Il caso Rahner: una critica eccessiva o “teologicamente scorretta”?

In queste note, raccogliendo gli stimoli provenienti dagli echi suscitati dalla critica a Rahner, vorremo fondamentalmente rispondere a due domande, che a nostro giudizio sono, in un certo modo, la sintesi delle tesi dei difensori di Rahner.

di Padre Serafino Maria Lanzetta, F.I.

Si sta registrando, in quest’ultimo scorcio di tempo, una presa di coscienza sempre più ampia della problematicità del pensiero di Karl Rahner per la comprensione della fede. Sprazzi di luce fanno sperare che ci si ponga finalmente ed ufficialmente in modo critico, ma pur sempre nella carità, davanti al pensiero onnicomprensivo ed ecclesiasticamente persuasivo del gesuita Rahner. Voci diverse si alzano ed invocano l’opportunità di condurre fino in fondo la critica. Al contempo, come è naturale, voci che, invece, ne sottolineano l’inopportunità, la superficialità, la scorrettezza, ma che a nostro parere, sembrano eco di quel “teologicamente corretto”, che ora dalla politica è stato trasferito anche alla teologia.

© Isolde Ohlbaum / laif / contrasto

Ricostruiamo brevemente gli ultimi interventi, dopo che il nostro Istituto Teologico “Immacolata Mediatrice”, organizzò un convegno di studi dal taglio critico su Karl Rahner a Firenze, nel 2007, i cui atti sono apparsi nel 2009 per le edizioni Cantagalli (S. M. Lanzetta, a cura di, Karl Rahner un’analisi critica. La figura, l’opera e la recezione teologica di Karl Rahner [1904-1984]).

Si segnalò dapprima il giornale di Giuliano Ferrara (lui “ateo devoto” che si interessa dei problemi interni alla Chiesa, del magistero del Pontefice e degli smarrimenti dottrinali, sic!), Il Foglio, che pubblicò una recensione al nostro libro del Prof. Roberto De Mattei. Questi sottolineava la necessità di condurre fino in fondo la critica a Rahner. Il titolo scelto dal giornale per la recensione recitava: Karl Rahner, maestro del Concilio, di Martini e della coscienza relativa (sabato, 30 maggio 2009, p. 2).

Non contento di ciò, Ferrara volle sentire il parere anche di due studiosi di Rahner, Mons. Lorizio dell’Università Lateranense e la Prof. Salatiello, dell’Università Gregoriana. Mentre il Prof. Lorizio si dichiarava alquanto favorevole ad una critica a Rahner, ma misurata, equilibrata, dunque da non condurre fino in fondo, la Prof. Salatiello, invece, non riusciva a capire i motivi di tanto arroccamento e di tanta prevenzione nei confronti di Rahner. Questo lo diceva in considerazione di uno dei testi fondamentali di Rahner, da lei prediletto, Uditori della Parola, che da solo basterebbe a smentire la “ricostruzione” di De Mattei, ovvero quella critica a Rahner che lo accusa di esistenzialismo trascendentale e di collocare Dio come interpellante nella natura dell’uomo in quanto uomo, in uno stadio pre-religioso. Rahner a differenza dell’heideggerismo-hegelismo rimproveratogli dai suoi critici, sarebbe, per la Salatiello, in perfetta linea col tomismo di Tommaso d’Aquino.

Il Foglio (del 17 giugno 2009, p. 3) pubblicava un’ampia pagina su Rahner, aperta dall’intrepido Ferrara, che non la pensa come i suoi intervistati, le due interviste di cui dicevamo e alla fine un altro pezzo di De Mattei, che chiudeva la discussione, rispondendo ai difensori di Rahner.

Ancora, ed ora con più sorpresa, su Avvenire (del 5 novembre 2009, p. 32), A. Galli recensiva il recente lavoro di critica a Rahner, mostrandosi, tra le righe, piuttosto d’accordo – e per un giornale dei Vescovi Italiani questo non è poco – al modo di procedere dei «fiumi carsici che scorrono a lungo prima di trovare un pertugio e salire in superficie». Era favorevole cioè a quelle voci “fuori dal coro” che hanno segnalato sempre l’insinuosità e la problematicità della svolta rahneriana, tramite obbligatorio per collegare il pre- al post-concilio.

Nel frattempo, è venuta alla luce un’opera esimia del padre domenicano Giovanni Cavalcoli, Karl Rahner. Il Concilio tradito (Fede e Cultura 2009). P. Cavalcoli, studioso del pensiero rahneriano, appura che in Rahner emerge una volontà manipolatoria che si serve del Concilio, dei suo testi, letti ambiguamente, per affermare verità nuove, sconosciute alla Tradizione della Chiesa ma non alla modernità immanentista. Le svolte rahneriane, infatti, hanno avuto le loro più fedeli sistematizzazioni nel campo morale: un vero far west soggettivista della libertà come compimento di sé oltre la norma.

In queste note, raccogliendo gli stimoli provenienti dagli echi suscitati dalla critica a Rahner, vorremo fondamentalmente rispondere a due domande, che a nostro giudizio sono, in un certo modo, la sintesi delle tesi dei difensori di Rahner:

  1. è ancora valida, oggi, una critica teologica che si mostri intransigente, denunciando gli errori teologici, dopo averne appurato la loro cogenza?
  2. Bisogna valutare un Rahner filosofo prescindendo dal Rahner teologo o, invero, non c’è la filosofia di Rahner senza la teologia e viceversa, e questo sin dai suoi albori filosofici?

Occore precisare subito che, la critica a Karl Rahner non è mossa da semplice antipatia culturale, da una prevenzione contro la modernità, o da un esasperato tradizionalismo. Neppure si vorrebbe far passare Rahner come il “capro espiatorio” di un sacrificio esigito da una cultura che necessariamente scarica le sue colpe su qualcuno e così si autoassolve. Essa, invece, è fondata sui dati di un percorso intellettuale che non ha lasciato affatto indifferente l’architettura della fede: ha segnato numerose svolte, troppe a dire il vero, da alimentare numerosi sospetti.

Per il fatto che ogni teologia è utile quanto al suo essere uno sforzo umano da inquadrarsi nel progresso del sapere e una spinta ad ulteriori conquiste o approfondimenti, non ne consegue però una sempre dovuta e supina accoglienza, precludendo ogni intervento forte di segno contrario. È, per così dire, la “falsificabilità” anche del metodo teologico che muove a prendere le dovute cautele da un pensiero, come quello rahneriano, che manifesta non pochi punti deboli e del resto perniciosi.

Il fatto di esser grati ad una malattia per il progresso in ambito medico-scientifico da essa sollecitato, non preclude però il dovere della Sanità di denunciarne gli effetti nocivi. In ambito dottrinale questo compito dovrebbe essere proprio dei Pastori della Chiesa, che però sembrano d’altro avviso quanto agli errori che circolano. Non li si ode quasi mai in questo campo. Li si vede preoccupati più che altro delle questioni etiche. Forse il vero problema è questo: è ancora rilevante l’errore? Si può ancora parlare di un errore che non sia un bene ma un male? Rahner direbbe di no, in ragione dell’idealismo precipuamente hegeliano. Oggi tanti nella Chiesa direbbero con Rahner di no. Eppure le conseguenze di questo “no” sono sotto i nostri occhi: il mondo è entrato nella Chiesa ma la Chiesa fa ancora fatica ad entrare nel mondo.

Oggi più che mai si evidenzia il fatto, da molti attribuito al nuovo “spirito conciliare”, di dover sempre plaudire ad ogni novità in quanto nuova e poi magari limitarsi, nelle sedi dovute, ad una critica, scevra di echi altisonanti, di sterili arroccamenti.

Una critica lasciata comunque “in sordina”, magari per gli addetti ai lavori, perché in fondo non si deve più condannare nessuno, ma solo essere misericordiosi. Questo ha provocato un’ingenua e troppo benevola ricezione della modernità, trasformatasi presto in modernismo. Si può essere però misericordiosi con l’errore? No, ma solo con le persone.

Il problema che oggi siamo chiamati ad affrontare è la nuova e caratteristica rilevanza dell’errore, da denunciare e sradicare per amore della verità. Non si è tradizionalisti o addirittura lefebvriani perché si denuncia un errore. Bollare qualcuno d’asmatico tradizionalismo o di gretto conservatorismo, è oggi la via più facile per farla finita con la fatica della verità, che non è semplicemente, al dire di Rahner, la fatica di un concetto, ma è la fatica della realtà.

La realtà non è un concetto. Gli idealismi si rivelano profondamente vulnerabili nella loro pretesa di ridurre la realtà ad un concetto, la fede ad un concetto. La realtà, invece, precede il concetto e la fede precede la realtà: viene dall’alto. Non c’è un Kern dal quale dipende ogni soluzione, ogni risposta. Questa è la malattia dell’idealismo.

Questo ottimismo nei confronti di tutte le “nuove” proposte si riveste, spesso, di una giustificazione filosofica e talvolta anche teologica negli apologeti intrepidi dell’opera di Rahner. Entriamo nel merito della questione che si profila.

Partiamo anzitutto dal fatto che non è possibile capire Rahner cominciando da Uditori della Parola. Bisogna premettere la sua opera filosofica iniziale Spirito nel mondo, la cui tesi fondamentale è l’unità tra sensibilità ed intelletto: il senso che prima sembrava passivo rispetto al mondo e dipendente dall’esperienza, in realtà si rivela interno all’intelletto, ora divenuto principio produttivo dell’esperienza, e poi tener presente lo sviluppo teologico del suo pensiero, arrivando fino al Corso fondamentale sulla fede, sintesi del pensiero rahneriano e nuova architettura teologica come vantava J. B. Metz.

Il pensiero di Rahner è una parabola molto coerente: gli inizi si vedono nella fine, ma allo stesso tempo, vengono verificati e modificati durante il processo, com’è naturale, del resto, in una maturazione del pensiero. Questo ad esempio si vede nel concetto che all’inizio Rahner ha di Dio – il problema di Dio è il cuore di tutto l’impegno di Rahner, e per questo è sicuramente invidiabile –, il quale, più avanti, viene trasformato decisamente, ma in linea con tutto il substrato filosofico-teologico.

In Uditori della Parola dice Rahner che «Dio non è un fatto che potrebbe essere afferrato dall’uomo e dalla sua esperienza, immediatamente nel suo proprio Sé». In una conferenza sull’esperienza di Dio (Gottes Erfahrung heute) – a cui Rahner teneva molto –, aggiornandola di volta in volta, invece dice: «…questa esperienza di Dio è inevitabile. È indipendente dal fatto che si chiami Dio o no, se in un’asserzione teoretica di Dio viene all’interno tematizzata concettualmente o meno, se l’uomo liberamente vi s’identifica o vi si oppone, si allontana, vi si lascia fondare…Questa esperienza di Dio non è il privilegio di un qualche “mistico”, piuttosto è data in ogni uomo, anche se la forza e la chiarezza della riflessione sono molto differenti da essa» .

Questa esperienza di Dio, questa sua conoscenza, che si divide tra un ciò che è già dato nell’uomo e un Dio che comunque non è il semplice dato della natura, viene saldata con la creazione più importante di Rahner, l’“esistenziale soprannaturale”: quella saldatura originaria di natura e grazia, cooriginaria all’uomo, tale quale l’esperienza suddetta.

Dice Rahner: «…questa esperienza (di Dio) nella concreta situazione della nostra esistenza, si deve chiamare al contempo naturale e formata dalla grazia (gnadenhaft), dove però questo appoggio della grazia (Gnadenhaftigkeit) non significa alcun privilegio singolare e al contrario la domanda dell’accettazione esistenziale di questa esperienza rimane aperta attraverso la libertà». Qui, a nostro giudizio, abbiamo il vero volto di Rahner, quel suo sforzo encomiabile ma fallimentare, di dare Dio già a tutti, pur subordinandolo alla libertà, perché l’uomo è essenzialmente libertà.

Questo nella nostra pastorale è stato tradotto sovente così: Dio è sempre a disposizione dell’uomo, in ogni momento, purché l’uomo sia libero, anche di peccare, nel qual caso Dio è sempre nell’uomo – con l’uomo – e non può non perdonarlo. Non è qui in qualche modo la radice della secolarizzazione?

Si tratta, in fondo, di un’esperienza pre-religiosa dell’uomo in quanto tale, e come tale, fondamento di ogni esperienza spirituale dell’uomo. È l’apertura esistenziale del proprio Dasein che si solleva verso questo mistero inafferrabile . Così, «il Cristianesimo non è qualcosa di parziale, piuttosto nel suo nucleo (Kern) ha da dire qualcosa a tutti gli uomini».

L’“esistenziale soprannaturale” è la via per il riconoscimento dei cristiani anonimi, cioè del fatto che tutti sono già cristiani anche se non lo sanno, ponendo così davanti alla pretesa esclusiva del cristianesimo, la domanda di salvezza per i non-cristiani.

Rahner ha fatto in modo molto veloce: ha pensato di salvarli donando la salvezza alla natura in quanto tale, almeno come domanda esistenziale.

La grazia, in verità, non è la natura e la domanda di salvezza non è esistenziale, è di tipo religioso (specifica l’essere uomo in quanto tale nel suo essere creatura spirituale, dando così compimento a questa dimensione spirituale-naturale) e finalmente si può compiere nella capacità che la natura ha della grazia, e ciò in virtù della grazia e non della natura: la natura è capace della grazia e la grazia donata perfeziona la natura.

Come vedremo in Uditori della Parola, Rahner non riuscirà – sin dal principio più filosofico della sua analisi – a liberarsi dalla commistione/confusione di natura e grazia, di filosofia e teologia, dell’essere uomini e dell’essere al contempo in ascolto della Rivelazione.

(1. Continua)


L’opera di Rahner è un tutto teologico – lo si vede molto bene anche in Uditori della Parola – con delle indispensabili premesse filosofico-esistenzialiste. Dunque, bisogna tener conto di tutto il suo pensiero. È metodologicamente scorretto prendere solo il suo pensiero filosofico senza quello teologico, come quello teologico senza quello filosofico.

© Isolde Ohlbaum / laif/ contrasto

© Isolde Ohlbaum / laif / contrasto

È vero, Rahner fa principiare la conoscenza dell’uomo dai sensi come vuole la scuola aristotelico-tomista, ma a differenza di s. Tommaso, la sua conversio ad phantasmata diventa l’atto di coscienza fondamentale che ha ragione di cominciamento propriamente parlando. I sensi vengono ad essere inclusi nell’intelletto. E di questo diamo ora ragione.

In Uditori della Parola, Rahner dipende più che da S. Tommaso da Sein und Zeit di Heidegger. Vuole appurare se e in che senso l’uomo come “udito” (Gehör), in ragione del darsi della Rivelazione, potrebbe scoprirla in sé, prima che di fatto ha ascoltato qualcosa, attraverso cui sa che può ascoltare, e come deve essere interpretata nel suo costitutivo questo capacità di ascolto (Hörenkönnen).

Per s. Tommaso l’essere non è posto dall’esistenza, è invece Heidegger che postula l’esistenza come riconoscimento dell’essere e l’uomo come suo “pastore”, termine del suo svelamento. Per Heidegger l’essere è dell’essente e Rahner in Uditori della Parola si mette alla ricerca – poiché non lo si sa! –, di cosa sia l’essere dell’essente. Si domanda: «Cos’è l’essere dell’essente come tale e in generale?».

In verità, in qualche pagina precedente, aveva già tentato una risposta quando dice: «L’essenza dell’essere dell’essente è il riconoscimento e la riconoscibilità in una unità originaria, che abbiamo chiamato essere-presso di sé, trasparenza (Gelichtetheit) dell’essere per se stesso, in quanto soggettività» .

Per s. Tommaso, invece, l’essere è sempre inteso come ente in quanto ente, l’essere non si esaurisce nell’oggettività e questa non si fonda a partire dalla soggettività (dall’esistente). In una visione esistenzialista, dal momento che l’esistenza si realizza nell’uomo, l’uomo diventa la misura dell’essere, la metafisica la scienza dell’essere e dell’esistente insieme (come vuole Hegel che legge, in modo propedeutico per Heidegger, l’essere in senso assoluto). Per s. Tommaso, l’essere (o l’Essere) precede ontologicamente l’esistenza e l’uomo: l’essere fonda l’esistenza e mai il contrario.

Secondo s. Tommaso non bisogna ricercare – come invece si arrovella Rahner in Uditori della Parola –, il senso dell’essere, per il semplice fatto che mai l’Aquinate intende la reditio subiecti in seipsum come un ritorno del soggetto in sé, prodotto dagli oggetti conosciuti. Non sono gli atti che svelano all’anima la sua capacità intellettuale ma piuttosto è l’anima presente a se stessa che conosce i suoi atti, e pertanto, in una conoscenza attuale (altra da quella abituale), il soggetto è pienamente in sé in quanto è passato dalla potenza all’atto del conoscere.

L’anima è sempre presente a se stessa abitualmente. Procede dai suoi atti nei quali percepisce se stessa attualmente: questo è il modo corretto di leggere tomisticamente la reditio subiecti e non come fanno i difensori di Rahner.

Per s. Tommaso l’essere, dunque, precede la conoscenza. Invece, in una svolta trascendentale della gnoseologia, che Rahner compie leggendo s. Tommaso con Kant (attraverso Maréchal), la conoscenza, ovvero quell’a priori conoscitivo che il soggetto apporta e con il quale determina gli oggetti (le 12 categorie kantiane) pone l’oggetto, lo plasma e perciò il soggetto ritorna in sé, si costituisce, in quanto modificato dall’oggetto posto/conosciuto.

Per Rahner «conoscere è l’essere-con-sé dell’essere e questo essere con sé è l’essere dell’essente»: questo sarebbe la reditio super seipsum ed indicherebbe, la priorità dello spirito rispetto a tutto ciò che nell’uomo è inferiore ad esso. In questo senso l’uomo propriamente è spirito (Der Mensch als Geist): soggettività, coscienza. Infatti, l’essere per Rahner è conoscibilità ed essere-presso-di-sé, tesi fondamentale di Spirito nel mondo.

Così Rahner, finalmente, ha capito cosa sia l’essere dell’essente: la conoscenza che fonda il soggetto, il quale unisce in sé l’essere e l’essente, la soggettività e la realtà, l’essere e la conoscenza. Questo binomio sarà fondamentale per capire il pensiero teologico di Rahner.

Questa è la vera antropologia trascendentale, estranea però alla tradizione scolastica e principiante piuttosto dalla svolta cartesiana della modernità.

I difensori di Rahner rivendicano qui la necessità di dialogare con la modernità: non ci si può sottrarre da questo compito.

Certo, però a questi facciamo notare che altro è dialogare altro è accogliere remissivamente un pensiero che con Kant si prospetta definitivamente immanentizzato e che Rahner ha tentato invano di battezzare.

L’a priori conoscitivo di natura kantiana che certo si serve dei dati della sensibilità, ma senza il quale l’uomo non coglierebbe l’essere nella sua totalità – l’uomo in quanto spirito si pone incessantemente la domanda sull’essere nella sua totalità (sull’essere che è l’esistenza) – deve essere letto unitamente al Vorgriff, un a priori dato all’umana natura che rende capace la dinamica autocoscienza dello spirito, sull’assoluta ampiezza di tutti i possibili oggetti.

È una “conoscenza anticipata” dell’essere nella sua totalità che diventa la vera regola della conversio ad phantasmata e stabilisce fontalmente la possibilità di conoscere qualcosa e non il nulla. Siccome l’uomo afferra previamente l’essere nella sua interezza (qui siamo vicino all’ontologismo più che al realismo tomista), può conoscere l’essere, qualche cosa e non il nulla. Ora, perché il soggetto può protendersi verso l’infinità dell’essere? O, chi è il fondamento (mentale) dell’infinità dell’essere verso cui si protende l’intelligenza in modo previo ad ogni conoscenza? Dio.

L’uomo coglie previamente Dio che è «l’orizzonte della trascendenza» e attraverso di Lui coglie il finito.

Ma poiché Dio è l’a priori della conoscenza, l’uomo è piuttosto “colto” (da Dio) nel suo porsi conoscitivo: c’è unità tra essere e conoscenza, tra soggetto conoscente e cosa conosciuta. Rahner identifica l’infinità dell’essere/orizzonte della trascendenza con la nozione teologica di Dio. E sarà catastrofico per la teologia, i cui riflessi si sintetizzano in qualche modo nel cristianesimo anonimo. Questi non si capisce senza l’“esistenziale soprannaturale”.

L’infinità dell’essere mentale sarebbe Dio e Dio sarebbe nell’uomo in quanto modificante il soggetto conoscente, non nel senso però che l’uomo “afferri” Dio, bensì nel senso di un «lasciarsi afferrare da un mistero presente e sempre sottraentesi».

Nella teologia di Rahner questo essere presente della percezione esistenziale dell’infinità dell’essere si chiama “esistenziale soprannaturale”, e salda la natura con la grazia, la conoscenza con Dio, sebbene principalmente in modo atematico.

Dio è già presente nell’uomo “atematicamente”, in quanto conosciuto nella percezione infinita dell’essere che è esistenza. Dio diventa l’esistente presente nell’uomo che si scopre storicamente e solo in quanto essere storico può udire la Parola (certo “ode” la Parola, ma come la ode!). In virtù di questo nesso tra conoscente e conosciuto (teologico), nell’uomo già opera Dio. Si tratta, pertanto, di passare ad una conoscenza categoriale di Dio in virtù di una Rivelazione, ma atematicamente Dio è già nell’uomo, in ogni uomo: tutti sono cristiani anonimi.

Qui Rahner giustifica la sua tesi con il Vaticano II, ma confonde la conoscenza implicita di Dio di Lumen gentium 16 con il fatto che tutti sono già cristiani anche se non lo sanno.

Chi conosce implicitamente Dio non significa che per questo è già cristiano. C’è una conoscenza naturale di Dio, esplicita o implicita, che precede l’essere nuovo del cristiano datogli non dalla conoscenza ma dal Battesimo.

Certo questa conoscenza naturale può diventare occasione per il Battesimo, ma non è già operazione degli effetti battesimali. Può essere Battesimo di desiderio o desiderio del Battesimo, ma ancora una volta non è già operazione della grazia del sacramento del Battesimo, ma solo di una mozione transeunte, di una grazia attuale, che dispone al Battesimo. In coloro che non riescono a riceverlo, ma hanno vissuto rettamente, è lecito supporre che avrebbero desiderato esplicitamente il Battesimo, avendone previamente conosciuto la necessità (cf. CCC 1260).

In tal caso il Battesimo di desiderio provoca i medesimi effetti del sacramento, la salvezza eterna, senza imprimere però il carattere. Invece, per Rahner tutti sono in grazia (abitualmente / gnoseologicamente anche se solo anonimamente / atematicamente), che lo sappiano o meno.

Questo però non risulta da nessun catechismo, ed apre ad una salvezza “fai da te”, proprio come avviene oggi.

Ciò che è veramente fondante è la percezione dell’essere, la conoscenza.

Sembra che sia veramente lontana questa posizione dalla Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla nell’enciclica missionaria invitava ad evangelizzare i popoli e non a rassicurare gli atei occidentali della loro buona fede, come fa Rahner a cui propriamente si rivolge con la sua novella dottrina dell’anonimato.

Se si approfondisce un po’ di più il pensiero teologico di Rahner ci si accorge che il valore morale delle singole azioni perde la sua rilevanza quanto al bene o al male.

Rahner trascina in sede morale la sua distinzione tra categoriale e trascendentale. Un’azione morale interessa non tanto il criterio oggettivo della sua bontà o della sua malizia, piuttosto bisogna giudicare il valore morale delle azioni dell’uomo in ragione della libertà del soggetto, se e fino a che punto è rafforzata la libertà dell’uomo nelle sue scelte.

Un’azione che appare tematicamente sbagliata, rimarrebbe sempre atematicamente buona, purché rappresenti lo sforzo di rafforzare la propria libertà.

Di qui consegue che solo una scelta tematica contro Dio risulterebbe un vero peccato.

Il vero peccato sarebbe l’opzione fondamentale di segno negativo. Ad essa competerebbe propriamente il bene e il male. Alle azioni singole invece solo ciò che è “giusto” e ciò che è “sbagliato”. Ci si dimentica delle circonlocuzioni di Rahner a proposito della Humane vitae? L’enciclica Veritatis splendor (nn. 65-67), in verità, elimina questa distinzione surrettizia in ambito morale tra scelta categoriale e trascendentale, giudicandola dannosa per l’intera vita etico-morale.

Il pensiero di Rahner si manifesta un tutto organico che conosce una parabola evolutiva non indifferente. Dalle opere filosofiche passa poi a quelle teologiche in un crescendo di riflessioni che porta il nostro gesuita ad integrare la sua filosofia nella teologia. Rahner è propriamente un teologo e va analizzato come teologo. È parziale attestarsi alle opere filosofiche o ad una di esse.

È vero che per uscire da Rahner bisogna prima entrarvi, ma è anche vero che bisogna entrarvi interamente ed integralmente. Con le due domande formulate precedentemente, possiamo ora concludere con una terza: il pensiero rahneriano, come tutti i grandi sistemi idealistici, non presenta anch’esso questo vulnus: è così perfetto idealmente che sembra manchi qualcosa della nostra umanità?

(2. fine)

FONTE: corsiadeiservi.it