da pag.70 a pag.89 (*)
Demitizzazione della Bibbia
In cosa consiste dunque l’errore di Bultmann? Non nel fatto che egli «demitizza» (cioè: privare del carattere di mito, eliminare gli elementi mitici che snaturano le reali dimensioni di qualcuno o qualcosa), questo lo fa a buon diritto, piuttosto perché, partendo dai suoi presupposti filosofici, restringe troppo i limiti di ciò che può essere e di ciò che non può essere. Considera come possibile, cioè spiegabile in linea di principio, solo ciò che appare come possibile al pensiero scientifico corrente.
A una simile restrizione egli si è piegato per via del suo punto di partenza filosofico esistenziale e per la mancanza di una vera e propria ontologia. Egli non nota che, partendo da una filosofia diversa, più profonda, si può esaminare una più ampia sfera di possibilità reali, non mitiche, e ancor più che la misura del possibile non è determinabile in forma valida partendo dall’uomo, e che piuttosto noi facciamo continuamente esperienza anzitutto di ciò che è reale. Credere nella Rivelazione significa proprio accettare quella inaudita nuova realtà nella quale Dio rende possibile ciò che è impossibile (cfr. Luca 1, 37, Marco 10, 27; Romani 4, 17 ss.).
La misura del possibile la stabilisce Dio, non noi.
Demoni
Le figure demoniache appaiono nell’Antico Testamento timidamente, mentre nella vita di Gesù assumono un’irruenza inaudita. […] Questo processo di crescita dall’Antico al Nuovo Testamento, che consiste nell’estrema cristallizzazione del demoniaco proprio in contrapposizione alla figura di Gesù e nel porre il tema di continuo all’interno dell’intera testimonianza neotestamentaria, possiede una notevole forza espressiva. […]
In un contesto saturo di dèi, che vedeva fluttuare il passaggio da quelli buoni a quelli cattivi, il riferimento a Satana avrebbe sottratto chiarezza alla professione risoluta della fede. Solo nel momento in cui il principio dell’unico Dio, con tutte le sue conseguenze, divenne imperturbabile possesso di Israele lo sguardo potè essere dilatato verso forze che andavano oltre, che oltrepassavano lo spazio dell’uomo, senza che esse potessero contestare a Dio la sua unicità. […]
La Bibbia conosce le sue tentazioni [di Gesù] (Luca 4, 1-13) e non solo quella che viene descritta esaurientemente; arriva fino a dire che Gesù è venuto nel mondo per annientare le opere del diavolo (1Giovanni 3,8). Questa formula riassume ciò che Gesù stesso dice nella sequenza di versetti sul più forte e sulla forza, sul potere dei demoni, il cui regno egli abbatte grazie alla forza dello Spirito Santo (Marco 3, 20-30). Spicca il fatto che Egli, che non voleva fare di sé l’uomo dei miracoli, assunse la lotta contro i demoni come il nocciolo della sua missione (cfr. per es. Marco 1, 35-39) e che conseguentemente la delega per questo appartiene al nucleo del mandato che egli trasferisce ai suoi discepoli.
Questi vengono inviati «a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Marco 3, 14). La battaglia spirituale contro le potenze schiavizzanti, l’esorcismo fatto al mondo accecato dai demoni appartiene inscindibilmente al percorso spirituale di Gesù ed è al centro della sua missione come di quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non viene modificata dal fatto che il sole giri attorno alla terra o che questa giri attorno al sole, dal fatto che il mondo abbia preso forma in modo evolutivo o meno, ma certo quella fisionomia viene modificata in maniera palese se da essa si elimina la lotta con la forza perversa del regno dei demoni.
[…] Quando l’uomo entra nella luce di Cristo il demone viene sconfitto e in questo modo diviene superabile. Vale anche qui la considerazione che se si volesse cancellare la realtà del potere demoniaco sarebbero modificati il battesimo e la possibilità di realizzazione della vita cristiana. Inoltre, si dovrebbe aggiungere qui, nella domanda sulla Chiesa, l’esperienza dei santi, di coloro che credono in modo esemplare — intendo dire la loro esperienza, non tutte le loro idee. Questa esperienza corrisponde a quella di Gesù: quanto più la santità diviene visibile e forte, tanto meno il demone può nascondersi. A questo riguardo si potrebbe perfino affermare che il progressivo dileguarsi dei demoni (dall’insegnamento), il presunto diventare inoffensivo al mondo va di pari passo con la scomparsa della santità.
Desacralizzazione: un’esigenza del Nuovo Testamento?
Negli […] ultimi anni siamo stati condizionati dal pensiero della «desacralizzazione». Siamo rimasti colpiti delle parole della Lettera agli Ebrei: Cristo soffrì la passione fuori della porta della città (13,12). Questo risuonò nuovamente con le altre parole secondo cui con la morte di Gesù il velo del tempio si strappò. Ora il tempio è vuoto. Il sacrum, la presenza redentrice di Dio, non si cela più in esso; è fuori, fuori della città. Il culto è uscito dal suo contenitore sacro ed è dislocato nella vita, nella sofferenza e nella morte di Gesù Cristo: davvero il culto era già presente anche nella sua vita.
Dopo che è stato stracciato il velo del tempio, pensavamo, fu strappato anche il confine tra il sacro e il profano. Il culto non è più qualcosa di separato dalla vita quotidiana, piuttosto il sacro vive nella quotidianità. Il sacro non è più un ambiente distinto, piuttosto vuole essere ovunque, esso vuole concretizzarsi nella secolarità.
Da tutto questo sono state tratte conseguenze amare molto pratiche, fino all’abbigliamento dei sacerdoti, fino alla forma del culto cristiano e degli edifici ecclesiastici. Ovunque doveva compiersi questo smantellamento dei baluardi, in nessun luogo doveva esserci più separazione tra vita e culto.
Ma in questo modo, pur muovendo da un giusto punto di partenza, fu equivocato nella sostanza il messaggio del Nuovo Testamento, poiché Dio non si ritira dal mondo per abbandonarlo alla sua secolarità, e tanto meno egli conferma semplicemente il mondo così com’è, nella sua secolarità, come se fosse già salvato.
Fino a quando il mondo non giunge a compimento, finché esso rimane diviso tra profano e sacro, Dio non gli sottrae la presenza della sua sacralità, e tuttavia la sua sacralità non lo ha ancora afferrato totalmente. La passione di Gesù Cristo fuori dalle mura cittadine e la lacerazione del velo del tempio non significano che il tempio debba essere dappertutto, perché altrimenti non sarebbe più in alcun luogo. Questo accadrà solo con la nuova Gerusalemme. Quanto è avvenuto significa piuttosto che con la morte di Gesù Cristo è stato abbattuto il muro che divideva Israele dagli altri popoli.
Significa che la promessa di Dio si è estesa, dal ristretto contesto dell’antica alleanza e del suo tempio, all’ampiezza del resto dei popoli del mondo. Significa che al posto della sacralità delle immagini dell’Antico Testamento, visibile solo per segni, è entrato in scena il vero sacrum, il Signore santo fattosi uomo per amore. Significa infine che la santa tenda di Dio, la nube della sua prossimità, ora si trova lì dove viene celebrato il mistero del suo corpo e del suo sangue, dove uomini lasciano i propri affari per entrare in comunione con lui. Questo significa che qui la sacralità è più serrata e potente di quanto non lo fosse nell’Antico Testamento; significa anche che è diventata più vulnerabile e che dunque esige da noi una ancor maggiore attenzione e timore reverenziale: non solo purificazione rituale, ma la preparazione senza reticenze del cuore.
Desecolarizzazione della Chiesa
Nel momento in cui la Costituzione sulla Chiesa nel mondo, con enunciati sperimentali, ma anche il Decreto sugli strumenti di comunicazione sociale hanno evidenziato la relativa autonomia degli ambiti terreni, il diritto e il dovere dell’oggettività, cioè il riconoscimento dell’autonomia dei diversi contesti, hanno anche dato una forma essenziale all’apertura al mondo. In questa forma esiste qualcosa di nuovo, qualcosa che include un allontanamento dalla teologia espresso nel Sillabo sociale di san Pio X e dalla forma dell’emanazione temporale medioevale della Chiesa, che in quella teologia ancora si esprimeva. […]
Nella «secolarizzazione» che si compie in questa riconsegna del temporale al mondo, è incluso tuttavia anche uno sviluppo approfondito della Chiesa, la quale si denuda – in certo qual modo – della propria ricchezza temporale ed assume la propria leggerezza terrena. Essenzialmente essa separa il destino della stirpe di Levi, che era l’unica tribù in Israele a non avere alcuna terra da ereditare, ma che aveva guadagnato solo Dio stesso, la sua parola e il suoi segni. Con lui essa può dire: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita.» (Salmi 16 [15], 5). Solo nella povertà di una Chiesa demondanizzata, cioè aperta al mondo per liberarsi del suo laccio, anche lo zelo missionario diventa di nuovo pienamente credibile e si differenzia immensamente da ogni pretesa di interesse delle potenze mondiali: essa non fa propaganda per se stessa ma per Colui del quale si è assunta il destino: il Signore è mia parte… […]
Solo la Chiesa demondanizzata può rivolgersi in una maniera davvero cristiana al mondo intero, non per conquistalo alla causa di una istituzione con proprie aspirazioni di potere, piuttosto per condurlo a sé nel momento in cui essa conduce a Colui di cui ogni uomo può dire: interior intimo meo, et superior summo meo — egli, che mi è infinitamente superiore, è dunque in me al punto che è lui la mia vera interiorità; attraverso di me posso giungere a me stesso in forma vera attraverso l’estasi. Poiché io stesso sono proteso oltre me… la fede è un’estasi che conduce l’uomo, che esce da sé attraverso se stesso a se stesso, e la cui demondanizzazione la rende libera dalla insipide conquiste mondane.
In questo tipo di apertura al mondo demondanizzante è anche tracciata la forma entro cui l’«apertura al mondo» del singolo cristiano può compiersi in maniera cristianamente legittima; a partire da qui si può concepire il modello di ascesi davvero cristiana di colui che è «aperto al mondo» nel senso più proprio.
Servire sembra essere una manifestazione della dominazione dell’uomo sull’uomo, dunque un attacco all’uguaglianza, alla pari dignità e alla libertà dell’uomo. Ed è certamente vero che in ogni epoca ci sono stati abusi di potere, divisione indebita degli uomini, negazione della pari dignità che è stata donata dal Creatore. Tuttavia sperimentiamo sempre più che l’abolizione del servizio non può essere una risposta; noi uomini, infatti, siamo creati in modo tale che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che possiamo vivere solo dipendendo gli uni dagli altri e conseguentemente anche gli uni per gli altri; dunque senza servizio la nostra vita non può sussistere. E se non amiamo più servirci a vicenda resta solo il dato di fatto che curiamo in altro modo questo necessario essere gli uni per gli altri, mettendoci al servizio delle macchine, di sistemi anonimi e attraverso questi ci leghiamo in qualche modo tra noi. In questo modo finiamo col servire la macchina, il sistema, diventiamo davvero prigionieri e paghiamo questo anche con un impoverimento delle relazioni umane, della fiducia che avvicina gli uomini tra loro.
In questa situazione la Chiesa guarda a Gesù Cristo, divenuto servo per noi. Egli, il Signore del mondo, è diventato diacono, servitore. Egli apparecchia la tavola per i suoi e lava loro i piedi. Egli trasforma il mondo, poiché esercita il potere come servizio, egli serve come Signore e diviene servitore di tutti. Così facendo dona a noi il coraggio per un servizio libero, dà a noi il coraggio di accogliere nel servizio la vera dignità e libertà dell’uomo e di mostrare un nuovo segno. La Chiesa, se vuole essere la Chiesa di Gesù Cristo, ha bisogno della presenza del diacono Gesù Cristo.
Dialogo tra le religioni
Ora, per dirla subito chiaramente: chi mirasse all’unificazione delle religioni come esito del dialogo tra le religioni rimarrebbe deluso. All’interno del nostro contesto storico questo è difficilmente possibile e forse non è neppure desiderabile. Ma come è possibile? A questo proposito desidero dire tre cose:
1- L’incontro tra le religioni non è possibile attraverso la rinuncia alla verità, piuttosto solo tramite una profonda penetrazione di essa. Lo scetticismo non unisce. E non unisce neppure il nudo pragmatismo. Entrambi diventano un adito per le ideologie, le quali, conseguentemente, si presentano in modo molto più sicuro. La rinuncia alla verità e alla convinzione non eleva l’uomo, piuttosto lo consegna al calcolo della convenienza, gli sottrae la sua grandezza. Va reclamato però il timore di fronte alla fede dell’altro e l’essere pronti, quando mi viene incontro l’estraneo a cercare la verità che mi riguarda, che mi può correggere e che può farmi procedere. […]
2- Se è così, se anche nell’altro va cercato sempre il positivo e se anche l’altro deve essermi d’aiuto riguardo alla verità, allora non può e non deve mancare l’elemento critico. La religione custodisce per così dire la preziosa perla della verità, ma essa la nasconde continuamente e corre sempre il pericolo di venire meno alla propria essenza. La religione può infettarsi e può trasformarsi in un fenomeno distruttivo. Essa può e deve condurre alla verità, ma è in suo potere anche separare gli uomini da essa. La critica della religione relativa all’Antico Testamento non è diventata oggi in alcun modo priva di senso. Può riuscirci relativamente facile criticare la religione degli altri, ma anche noi dobbiamo essere pronti a ricevere critiche alla nostra religione. […]
3- Ciò significa forse che nel momento in cui è in gioco non tanto la verità quanto il diventare migliori cristiani, migliori ebrei, musulmani, induisti o buddisti la missione deve cessare per essere sostituita dal dialogo? Io rispondo con un no. Poiché questo rappresenterebbe di nuovo la totale mancanza di convinzione con la quale – col pretesto di rafforzarci ciascuno in ciò che ha di meglio – non prendiamo sul serio né noi, né gli altri e così facendo rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra piuttosto consistere nel fatto che missione e dialogo non possono essere più antitetici, piuttosto devono compenetrarsi vicendevolmente.
4- Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, al contrario mira alla persuasione, alla scoperta della verità, altrimenti è privo di valore. Viceversa la missione in futuro non potrà più essere come se fosse annunciato a un soggetto fino a quel momento privo di qualsiasi cognizione di Dio, ciò in cui dovrebbe credere. […] Il dialogo tra le religioni dovrebbe diventare sempre più un ascolto di quel Logos che mostra l’unità al centro delle nostre divisioni e contraddizioni.
Diavolo? Il potere del «tra»
E’ a tutti chiaro che essa [l’idea del diavolo] contrasta con il senso comune; è altrettanto evidente che in un mondo considerato come efficientista quell’idea non trova nessun tipo di appoggio. Ma in un puro funzionalismo non c’è posto neppure per Dio e neanche per l’uomo come uomo, piuttosto solo per l’uomo come funzione; dunque frana qui molto più che solo l’idea del «diavolo».
[…] Le forme più profonde del personalismo tuttavia hanno riconosciuto perfettamente che con le sole categorie Io e Tu è impossibile spiegare l’intera realtà – che proprio il «tra» di congiunzione tra di loro è una realtà con una propria caratteristica e una propria forza. Sollecitazioni da parte di pensatori asiatici evidenziano oggi con ancor maggior energia quella relazione. Essi sostengono per esempio che una malattia spirituale non è semplicemente una condizione dell’io, piuttosto deriva da un disturbo del «tra»; poiché il «tra» è nel disordine, è rotto, è sviato, è capovolto, anche l’io è disarticolato. Il «tra» è una forza incidente sul destino di cui il nostro io non dispone in alcun modo interamente: pensare questo è un razionalismo di una ingenuità dall’effetto quasi strabiliante.
Qui il pensiero moderno, così almeno pare a me, mette a disposizione una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più precisione il potere dei demoni, la cui esistenza è sicuramente indipendente da simili categorie. Essi sono un potere di quel «tra» col quale l’uomo si confronta a ogni passo, senza che egli possa arrestarlo. Proprio questo pensa Paolo quando parla dei «dominatori del mondo delle tenebre »; quando dice che la nostra lotta è contro di loro, contro le potenze aeree del male, non contro la carne e il sangue (Efesini 6,12). Egli si orienta contro quel ben saldo «tra» che nello stesso tempo lega e separa tra loro gli uomini, che fa loro violenza nel momento in cui spiega davanti a loro la libertà.
Qui si chiarifica una qualità specifica del demoniaco: il suo non possedere un volto, la sua anonimità. Se ci si chiede se il diavolo sia una persona, allora, per essere corretti, si dovrebbe rispondere che egli è una non-persona, il disfacimento, la decomposizione dell’essere persona, e per questo motivo egli si manifesta senza volto, facendo della sua irriconoscibilità la sua propria forza. […]
La categoria del «tra», che ci aiuta a comprendere in forma nuova l’essenza del demonio, presta anche un altro servizio. Essa aiuta a comprendere meglio quella forza oppositiva che è diventata allo stesso modo sempre più estranea alla teologia occidentale: lo Spirito Santo. Possiamo dire: esso è quel «tra» nel quale Padre e Figlio sono uno come uno è Dio; nell’energia di questo «tra» Cristo fronteggia quel « tra» demoniaco che è ovunque «frammezzo» e impedisce l’unità.
E’ proprio della fede biblica credere nel Dio vivente. Dio è il vivente, questo significa che egli è un Dio che opera, ascolta e parla. Egli è il creatore. Tutto proviene da lui. Ma egli ha operato anche nella storia degli uomini e in essa ha rivelato il suo volto, fino al punto che nel divenire uomo del Figlio è entrato egli stesso nella storia. Con la creazione l’universo non gli è sfuggito di mano. Non è un Dio dispotico. Rispetta le leggi della creazione e la libertà dell’uomo che egli stesso ha istituito. Ma non è nemmeno un Dio impotente, capace di insediarsi solo «spiritualmente», «esistenzialmente».
Un Dio che non potesse agire anche sulla materia sarebbe un Dio impotente – la materia sarebbe, per così dire, una sfera sottratta alla sua azione. Rispetto alla fede biblica, che articola la professione della Chiesa, quest’idea gli si oppone radicalmente. In ultima analisi essa contesta Dio come essere divino. Per questo motivo per la fede della Chiesa non è sorprendente, al contrario, è consequenziale e ragionevole che Dio nel nucleo centrale del suo agire nella storia — nell’incarnazione, nel morire e nel risorgere del Signore — abbia mostrato il suo potere fin dentro la materia, abbia provocato il concepimento di Gesù nel ventre materno verginale di Maria e che abbia agito nuovamente dopo la sepoltura del corpo morto di Gesù, sottraendolo alla putrefazione e introducendolo nel nuovo modo di essere dei risorti, quel modo che Gesù stesso aveva indicato di fronte ai sadducei come il modo di essere dei figli di Dio (Luca 20, 36): il modello e l’inizio di quel modo di essere è il figlio risorto.
In questa maniera risulta chiaro che nei due citati articoli di fede non si tratta di chissà quali miracoli marginali che è meglio lasciare da parte a vantaggio di una fede più pura, ma che piuttosto sono in questione il nucleo dell’immagine di Dio e il realismo dell’operare storico di Dio. Il tema è se la fede penetra davvero nella storia, se la materia è sottratta o no al potere di Dio. La questione è se Dio è Dio e se egli opera veramente nella storia penetrando finanche in ciò che è corporale, e se si è dimostrato signore sulla morte, che in definitiva è un fenomeno biologico, un fenomeno legato al corpo. Dunque, la questione è se possiamo avere fiducia nella parola della fede, se ci fidiamo di Dio e se possiamo vivere e morire avendo come fondamento la fede.
Discorso della Montagna
«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Matteo 5, 38). Per comprendere correttamente questo testo dobbiamo tenere presente che il principio veterotestamentario «occhio per occhio, dente per dente» (Esodo 21, 24; Levitico 24, 20; Deuteronomio 19, 21) non è in alcun modo la canonizzazione della sete di vendetta, piuttosto, esattamente il contrario, vuole inserire il principio del diritto al posto di quello della vendetta.
La massima dei figli di Caino era (ed è!): «Poiché Caino è vendicato sette volte, Lamech sarà vendicato settanta volte sette». Rispetto a questo qui è messo in gioco il principio del riscontro: delitto e castigo devono essere in equilibrio tra loro. Il diritto deve essere salvaguardato, ma il suo imporsi non deve degenerare in vendetta.
Gesù non rifiuta in alcun modo il principio d’uguaglianza come principio giuridico, però qui vuole aprire all’uomo una nuova dimensione del suo comportamento. Un diritto isolato e assolutizzato diventa un circolo vizioso, un circolo delle ritorsioni dal quale non vi sarà più modo di uscire. Nel suo rapporto con noi Dio ha distrutto questo circolo. Noi siamo nell’ingiustizia al cospetto di Dio, distratti da lui nella ricerca della nostra gloria e così dediti alla morte.
Ma Dio rinuncia alla giusta punizione e pone qualcosa di nuovo: la guarigione, la nostra conversione verso un rinnovato sì alla verità di noi stessi. Affinché la trasformazione accada, egli ci precede e assume su di sé il dolore della trasformazione. La croce di Cristo è il reale riscatto di questa parola: non occhio per occhio, dente per dente, ma trasformare il male con la forza dell’amore. Nella sua intera esistenza umana, dal diventare uomo fino alla croce, Gesù compie ed è ciò che qui viene detto. Egli forza il nostro no attraverso un sì più forte e più grande. Nella croce di Cristo, e solo li, questa parola si dischiude e diventa rivelazione. Condividendola con Lui, però, essa diventa una possibilità anche per la nostra vita.
Dogma
Il pensiero ostile alla storia delle tradizioni apostoliche non scritte [è] di casa anzitutto, in forma essenziale, nella gnosi, dunque in un modo di divenire del cristianesimo espulso dalla storia della fede in quanto eterodosso, sebbene quel pensiero abbia iniziato a penetrare la riflessione ecclesiale relativamente presto. […] La forma primaria di una concezione di tradizione interna alla Chiesa è strutturata in maniera sostanzialmente diversa. Essa deriva dalla bipartizione della Scrittura in Antico e Nuovo Testamento, a tal punto che il Nuovo appare come esegesi cristologica dell’Antico, come «Tradizione» che dà significato alla «Scrittura».
In questo punto risiede l’anello di congiunzione per la concezione originaria del dogma, così come esso fu concepito nella Chiesa antica e in sostanza anche durante l’intero Medioevo; per questo motivo dovrebbe essere considerato come il vero oggetto della storia dei dogmi. Dopo la preparazione dei canoni della scrittura neotestamentaria, che ha unificato nella «Scrittura» i testi neotestamentari considerati fino ad oggi come Tradizione, si produsse necessariamente una certa intersezione nell’idea di tradizione, che certamente, quando si dice che la «Scrittura» (Antico e Nuovo Testamento) debba essere interpretata «secondo la fede», prosegue con continuità la linea seguita fino ad oggi.
Con il termine «fede» s’intende la professione battesimale (la professione cristologica estesa al simbolo trinitario), cioè la regula fidei a essa legata. Questa ha valore quale autentico canone della Chiesa, quello che compone il canone per il «canone». Questo concetto, dunque l’idea che la Scrittura sia da intendersi secondo la fede, rappresenta l’antica forma cristiana del concetto di dogma. Dogma non viene dunque inteso come teorema, piuttosto consiste nella fede della Chiesa che dischiude e interpreta la Scrittura.
- continua…..
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sulla questione ecumenica e dialogo interreligioso, vedi anche qui: La Chiesa Israele e le religioni del mondo
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dal libro ABC di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI 2013, edito dalla Libreria Editrice Vaticana