il video”. Rispondeva e replicava molto spesso usando slogan, ma guardava sempre verso la telecamera con espressioni decise e sicure. In pratica, JFK più che un dibattito politico, fece una “televendita”, una campagna non elettorale ma pubblicitaria. I telespettatori, “deviati” dal mezzo (tele)visivo, confusero l’apparenza con la sostanza. Da allora, infatti, le campagne elettorali americane vengono fatte tramite il marketing.

Fine ultimo del marketing è, ovviamente, vendere un prodotto, indipendentemente dal fatto che sia realmente quello che viene presentato. La pubblicità deve indurre un “bisogno” al consumatore – i famosi “bisogni indotti” – affinché la vita diventi impossibile senza possedere quel prodotto. Ai venditori porta a porta viene infatti detto che devono riuscire a vendere anche la spazzatura. Il linguaggio pubblicitario manipola e illude il ricevente, distorce e modifica il messaggio.

Ed è stato questo tipo di linguaggio – una specie di “pastorale-marketing” – che ha fatto prevalere l’ermeneutica della rottura e della discontinuità su quella della riforma nella continuità. I nostri pastori hanno accantonato lo stile evangelico del “sì sia sì e il no sia no”, per un linguaggio squisitamente pubblicitario, deformante e ambiguo, che dice tutto e il contrario di tutto; quel “di più che viene dal Maligno”, come spiega Nostro Signore.

Del resto «il principe di questo mondo – afferma McLuhan – è un grande comunicatore». Forse il più bravo di tutti.

Abbandonando il linguaggio definitorio e inequivocabile, il magistero ecclesiastico è diventato “liquido”, deformabile, malleabile, adattabile a qualsiasi contenitore.

Utilizzando non più il metodo evangelico, ma quello degli slogan pubblicitari (Dio è amore, volemose bene, misericordia per tutti, pace e amore, i “poveri” prima di tutto, etc.), è giunto alla gente non il Vangelo, ma un nuovo “prodotto”: un cristianesimo senza dogmi, una Chiesa non più ancella del Signore, ma serva del mondo, il cui fine non è più la salus animorum, ma rendere questa valle di lacrime una “serenopoli” in cui tutti gli uomini, avendo appagati i propri desideri (capricci), stiano bene, senza problemi e difficoltà. Cioè senza croce.

Davvero il cambio dello stile linguaggio ha causato questo tragico fallimento?

Padre O’Malley, S.J.
John W. O’Malley S.J.

Uno studioso dei concili ecumenici, il progressista John W. O’Malley, S.J., ha spiegato che non fu infatti il magistero in sé – la lettera del concilio – che fece segnare al Vaticano II «una rottura definitiva con i concili precedenti» ma il nuovo modo di esprimersi. «Lo stile è – continua il gesuita irlandese – l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza». Ovvero, il tipo di linguaggio è la pastorale per antonomasia.

I padri conciliari – la cui parte progressista fu protagonista principalmente del “concilio mediatico” denunciato da Benedetto XVI – avevano ben compreso, conclude P. O’Malley, che «il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un concilio docente (…). Lo stile discorsivo del concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio». «Questo significa che il Vaticano II, il “concilio pastorale”, ha un insegnamento, una “dottrina”, che in gran parte è stato difficile per noi formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa medaglia».

Praticamente Satanasso, il “grande comunicatore di questo mondo”, ci ha “messo nel sacco” con le nostre stesse armi: col primato della prassi sulla teoria, della realtà sulla verità, è riuscito non a cambiare il depositum fidei, ma a ribaltarlo, a renderlo optionale, facoltativo, anche per gli stessi battezzati. Disgraziatamente continuamo ancora a cadere nel suo tranello.

E fu così che cominciò la televendita della Gerarchia...
Buonasera…

Il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, quando tornò negli Stati Uniti dopo l’elezione al soglio di Pietro di papa Francesco, dichiarò ai giornalisti che «abbiamo cambiato pubblicità, ma il prodotto è sempre lo stesso». Purtroppo non è così. Come abbiamo già spiegato, la pubblicità distorce, contorce, il prodotto, creandone uno nuovo, una caricatura.

Ogni vescovo di Roma ha un suo modo di governare la Chiesa, ma per quanto riguarda la custodia del depositum fidei, devono essere pressoché unanimi. Ma lo stile del linguaggio scelto dai principi della Chiesa nel marzo 2013 – papa Francesco ha dichiarato in un’intervista al Messaggero che le sue decisioni sono frutto di ciò che è stato chiesto dai cardinali durante il pre-conclave – è un mezzo che rende il messaggio ancora più liquido e adattabile di quello dell’immediato post-concilio.

Mettere da parte la roccia dottrinale, privilegiando la “liquidità pastorale”, ha portato ai singoli e alla masse non il messaggio evangelico, ma una patetica caricatura di Cristo e della sua Chiesa. Gesù non è più il Crocifisso, l’unico redentore del genere umano, ma un “amicone”, un rivoluzionario politicamente corretto dedito alla giustizia sociale. Così come la Chiesa non è più il corpo mistico di Cristo, ma un “paese delle meraviglie” in costruzione, una specie di nuovo paradiso terrestre in cui la presenza di Dio sarà facoltativa.

Il papa regnante è una figura carismatica, un grande comunicatore, ma purtroppo lo stile del linguaggio adoperato dalla Gerarchia ultimamente non mette, mediaticamente parlando, al centro Cristo e il suo Vangelo, ma la persona privata di papa Francesco. Non importa, sostanzialmente, che cosa egli dica o faccia — ma bisogna onestamente riconoscere che ci mette parecchio di suo –, se cederà oppure no alle pretese mondane, ma ciò che mediaticamente rappresenta: l’illusione che la Chiesa non richiamerà più alla conversione personale, rinunciando al trionfo della regalità sociale di Cristo.

Finché i nostri pastori non ritorneranno ad usare il linguaggio evangelico del “sì sia sì e il no sia no”, abbandonando definitivamente il marketing pubblicitario – Cristo non è un prodotto da commercializzare, ma il Divin Maestro da seguire e amare –, finché i battezzati non ricorderanno che la vera fede si difende anche a costo della propria vita e andare d’accordo con tutti non è importante per i discepoli di Cristo, non usciremo da questa cappa di ambiguità e incertezza che alberga nella Chiesa negli ultimi cinquant’anni. Ciò che rende il Vangelo irresistibile – scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani – è la Croce, la sua predicazione.


AGGIORNAMENTO:

 La chiesa che fa sociologia

Il rapporto Kasper su uomo e famiglia è inquinato dal marketing ecclesiastico, dice il consigliere di Giovanni Paolo II sulla famiglia (2014)

di Stanislaw Grygiel

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La laicizzazione propria della postmodernità irrompe anche nella Chiesa. Turba le menti e i cuori dei fedeli con domande insidiose, tra le quali oggi prevale questa: Davvero Dio ha detto ciò che la fede della Chiesa gli attribuisce sul matrimonio e sulla famiglia? La domanda: “E’ vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare?…” (Gn 3, 1-3), in illo tempore rivolta dal tentatore all’uomo e alla donna provocò la caduta primordiale.

In fondo, il dubbio in cui nascono domande del genere esprime la negazione della verità e, di conseguenza, della dignità dell’uomo. Esso elimina dal campo visivo dell’uomo i principi del suo essere persona. La verità dell’uomo, infatti, gli si rivela in un altro uomo, cioè nella comunione con lui. Proprio per questo la negazione della verità della persona deve innanzitutto colpire le amicizie, il matrimonio, la famiglia in cui questa persona vive. Ogni realtà viene micidialmente colpita dalle parole il cui contenuto non le appartiene e le viene imposto.

Le parole contraffatte incatenano la realtà alle cose che le sono estranee. E’ ciò che oggi succede alla realtà del matrimonio e della famiglia. La postmodernità cerca di convincere l’uomo e la donna che è lecito mangiare il frutto dell’albero che cresce nel giardino della loro relazione plasmata dalla differenza sessuale e la cui invisibile luce indica loro la via da prendere verso la verità. Proprio questa luce è d’intralcio a una volontà che voglia dominare tutti i regni del mondo. Non potendo colpire la luce stessa, questa volontà fa tutto il possibile per esiliare da questa luce l’uomo e la donna e, di conseguenza, farli cadere nell’oblio della verità. Non c’è allora da meravigliarsi come per questa volontà la Chiesa rappresenti un nemico, se posso così dire, primordiale. Il suo cedimento costituirebbe una sconfitta della persona umana.

Consapevole della caduta primordiale dell’uomo e del suo esilio, con la voce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI la Chiesa risvegliava e continua a risvegliare negli uomini la memoria di quell’unico albero la cui luce fa vedere la verità di tutto il giardino. Penso che anche per questo Papa Francesco abbia convocato il Sinodo dei Vescovi. C’è infatti una urgente necessità di aiutare i cristiani a vedere meglio la bella e sacra verità del sacramento che unisce l’uomo e la donna “in una carne”. Come venire loro in aiuto? La risposta è stata data da Cristo.

Un giorno Cristo pose ai Suoi discepoli due questioni. La prima era questa: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Essi risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Va bene, questo è ciò che gli altri  pensano di Me. Il fatto che Cristo non si sia soffermato sulle opinioni è per noi un’importante indicazione. Mi sembra che, avendola dimenticata, si sia perso tanto tempo per un’inutile inchiesta presinodale. I sociologi hanno già risposto e continuano a rispondere in modo scientifico alle questioni poste. I vescovi per primi dovrebbero sapere come stanno le cose nelle loro diocesi.

La seconda domanda era questa: “Voi chi dite che io sia?”. Questa domanda è la sola importante per Lui e la sola fondamentale per la Chiesa stessa. A nome di tutti, Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Su questa domanda Cristo concentra la predicazione del Regno e con la Sua presenza insegna ai discepoli a cambiare il modo di pensare se stessi. Non più attraverso le opinioni ma attraverso la conversione alla verità.

Questo episodio ci mette in guardia dal pericolo di confondere con la fede della Chiesa la vox populi espressa nelle risposte date all’inchiesta presinodale. Non dimentichiamo che solo dopo la risposta data da Pietro alla seconda domanda, non alla prima, Cristo gli disse: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la Chiesa. (…) A te darò le chiavi del regno dei cieli…” (Mt 16, 13-19). Il mistero della salvezza non è una realtà da calcolare sociologicamente. Mi domando: accadrà questo nel Sinodo? Accadrà se i problemi pastorali sociologicamente vissuti (la prima domanda) incideranno sulla risposta alla seconda domanda, così da rendere ambedue inutili per il mondo moderno. Le domande sul matrimonio e sulla famiglia dovrebbero essere comprese dalla seconda: “Voi chi dite che io sia?”. La parola sul matrimonio e sulla famiglia deve essere la Parola del Padre e non invece una risultante delle statistiche. Disgraziatamente la propaganda comunista ha inciso sulla mentalità occidentale così che persino nella Chiesa da quasi cinquant’anni si è infiltrato il principio marxista del pensare per cui l’efficacia della praxis prevale sulla contemplazione del Logos. Penso al predominio della praxis pastorale sulla dottrina che nella Chiesa è la persona del Figlio del Dio vivente. Non riesco a darmi pace dal giorno in cui una persona autorevole mi ha detto: “Basta con la dottrina di Wojtyla e di Ratzinger, adesso bisogna fare qualcosa!”. Le conseguenze di una tale “impostazione” del lavoro della Chiesa sono gravissime. Parlando filosoficamente, il “fare” che domina l’“essere” e l’“agire” (amare e conoscere) si traduce in una pura produzione. Se quel regno dell’amore e della libertà che è la Chiesa si lascerà plasmare soprattutto dalla praxis pastorale, prima o poi essa farà parte del mondo tecnico e della sua civilizzazione, che io chiamo produttura (productura) in opposizione alla cultura (cultura). Nella produttura pastorale la fede non attecchirà.

Ho letto con grande interesse il testo del cardinale Kasper al recente Concistoro, ma mi rincresce dover dire che ne sono deluso e preoccupato. Sono deluso e preoccupato non come teologo oppure patrologo ma come un semplice cristiano che cammina nella fede sulla via del matrimonio e della famiglia. I teologi e i patrologi analizzino attentamente questo testo per valutarlo dal loro punto di vista. Il loro silenzio sarebbe peccatum omissionis. Come semplice credente, avrei sperato d’essere introdotto dal cardinale nella contemplazione della bellezza della verità del matrimonio e della famiglia. La sua relazione ha invece richiamato l’attenzione dei cardinali sui problemi legati con la prima domanda, quella sociologico-pastorale, il che potrebbe avere gravi conseguenze per i lavori del Sinodo, dal momento che le difficoltà pastorali potrebbero ottenebrare la nostra visione del “dono di Dio”.

La contemplazione della verità dovrebbe dare forma e tono al Sinodo, ma alcune domande poste dal cardinale, che già suggeriscono le risposte, lasciano pensare a un altro scenario. La parte centrale di questo discorso può indurre i cardinali a credere che oggi la prima domanda di Cristo sia più importante della seconda. C’è il pericolo che i problemi sociologico-pastorali possano prevalere sulla contemplazione della presenza sacramentale di Cristo nel matrimonio. Nessuno dubita che la Chiesa debba pensare ai problemi indicati dalla prima domanda, deve però farlo in una continua rinascita di sé, cioè in un continuo ritornare al Principio in cui Dio nella e con la Sua Parola crea l’uomo come uomo e donna. Fondamentale è e sarà il continuo dare una risposta, sempre più profonda, alla seconda domanda.

Rinascendo nella Parola che è Cristo, cioè convertendosi a Lui, la Chiesa deve ogni giorno confessare: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Leggo nella relazione: “Tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute da molti cristiani si è creato un abisso”. Questo è un fatto. Però la Chiesa commetterebbe un peccato primordiale se si lasciasse trattenere dalla prima domanda e cercasse di truccare il Figlio del Dio vivente a seconda della moda postmoderna, perché la gente Lo scelga come si sceglie una miss tra le candidate truccate in modo adatto allo scopo. La Chiesa che nasce ed è presente nel matrimonio e nella famiglia deve essere fino alla fine del mondo “segno di contraddizione” e di scandalo per il mondo. Il mondo voterà sempre contro di Lei.

Dobbiamo essere grati al cardinale quando dice che il “Vangelo della famiglia” è luce grazie alla quale la vita nel matrimonio e nella famiglia riprende forza e non diventa peso. Tuttavia le sue domande suggeriscono – vorrei sbagliare! – che questa luce è troppo pesante. Non sono d’accordo con lui quando dice che l’uomo non è stato creato per il lavoro ma per la celebrazione del sabato con gli altri e che dobbiamo imparare di nuovo dagli Ebrei a celebrarlo. Gesù rispose a coloro che Gli avevano rimproverato di non osservare il sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (cfr. Gv 5, 17). Il lavoro del Padre è esattamente Amore. Il lavoro e l’amore costituiscono un insieme. Staccare l’uno dall’altro significa distruggere l’uno e l’altro. L’amore ha carattere creativo, esso è generante. Lo sappiamo dalla personale esperienza illuminata dal racconto biblico dell’atto della creazione dell’uomo (cfr. Gn 1, 28). La via dell’amore è difficile, ma proprio questo difficile amore fa sì che il lavoro non diventi peso. Ridurre l’amore a un qualche facile evento nella vita significa chiuderlo all’eternità.

Aumenta il numero dei divorzi e dei matrimoni civili o addirittura delle convivenze basate solo su affetto e interessi. Ne nascono dei figli. Comprendo le difficoltà di coloro che sono caduti in queste trappole, vedo le loro ferite. Non mi risulta però chiaro cosa il cardinale abbia in mente quando scrive: “Non basta considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale; abbiamo bisogno di un cambiamento del paradigma e dobbiamo – come lo ha fatto il buon Samaritano (Lc 10, 29-37) – considerare la situazione anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto”. Allora la praxis pastorale deve accantonare l’evento del sacramento? E’ questo che il cardinale Kasper intende che si faccia? Nel vangelo il buon Samaritano cura il povero viandante assalito, così da ridargli la salute! Tratta le sue ferite in modo amorevole, nella prospettiva che gli apre l’amore per la persona di quel poveretto. La Chiesa non può tollerare il divorzio e il risposarsi dei divorziati proprio perché Essa li deve amare. L’amore della verità dell’essere l’uomo persona è paradigma dell’aiuto dovuto agli uomini aggrediti dal male. Ripeto ancora una volta: l’amore è difficile. Esso è tanto più difficile quanto più grande è il male da curare nell’amato. E’ la verità della persona a definire il modo di avvicinarsi pastoralmente all’uomo ferito, e non viceversa. La perdita del senso del peccato manifesta la perdita del senso del sacro e lascia cadere nell’oblio la vita sacramentale.

Avvicinandosi alla persona divorziata, il pastore dovrebbe partecipare al dialogo di Gesù con la Samaritana (cfr. Gv 4, 4 e s.). Questo dialogo dice cosa sia la comunione spirituale. Gesù rivela alla donna che il desiderio di cui ella arde è desiderio dell’“acqua viva”, cioè del “dono di Dio”. La Samaritana gliela chiede per non aver più sete. A questo punto Gesù le pone una condizione: “Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui!”. Colpita dalla scienza profetica di Gesù, la donna gli si apre, confessando il proprio peccato in modo molto sottile: “Non ho marito”. Gesù allora le spiega come Dio vuole essere adorato (“in spirito e verità”). Alla fine le rivela chi Egli sia: “Sono io / Messia /, che ti parlo”. Direi al Cardinale: questa è misericordia! Perdonata, la donna corre dai suoi concittadini e annunziando loro il Messia confessa anche i suoi peccati.

La comunione spirituale si compie nel desiderio di unirsi con Cristo nel Suo corpo e nel Suo sangue. E’ un cammino nella coscienza che lentamente si rende conto del peccato e lo confessa. L’odierna praxis pastorale, sprofondata nella prima domanda, ha fatto sì che i confessionali siano stati venduti agli psicologi e agli psichiatri. La proposta insidiosa di identificare la comunione spirituale con la comunione eucaristica colpisce il sacramento stesso. Esorto ora i pastori a stare ben attenti: l’Eucaristia è da adorare (“in spirito e verità”) e non da manipolare!

Mi fa tremare la scena in cui Gesù, dopo aver detto che chi non mangia il Suo corpo e il Suo sangue non avrà la vita eterna, viene abbandonato quasi da tutti tranne i Dodici. Ed è a questi futuri Pastori che in questa drammatica situazione Egli chiede senza mezzi termini: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6, 67). Andate pure! Siete liberi! Verranno gli altri!

Queste parole di Gesù non cesseranno mai di essere attuali. Ma siamo anche certi che non ci sarà mai il tempo in cui Pietro non direbbe: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68-69).

Nella conferenza del cardinale Kasper c’è ancora un suggerimento che potrebbe ingenerare qualche malinteso, e cioè che sarebbe forse meglio lasciare la decisione sulla validità del proprio matrimonio al giudizio della coscienza del divorziato; basterebbe forse affidare il compito di valutare il giudizio del soggetto interessato a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale… La pastorale e la misericordia non si contrappongono alla giustizia ma, per così dire, sono la giustizia suprema, poiché dietro ogni causa c’è una persona “che ha sempre una dignità unica”. Le carte dei tribunali ecclesiastici non devono prevalere su questa dignità, dice il cardinale. Giusto. Il codice di diritto canonico non è da identificare con il codice penale. Esso è una teologia che aiuta l’uomo a vivere nell’amore e nel lavoro, facendogli vedere che quanto è più grande e bello, tanto più l’amore è difficile, e che esso chiama gli uomini a un adeguato lavoro. Se la Chiesa valutasse la validità del matrimonio soltanto sulla base delle carte, le decisioni potrebbero essere rapide e prese anche da un parroco. La Chiesa però si comporta in altro modo proprio a causa della dignità unica della persona. Ogni uomo è un’opera d’arte e come tale egli è prima di tutto da contemplare “in spirito e verità” e non da manipolare a seconda delle circostanze attuali.

Tra parentesi, pongo una domanda: sarebbe forse più adeguato alla situazione di oggi anche lasciare il giudizio sulla validità dell’ordinazione sacerdotale alla coscienza del sacerdote interessato? Certo, una battuta, ma la posta in gioco esige una riflessione serissima.

Giovanni Paolo II sotto la croce a Nowa Huta, dove la gente difendeva questo segno di salvezza con il proprio sangue, ha detto che la nuova evangelizzazione inizia sotto la croce. Essa inizia nelle donne e nel mistico discepolo radunati intorno alla Madre del Crocifisso. Gli altri discepoli di Cristo erano fuggiti da là per la paura. La nuova evangelizzazione inizia nella maternità di Maria unita alla Paternità di Dio rivelata nel loro Figlio crocifisso. La nuova evangelizzazione consiste nel continuo rinascere della Chiesa. Le persone rinascono ritornando ai Principi della vita, alla maternità e alla paternità la cui unione risplende nel Crocifisso. Quando allora parliamo della donna e dell’uomo, non parliamo degli incarichi nelle strutture ecclesiastiche (cfr. l’intervista del cardinale Kasper pubblicata su “Avvenire” l’1. III. 2014). Noi tutti, anche il Papa e i vescovi, ritroviamo la dignità della nostra persona nell’Eucaristia pasquale che riceviamo sotto la croce. Apparirebbe grottesco chi, dimenticandolo, trovasse rifugio negli incarichi!

di Stanislaw Grygiel

Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma presso l’Università Lateranense, è stato allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino. Successivamente, è stato consigliere e confidente del Pontefice polacco, con il quale ha condiviso una lunga e profonda amicizia. Tra i suoi libri, si ricordano “Dialogando con Giovanni Paolo II” (Cantagalli, 2013) e “Dolce guida e cara” (Cantagalli, 2008).

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