Ratzinger spiega Eucaristia e gli errori protestanti

Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile.” (cardinale Joseph Ratzinger, 22-24 luglio 2001)

La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana (1)

LA QUESTIONE CIRCA LA STRUTTURA DELLA CELEBRAZIONE LITURGICA

La crisi della liturgia, e quindi della Chiesa, in cui continuiamo a trovarci è dovuta solo in minima parte alla differenza tra vecchi e nuovi libri liturgici. Si rende sempre più chiaro che sullo sfondo di tutte le controversie è emerso un profondo dissenso circa l’essenza della celebrazione liturgica, la sua derivazione, il suo rappresentante e la sua forma corretta. Si tratta della questione circa la struttura fondamentale della liturgia in genere; più o meno consciamente si scontrano qui due concezioni radicalmente diverse. I concetti dominanti della nuova visione della liturgia si possono riassumere nelle parole-chiave «creatività», «libertà», «festa», «comunità». Da un tale punto di vista, «rito», «obbligo», «interiorità», «ordinamento della Chiesa universale» appaiono come i concetti negativi, che descrivono la situazione da superare della «vecchia» liturgia.

Io mi limito a documentare questa «nuova» visione della struttura liturgica con un testo scelto a caso, che è rappresentativo per un intero genere (di derivazione protestante e modernista, nota nostra): «La liturgia non è un rituale ufficialmente sancito, ma un festa concreta dell’assemblea, configurata in modo adatto, con ogni tolleranza nel regolamento. La liturgia non è un culto devozionale oggettivo, specifico della Chiesa, che deve essere adempiuto […]. Come al sacerdote è dato il Messale [..] così la comunità ha tra le mani il libro dei canti, il Gotteslob, quale libro dei ruoli. Il ruolo della comunità viene accentuato anche dal fatto che la liturgia si forma in un luogo concreto, in una determinata comunità […]. Il canto della comunità è stato rivalutato a partire dalla riforma liturgica. L’essenziale non sta più come sfondo dietro il canto, ma ciò che si canta è l’essenziale [..]».

FORMA E CONTENUTO DELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

POSIZIONE DEL PROBLEMA: LA CATEGORIA DELLA «FORMA»

Con il concetto di «forma» era così entrata nel dialogo teologico una categoria fino ad allora sconosciuta, la cui dinamica riformatrice era inconfondibile. Anzi, si può dire che con la scoperta di questa categoria era nata la scienza liturgica nel senso moderno della parola. Solo con ciò si era manifestato il livello specifico dell’elemento liturgico rispetto a quello dogmatico e canonistico; e da ciò derivò che qui si trattava di teologia e di una riforma teologicamente motivata, senza che la dogmatica venisse immediatamente messa in gioco.

La forza dirompente del processo, però, si rende del tutto chiara solo se ci chiediamo ora in che modo la struttura fondamentale ricercata sia stata circoscritta dal punto di vista contenutistico. Per trovarla si presentava una via molto semplice: la Celebrazione eucaristica esemplare, l’istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù stesso, ci è stata descritta in modo relativamente dettagliato nel Nuovo Testamento; essa avvenne il Giovedì Santo nel contesto dell’Ultima Cena. Ne sembrava derivare, con una univocità pienamente inconfutabile, che la forma fondamentale dell’Eucaristia è il convito.

Indubbiamente, Gesù stesso l’ha celebrata così; davanti a questo dato, come sembra, deve tacere ogni critica. «La forma portante è quella del convito», affermò Joseph Pascher;  Guardini ed altri l’avevano preceduto con affermazioni simili. Da battaglieri sostenitori della riforma le parole «Fate questo» vennero ora riferite espressamente alla forma del convito. Un accento sarcastico c’era nell’osservazione ripetuta con piacere secondo cui Gesù, in fondo, avrebbe detto: «Fate questo», e non: «Fate ciò che volete».

_020-davanti-protagonista-ratzinger-5Formulazioni del genere dovevano suscitare un’attenzione guardinga nell’ambito della teologia dogmatica. Non era questa forse la posizione di Lutero condannata dal Tridentino? Non veniva qui negato il carattere sacrificale della Messa a favore della teoria del convito? A rimproveri di questo genere, da parte dei liturgisti si rispose che in questo modo si misconosceva il livello della problematica. La caratterizzazione della Messa come sacrificio sarebbe un’affermazione dogmatica riguardante la nascosta essenza teologica dell’evento; l’affermazione della forma di convito, invece, mirerebbe alla forma visibile dello svolgimento liturgico e non negherebbe affatto il contenuto teologico descritto dal Tridentino. Ciò che si presenta liturgicamente nella forma del convito potrebbe, dal punto di vista dogmatico, molto bene portare in sé il contenuto del sacrificio.

Certo, un semplice accostamento come questo non poteva alla lunga risultare una risposta soddisfacente. Proprio se la forma non è una struttura cerimoniale semplicemente casuale, ma una manifestazione sostanziale dello stesso contenuto, immutabile nel suo nucleo, la loro separazione senza alcun riferimento non può chiarire nulla. La mancanza di chiarezza nel rapporto tra livello dogmatico e livello liturgico, che è rimasta poi anche durante il Concilio, deve forse essere qualificata come il problema centrale della riforma liturgica; in base a questa ipoteca si spiega gran parte dei singoli problemi con i quali, da allora, abbiamo a che fare.

Il nostro compito deve pertanto essere quello di mirare, in questa riflessione, ad un chiarimento di tale rapporto. Occorre però svolgerlo non mediante un ragionamento puramente formale, bensì attraverso un’analisi critica della tesi contenutistica di fondo circa il carattere di convito dell’Eucaristia. Questa tesi che riguarda il contenuto, infatti, è caratterizzata dal fatto di compiere una separazione priva di passaggi tra contenuto dogmatico e forma liturgica, ammesso che riconosca la tesi dogmatica che afferma il carattere sacrificale della Messa. Se però non esiste e non può esistere la separazione tra questi due ambiti, allora anche questa tesi deve apparire problematica. Ciò è stato riconosciuto molto presto; cerchiamo ora di seguire le diverse tappe della mediazione, che nel corso della disputa sono state elaborate, e di chiarire in tal modo il problema oggettivo.

(ATTENZIONE: quanto segue non è ciò in cui crede Ratzinger, ma la critica da cui parte)

Un primo tentativo di mediazione si trova in Joseph Pascher, che parla di una forma conviviale in cui è inscritto il simbolismo sacrificale. La separazione dei doni del pane e del vino, che simbolicamente alluderebbe al mortale spargimento del sangue di Gesù, inserirebbe il segno del sacrificio nella fondamentale forma conviviale. Di più ampia portata, anche se sostenuta sommessamente, fu la limitazione dell’idea, che il liturgista Josef Andreas Jungmann propose proprio sulla base delle stesse fonti liturgiche. Jungmann mostra che già nelle primissime forme liturgiche l’Eucharìstìa – la preghiera del memoriale formulata come ringraziamento – prese il sopravvento sul convito come tale. Secondo lui, la forma fondamentale è comunque fin dalla fine del primo secolo non il convito, ma l’Eucharistia; già in Ignazio d’Antiochia questa è diventata anche la denominazione per l’intera celebrazione.  In uno studio successivo Jungmann, a completamento, ha mostrato che linguisticamente fu una novità rispetto a tutta la tradizione il nome di «Santa Cena» che Lutero diede alla celebrazione: dopo quanto è detto in 1Cor.11,20, fino al XVI secolo non si trova più la denominazione di convito per l’Eucaristia, eccetto che nella diretta citazione di 1Cor.11,20 e per indicare il pasto con lo scopo di sfamarsi (che è da distinguere dall’Eucaristia).

La tesi dell’Eucharistia come contenuto fondamentale è senz’altro aperta ad una mediazione interna tra il livello dogmatico e quello liturgico. La tarda antichità aveva, infatti, sviluppato l’idea del sacrificio a modo di parola, che è entrata anche nel Canone Romano con la formula della oblatio rationabilis: il sacrificio alla Divinità non si compirebbe mediante l’offerta di cose, ma mediante l’auto offerta dello spirito, che trova forma nella parola. Questo pensiero aveva potuto essere facilmente adattato al cristianesimo. La preghiera eucaristica è un entrare nella preghiera di Gesù Cristo stesso; è così un entrare della Chiesa nel Logos, la Parola del Padre, nell’auto-offerta del Logos al Padre, che sulla croce è divenuta al tempo stesso offerta dell’intera umanità a Lui.

L’elemento formale di Eucharistia  metteva così a disposizione, da una parte, il ponte verso le parole di benedizione pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena, nelle quali Egli aveva anticipato interiormente la morte sulla croce;  d’altra parte, offriva il ponte verso la teologia del Logos, e così verso un approfondimento trinitario della teologia dell’Ultima Cena e della Croce; ed infine offriva il passaggio ad una categoria spiritualizzata del sacrificio, che era particolarmente adatta ad interpretare la peculiarità del sacrificio di Gesù, in cui un evento di morte era stato trasformato in una parola di accettazione e di offerta, in cui, anzi, l’illogicità della morte era diventata una cosa riguardante il Logos: il Logos era morto, e in tal modo la morte era diventata vita.

Ormai dovrebbe essersi chiarito che, se la forma fondamentale della Messa non si chiama «convito», ma Eucharistia, rimane, sì, la necessaria e feconda differenza tra livello liturgico (riferito all’aspetto formale) e livello dogmatico, ma i due campi non divergono, l’uno anzi converge verso l’altro ed ambedue si determinano a vicenda. Del resto, l’elemento del convito non è così semplicemente escluso, perché Eucharistia è anche (ma non solo) preghiera conviviale della Santa Cena; in questo modo, tuttavia, il simbolismo del convito è subordinato ed inserito in qualcosa di più ampio.

_020-davanti-protagonista-ratzinger-2Contro questa sintesi, però, viene anzitutto sollevata ancora una volta una grave obiezione. A questo punto si poteva dire: la liturgia della Chiesa, da quando si è concretizzata, è caratterizzata anche per quel che riguarda la forma non primariamente dal convito, ma dalla prevalenza dell’elemento verbale Eucharistia – così, del resto, già in 1Cor.11; ma questo dato cambia forse qualcosa al fatto che l’Ultima Cena di Gesù fu proprio una cena? Non si deve forse allora individuare lo hiatus del distacco dalla forma originaria già nella prima generazione cristiana? Può esserci un punto di riferimento diverso da Gesù stesso, per quanto possano essere antiche usanze contrarie nella Chiesa? Come si vede, questa domanda introduce nel problema fondamentale dell’attuale teologia in genere, posta sotto il segno del dissenso (protestante e modernista) tra storia e dogma: introduce, cioè, nella questione del passaggio da Gesù alla Chiesa.

In questo senso, la nostra questione è identica a tale problematica fondamentale del cattolicesimo e permette di esemplificarla in un punto preciso. Il fatto che i tentativi esegetici più recenti tendano in gran parte a scindere sempre di più la Cena di Gesù dal Sacramento della Chiesa ed a tagliare il nodo dell’«Istituzione» non ha bisogno di essere appositamente trattato; in processi del genere si esprime solo in modo sintomatico il problema fondamentale, che è sempre lo stesso.

LO SVILUPPO DELLA FORMA DELL’EUCARISTIA NEL DIVENIRE DELLA CHIESA

Per il chiarimento della questione circa il modo in cui avvenne il passaggio dall’Ultima Cena di Gesù all’Eucaristia, ha contribuito in maniera decisiva Heinz Schurmann. In questo contesto non vogliamo qui aprire una disputa sulle infinite questioni circa la tradizione dell’Ultima Cena: la nostra attenzione è rivolta esclusivamente e rigorosamente alla «forma» e al suo sviluppo.

Per quanto riguarda quest’ultimo, Schurmann ha individuato tre fasi:

1) l’Eucaristia nell’Ultima Cena di Gesù;

2) l’Eucaristia in connessione con il pasto della comunità apostolica;

3) la Celebrazione eucaristica post-apostolica distinta dal pasto della comunità.

Ora, nei limiti di questo contributo, purtroppo, non possiamo cercare di riferire i dettagli di tale processo; saranno messi in rilievo e poi esaminati nel loro intimo significato soltanto i passaggi decisivi. Per quanto riguarda l’Eucaristia nell’Ultima Cena di Gesù, è possibile ricostruire in modo abbastanza preciso la collocazione delle azioni eucaristiche di Gesù nell’insieme della celebrazione sulla base delle notizie dei Vangeli e delle consuetudini conviviali giudaiche. Se partiamo dal presupposto che si trattava di una cena pasquale, ci troviamo di fronte ad uno svolgimento che abbracciava quattro parti: antipasto, liturgia pasquale, pasto principale e riti conclusivi.

L’offerta del pane è allora da collocare prima del pasto principale, mentre il calice della benedizione viene dopo di esso, come del resto sottolinea espressamente anche Luca 22,20: «Dopo aver cenato, prese il calice […]». Ne deriva, per Schurmann, una duplice conseguenza: «1) L’evento eucaristico è stato nell’Ultima Cena elemento integrale, anzi, costitutivo di una forma conviviale […]. 2) L’evento eucaristico ha nell’Ultima Cena una relativa autonomia ed un significato proprio rispetto al procedere del pasto».  Ciò che il Signore qui fa è una novità che viene intessuta dentro un antico contesto – quello della cena rituale giudaica -, ma diventa chiaramente riconoscibile come un qualcosa di a sé stante; per esso vien dato il comando di ripetizione ed è quindi scindibile dal contesto in cui si trova.

Se andiamo fino in fondo a questa diagnosi, risulta che questo compenetrarsi di antico e nuovo non è affatto casuale; è invece espressione precisa e necessaria della situazione storico-salvifica ancora attuale in quel momento. La nuova preghiera di Gesù si trova ancora all’interno della liturgia giudaica. Siamo ancora prima della crocifissione, anche se questa, per così dire, dall’interno prende qui il suo inizio. La separazione tra Gesù e la comunità nazionale giudaica non è ancora compiuta; in altre parole, la Chiesa non esiste ancora come Chiesa; la struttura storica di «Chiesa» in senso stretto nasce solo per il fallimento del tentativo di acquisire l’intero Israele. Poiché il cristianesimo non esiste ancora come realtà autonoma, ma soltanto in una forma storicamente ancora aperta all’interno del giudaismo, non può neppure esserci un’autonoma forma liturgica specificamente cristiana.

_020-davanti-protagonista-ratzinger-4Ma questo ci porta ad una constatazione fondamentale, il cui disconoscimento costituisce il vero errore in tutti i tentativi di derivare la forma liturgica cristiana con immediatezza acritica dall’Ultima Cena.

Dobbiamo, infatti, ora affermare: l’Ultima Cena di Gesù è, sì, il fondamento di ogni liturgia cristiana, ma essa stessa non è ancora una liturgia cristiana. All’interno del giudaismo si compie l’atto d’istituzione della realtà cristiana, che però non ha ancora trovato una forma propria come liturgia cristiana. La situazione storico-salvifica è ancora aperta; non è ancora avvenuta la decisione definitiva se il cristianesimo debba uscire o no dal giudaismo come realtà a sé stante. Per esprimerci nel modo più chiaro possibile, potremmo anche dire, con un preciso capovolgimento dei primi tentativi del movimento liturgico, che l’Ultima Cena fonda, sì, il contenuto dogmatico dell’Eucaristia cristiana, ma non la sua forma liturgica. Questa infatti, in quanto cristiana, non esiste ancora. La Chiesa dovette, nella misura in cui la separazione da tutto l’Israele divenne inevitabile, trovare la propria forma, adatta al significato di ciò che le era stato affidato. Questa non è stata defezione, ma necessità derivante dalla natura degli eventi.

Mi sembra che qui siamo di fronte a un punto centrale non solo per le discussioni sulla forma liturgica, ma per la stessa comprensione fondamentale dell’elemento cristiano in genere. La teoria della defezione della cristianità primitiva da Gesù e con ciò, in genere, l’intero iato, oggi continuamente rilevato, tra Chiesa e Gesù,  si basano sul disconoscimento di queste connessioni. Se così stanno le cose, non può neppure esserci una continuità diretta di forme tra Gesù e la Chiesa; anche il fatto che il centro dell’annuncio della parola si sposti dal «Regno di Dio» alla cristologia ha qui il suo motivo.  L’unità con Gesù deve allora essere cercata necessariamente nella discontinuità della forma, in corrispondenza al passaggio dall’annuncio del Regno ad Israele alla Chiesa dei gentili.

Volgiamo ora la nostra attenzione alla seconda fase dello sviluppo messa in risalto da Schurmann, quella dell’Eucaristia apostolica connessa con il pasto della comunità.

Per brevità citiamo subito la caratterizzazione centrale di questa fase, come la presenta Schurmann, dalla quale svilupperemo poi riflessioni critiche ed ulteriori considerazioni.

Schurmann constata: «Il pasto della comunità cristiana primitiva non era la ripetizione dell’Ultima Cena di Gesù (che Gesù non aveva affatto raccomandato di ripetere), ma era la continuazione della quotidiana comunità conviviale di Gesù con i suoi discepoli […]. Se ora la duplice azione eucaristica di Gesù doveva essere correlata con questo pasto comune, era forse più conveniente un congiungimento di ambedue le azioni in un unico blocco piuttosto che una loro collocazione in forma di cornice intorno al pasto abituale».

In queste frasi ci sono due cose sicuramente giuste ed oggettivamente importanti per la nostra questione. È chiaro innanzitutto che il comando di ripetizione dato da Gesù non si è riferito affatto all’Ultima Cena come tale e nella sua interezza, ma solo alle specifiche azioni eucaristiche. Conformemente, non venne neanche ripetuta di volta in volta l’Ultima Cena come tale; ciò comportava da sé un cambiamento dell’intera forma, e con questo un primo emergere di una forma cristiana propria. Il pasto per sfamarsi, come unità in sé compiuta, precede la Celebrazione eucaristica; le azioni eucaristiche, ora unite tra di loro, seguono come un’azione a sé stante, sublimata nella parentesi della preghiera di ringraziamento: l’Eucharistia. Questo svolgimento è chiaramente riconoscibile già in 1Cor.11,17-34, ma anche dietro l’assimilazione tra loro delle parole sul pane e sul vino in Matteo e Marco si intravede tale processo.

_020-davanti-protagonista-ratzinger-11In un punto, invece, si dovrà contraddire Schurmann. La tesi secondo cui l’Eucaristia apostolica si ricollega alla quotidiana comunità conviviale di Gesù con i suoi discepoli è, nell’esegeta di Erfurt, limitata alla questione circa l’origine della forma della celebrazione, ma  viene in ampi circoli radicalizzata nel senso che all’Ultima Cena si nega completamente il carattere di istituzione e si fa derivare l’Eucaristia più o meno esclusivamente dai pasti che Gesù consumava con i peccatori.

Ma con tali posizioni, si fa coincidere l’Eucaristia secondo l’intenzione di Gesù con una dottrina della giustificazione rigidamente luterana come dottrina della grazia concessa al peccatore; se infine i pasti con i peccatori vengono ammessi come unico elemento sicuro della tradizione del Gesù storico, si ha per risultato una riduzione dell’intera cristologia e teologia su questo punto.

Ma da ciò segue poi un’idea dell’Eucaristia che non ha più nulla in comune con la consuetudine della Chiesa primitiva. Mentre Paolo definisce l’accostarsi all’Eucaristia in stato di peccato come un mangiare e bere «la propria condanna» (cf.1Cor.11,29) e protegge l’Eucaristia dall’abuso mediante l’anatema (cf.1Cor.16,22), appare qui  (in Erfurt e in Shurmann) addirittura come essenza dell’Eucaristia che essa venga offerta a tutti senza alcuna distinzione e condizione preliminare; essa viene interpretata come il segno della grazia incondizionata di Dio, che come tale viene offerta immediatamente anche ai peccatori, anzi, anche ai non credenti – una posizione che, comunque, ha ormai ben poco in comune anche con la concezione che Lutero aveva dell’Eucaristia.

Il contrasto con l’intera tradizione eucaristica neotestamentaria in cui cade la tesi radicalizzata ne confuta il punto di partenza: l’Eucaristia cristiana non è stata compresa partendo dai pasti che Gesù ebbe con i peccatori, e non può neppure essere considerata semplicemente come continuazione della quotidiana comunione conviviale di Gesù con i suoi.

A questa derivazione si oppone:

a) il carattere festivo dell’Eucaristia, messo in risalto dallo stesso Schurmann: con il dono del vino essa veniva differenziata dall’uso quotidiano e caratterizzata come celebrazione festiva. E difatti non c’è alcun indizio che possa far supporre che già nell’epoca apostolica l’Eucaristia fosse celebrata quotidianamente, come invece dovrebbe risultare dalla tesi di Schurmann. Dobbiamo piuttosto partire dal presupposto di una celebrazione settimanale e, più precisamente – come c’insegna Ap.1,10 (cf. At.20,7; 1Cor.16,2) -, della celebrazione domenicale dell’Eucaristia.

b) Un indizio contro la derivazione dell’Eucaristia dai pasti con i peccatori è il suo carattere chiuso, che in questo segue il rituale pasquale: come la cena pasquale viene celebrata nella comunità domestica rigorosamente circoscritta, così esistevano anche per l’Eucaristia fin dall’inizio condizioni d’accesso ben stabilite; essa veniva celebrata fin dall’inizio, per così dire, nella comunità domestica di Gesù Cristo, e in questo modo ha costruito la «Chiesa».

(Ratzinger in un altro capitolo ricorda infatti la questione dei Catecumeni i quali, non ancora battezzati ma in via di ricevere il Battesimo, dopo l’ascolto della Parola di Dio, all’inizio dell’offertorio e della Consacrazione, venivano scortati per uscire dalla Chiesa – le cui porte venivano chiuse, uscire dalla comunità, per accendere in essi il vivo desiderio di poter diventare partecipi ed eredi del Sacramento di santificazione e ringraziamento: l’Eucaristia. Da questo, fa capire Ratzinger, la Chiesa fin dal primo secolo aveva ben chiara la distinzione tra il concetto dell’Ultima Cena, dalla forma liturgico-sacramentale dell’Eucaristia alla quale, per accedervi, occorreva essere integrati nella comunità mediante la confessione dei peccati, l’assoluzione e dunque il Battesimo. Chiusa parentesi nostra)

_020-davanti-protagonista-ratzinger-7Ci troviamo dunque di fronte a un dato di fatto singolarmente differenziato. L’Eucaristia cristiana come tale non è ripetizione dell’Ultima Cena che, a motivo della propria essenza, non era ripetibile; se quest’ultima è stata una cena pasquale (e molti indizi sono favorevoli a tale ipotesi), allora già per ciò stesso ne risultava esclusa la ripetibilità: la Pasqua è una festa che ricorre una volta all’anno, legata al calendario lunare; l’Eucaristia, invece, viene celebrata settimanalmente. D’altra parte, tuttavia, l’Eucaristia riprende dalla tradizione pasquale elementi essenziali: l’esigenza del carattere festivo e la comunità limitata con precise condizioni d’accesso.

Essa comincia già nella fase apostolica a costruire chiaramente la sua forma propria. Forse si potrebbe rendere comprensibile questo processo dicendo: le azioni eucaristiche vengono estrapolate dal contesto della Pasqua e ricevono come loro nuovo contesto il «Giorno del Signore», cioè il giorno del primo incontro con il Risorto. L’entrare del Risorto in mezzo ai suoi è il nuovo inizio, che lascia dietro di sé, come una realtà ormai passata, il calendario festivo giudaico, e stabilisce per il dono dell’Eucaristia il suo nuovo contesto. In questo senso la domenica, il primo giorno della settimana (che però al contempo è ritenuto il giorno d’inizio della creazione e che ora apre la nuova creazione) è la vera collocazione interiore da cui l’Eucaristia come realtà cristiana prende forma. Domenica ed Eucaristia vanno originariamente insieme; il giorno della Risurrezione è l’ambito interiore dell’Eucaristia.

LA FORMA DEFINITIVA

Ci troviamo quindi in questa seconda fase davanti al seguente risultato: la novità cristiana, estrapolata dalla Cena ed unificata, si colloca dopo il pasto normale che i discepoli prendono per sfamarsi. Ambedue gli elementi appaiono collegati l’uno con l’altro dalla fondamentale idea cristiana dell’agape. L’agape scambievole della comunità deve offrire il luogo in cui entra poi l’agape trasformatrice del Signore.

Nello sviluppo reale delle comunità, però, questa bella visione non resse. Risultò che quella che era stata intesa come agape comunitaria e quindi come apertura della porta al Signore, si stava trasformando in un segno di egoismo, e diventava quindi non adatta come preparazione alla comunione con Cristo. Di conseguenza, Paolo in 1Cor.11,22, pone in atto la separazione tra pasto comune ed Eucaristia: «Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere?» Dal punto di vista del tempo, questa separazione si sarà affermata con maggiore o minore rapidità; di fatto, con ciò si era aperta la porta alla terza fase dello sviluppo, in cui prese corpo la definitiva forma ecclesiale del Sacramento.

La prima testimonianza di questa forma è offerta dalla lettera di Plinio a Traiano, dalla quale risulta la prassi della celebrazione mattutina dell’Eucaristia;  la prima esposizione dettagliata della nuova forma la troviamo in Giustino martire (+ c. 165). La mattina della Domenica si conferma come il tempo del culto cristiano e sottolinea ora la correlazione di questa celebrazione liturgica con l’evento della Risurrezione; il distacco dalla matrice giudaica e il progressivo rendersi autonomo dell’elemento cristiano, che era cominciato con il collegamento dell’assemblea cristiana al Giorno del Signore, è ora diventato definitivo anche attraverso la fissazione dell’orario del culto.

Ma questo distacco ha ancora un’altra conseguenza: fin quando l’Eucaristia avveniva immediatamente dopo un pasto normale, era presupposta la partecipazione alla liturgia della parola della Sinagoga. I cristiani si erano, sì, separati ben presto (se non fin dall’inizio) dal sacrificio nel Tempio; ma si radunavano nell’atrio di Salomone e lì, come nelle sinagoghe, avevano continuato a partecipare alla liturgia della parola e della preghiera. Nell’ambito di questa liturgia avevano cercato di rendere comprensibile la loro interpretazione della Scrittura, cioè dell’Antico Testamento, con riferimento a Cristo, e di applicare così la parola della Bibbia, senza alcuna frattura, al loro Signore.

_020-davanti-protagonista-ratzinger-3Il Vangelo di Giovanni segna una fase di sviluppo in cui questa coesione risultava definitivamente rotta.  A questo punto bisognava quindi creare una propria liturgia cristiana della parola, che ora, unita alla Celebrazione eucaristica, precedentemente anch’essa ancora non autonoma, poteva formare una coerente liturgia cristiana. Lo schema fondamentale della liturgia, formatasi in questo modo, è descritto nella sua logica intrinseca nel racconto dei discepoli di Emmaus (cf.Lc.24,25-31). Vi è anzitutto l’ascolto in atteggiamento di ricerca della Sacra Scrittura, che dal Signore risorto viene spiegata ed attualizzata; c’è poi l’ascolto che comincia a capire e si apre nell’invito rivolto al Signore, nella preghiera perché Egli rimanga, e c’è infine la risposta del Signore, che spezza il pane per i suoi, che dona loro la sua presenza e al contempo si sottrae loro, per inviare i discepoli come suoi messaggeri. E questa una forma complessiva, in sé coerente e compatta, che dovette necessariamente svilupparsi dove la Chiesa non poteva più partecipare alla sinagoga ed era così divenuta completamente una realtà a sé stante, una comunità dei credenti in Cristo.

(In un altro capitolo Ratzinger, ritornando sul brano di Emmaus, sottolinea come i due discepoli non riconoscevano il Signore, neppure mentre ascoltavano le sue parole e durante la spiegazione che Egli ne dava. In tal contesto è chiaro, specifica Ratzinger, che la “Sola Scrittura” non basta, non è sufficiente a farci “vedere” il Signore Risorto, è necessario che i discepoli, raccolti e adunati, “spezzino il Pane” in quel nuovo rituale “MEMORIALE” che la Parola del Signore rende Vivo e vero “Pane disceso dal cielo”, come insegnerà poi San Tommaso d’Aquino sulla Presenza reale di Gesù, in quel Pane consacrato definitivamente nel “nuovo rito” che sostituì per sempre la Pasqua ebraica. Chiusa parentesi nostra)

La forma che si è così affermata – e non solo è divenuta di fatto il criterio di ogni sviluppo liturgico nella cristianità, ma tale deve anche rimanere per l’intrinseca esigenza di questa liturgia – difficilmente può essere definita con un unico concetto. A questa conclusione arriva anche Schurmann, che però, in ordine alla questione della forma, ritiene di dover separare liturgia della parola e liturgia eucaristica in senso più stretto, e preferisce poi parlare in un primo tempo, comunque, di una forma conviviale nascente. Ma anche sotto la condizione discutibile che la liturgia della parola venga separata dalla problematica, egli deve infine delimitare talmente il concetto di forma conviviale che questo, di fatto, viene nuovamente eliminato.

«Se chiamiamo lo svolgimento della Celebrazione eucaristica, così come si era affermato all’epoca di Giustino, una forma conviviale, non ne usciamo molto contenti», dice innanzitutto,  e descrive poi i due limiti di questa caratterizzazione: innanzitutto, la forma conviviale sarebbe talmente stilizzata che non si potrebbe più parlare di un pasto reale, ma solo di un pasto «simbolico». Nella maniera più convincente si mostra questa trasformazione nell’atteggiamento di coloro che partecipano all’Eucaristia: mentre durante la liturgia della parola stanno seduti, durante l’azione eucaristica stanno in piedi, ciò che certamente non può indicare il passaggio ad una normale situazione conviviale. In secondo luogo, la preghiera – l’eucharìstia – ha acquisito un tale sopravvento che Schùrmann si sente costretto a qualificare la forma conviviale, ormai comunque soltanto «simbolica», oltre a ciò anche come una forma conviviale «distorta».

In queste condizioni, è oggettivamente più giusto abbandonare del tutto il concetto inadeguato di «forma conviviale». L’elemento portante è l’eucharistia, dato che questa, in quanto partecipazione al ringraziamento di Gesù, implica anche il ringraziamento a tavola per i doni della terra, si esprime già qui quanto di forma conviviale è realmente contenuto nell’evento liturgico.

L’analisi dello sviluppo storico conferma ed approfondisce così la tesi che Jungmann, in base alle fonti liturgiche, aveva tratteggiato in modo piuttosto prudente; al tempo stesso si è reso evidente che in questa determinazione della forma è, sì, scartato il piatto adeguamento della liturgia cristiana alla forma dell’Ultima Cena di Gesù, ma non si introduce alcuno iato tra Gesù e la Chiesa.

_020-davanti-protagonista-ratzinger-10Il dono del Signore non è una forma rigida, ma una realtà vivente (è la Presenza reale), aperta allo sviluppo storico, e solo dove si accetta questo sviluppo, si entra in un rapporto di continuità con Gesù vivo e vero. Alla base del progressismo riformatore vi è anche qui, come in tanti altri casi, una rigida visione degli inizi cristiani, per la quale la storia è composta solo da singoli elementi accostati tra di loro ma interiormente estranei gli uni agli altri, mentre la visione sacramentale della Chiesa poggia su un’intima unità dello sviluppo, che proprio nel progredire conserva la fedeltà ed unisce i mutevoli tempi della storia grazie alla forza dell’unico Signore e del suo dono.

(In altro contesto Ratzinger spiega come la scena dei due discepoli di Emmaus sia fondamentale per comprendere la liturgia cattolica, fedele al mandato di Cristo: Egli sempre ci precede, si unisce ai “suoi”, spiega le Scritture per mezzo dello Spirito Santo e “spezzando il Pane consacrato”, si rivela – sotto le specie Eucaristiche – non per una “conviviale”, ma per condividere una realtà fondamentale per la nostra salvezza e per il sostentamento, in questo camminare. Chiusa la nostra parentesi)

Sia questo lato formale della questione come anche il suo risultato contenutistico possono essere di massima importanza per i dibattiti attuali all’interno della Chiesa. Dove, infatti, si capisce nuovamente che il concetto di «forma di convito» è una semplificazione storicamente non sostenibile e si vede invece il testamento del Signore in modo oggettivamente giusto sotto il pensiero guida dell’Eucharistia, molte delle presenti alternative vengono a cadere quasi da sé. Soprattutto si scioglie l’esiziale separazione tra livello liturgico e dogmatico, senza che sia cancellata la specificità dei due ambiti: Eucharistia significa tanto il dono della communio, in cui il Signore si rende certamente cibo per noi, quanto l’autodonazione di Gesù Cristo (Presenza reale), che ha portato a compimento il suo «sì» trinitario al Padre nel «sì» della croce, e in questo «sacrificio» ha riconciliato tutti noi con il Padre. Non c’è alcun contrasto tra «convito» e «sacrificio»; nel nuovo sacrificio del Signore ambedue s’intrecciano inscindibilmente.

APPENDICE

Rispetto ad altre questioni sollevate dai teologi modernisti e da una teologia protestante infiltratasi nella Chiesa, Ratzinger sottolinea altri aspetti:

_020-davanti-protagonista-ratzinger-9 “.. a me interessa propriamente la legittimità del passaggio dalla Cena alla Messa, da Gesù all’Eucaristia della Chiesa e così mi interessa lo iato, caratterizzante la visione della teologia moderna, tra Gesù e la Chiesa e quindi in generale la natura dello sviluppo della Tradizione e della Chiesa. Malgrado questa differenza nell’approccio al problema, mi sembra tanto più importante l’unità di base nel risultato. D’ora innanzi non dovrebbe più essere possibile parlare semplicemente della «struttura di convito» dell’Eucaristia, la cui affermazione si basa su un malinteso circa l’evento istitutivo e conduce ad un fraintendimento del Sacramento in genere.

Ancor meno si può definire l’Eucaristia soltanto come «convito» (e neppure semplicemente come un «convito sacrificale»), Essa o è “il Sacrificio” o non lo è..

Alla luce di questa considerazione è urgentemente auspicabile una revisione della traduzione tedesca del Messale di Paolo VI, dove, particolarmente nelle orazioni dopo la comunione [«post-communio»], la parola «Mahl» – convito -, contrariamente all’originale latino, è stata resa quasi la denominazione normale dell’Eucaristia, creando così una contraddizione di fatto con il testo originale del Messale.

(A riguardo delle traduzioni vi suggeriamo la famosa Lettera ai Vescovi tedeschi, vedi qui, sulla questione del Pro-Multis dell’allora Benedetto XVI, una Lettera oggi gettata nel fango, straccia da questo pontificato e da tutte le conferenze episcopali. Per non parlare di ciò che stanno facendo oggi con il tentativo di una messa ecumenica senza consacrazione, vedi qui, e il problema inerente alle traduzioni del Messale, vedi qui. Chiusa nostra parentesi)

APPENDICE 2

Prospettive completamente nuove per il nostro problema si aprono grazie al fondamentale saggio di HARTMUT GESE.  Questo stimolante contributo conferma la tesi di base qui esposta e le dà al tempo stesso una portata prima non calcolabile. Gese affronta anzitutto l’ipotesi ancor sempre utilizzata di due forme della Cena del Signore: una sacramentale ellenistica e una non sacramentale gerosolimitana-giudaica – ipotesi per la quale i testi non offrono alcun appiglio. «Il fondamento di questa ipotesi è piuttosto il problema della derivazione: dalla concezione giudaica del pasto non si potrebbe far derivare la concezione sacramentale».  Proprio questo contrasto induce Gese a riprendere in modo nuovo la questione della derivazione, in cui rientra la decisione fondamentale per la comprensione della stessa Eucaristia.

Egli esamina innanzitutto le varie possibilità di derivazione attualmente considerate, e cioè: il pasto giudaico, la pasqua, i pasti di Qumran, i pasti di Gesù, il miracolo della moltiplicazione dei pani, i pasti del Risorto. Egli è in grado di dimostrare che nessuna di queste derivazioni può vantare un sufficiente riscontro nelle fonti del Nuovo Testamento. Così, sia il miracolo della moltiplicazione dei pani, sia i pasti (d’impronta antidocetica) del Risorto sembrano «presupporre la prassi della Cena del Signore piuttosto che essere il modello da cui questa possa essere derivata».

La morte di Gesù è già interpretata nei racconti della Passione come sacrificio pasquale, come «evento salvifico pasquale di liberazione e di rinascita dal caos dell’antico mondo»;  ma con ciò non è data la comprensione della Cena del Signore come Pasqua o addirittura la sua derivazione da questa. Rimane come risultato che la Pasqua ha acquistato, sì, un’importanza fondamentale per l’interpretazione della Passione di Cristo e così anche per la teologia dell’Eucaristia; da essa però non sembra possibile derivare l’Eucaristia.

La cena pasquale è una forma specifica del pasto sacro giudaico. Prima di esaminare ulteriori alternative di pasti specifici, bisogna quindi chiarire quanto di teologia sia veramente contenuto nel pasto giudaico e quali ponti conducano da lì all’Eucaristia. Gese mette qui in luce punti di vista di notevole interesse:

«Il pasto giudaico è contraddistinto da alcune caratteristiche fondamentali, perché il banchetto festivo nei tempi antichi risale ad una forma basilare di sacrifìcio, lo zebàh, il ‘sacrificio conviviale’ ovvero ‘sacrificio di comunione’. Nel periodo predeuteronomico, una macellazione poteva avvenire solo all’altare. La consumazione di carne presupponeva un sacrificio conviviale!…. Ne erano in ogni caso parte costitutiva il pane e il vino, senza che queste parti incruente supponessero di per sé un altare. Il carattere sacrificale di questo pasto ha un duplice significato: nel pasto trovano espressione insieme la comunione con Dio al cui sacrificio, appunto, si prende parte e la comunione reciproca, e a ciò corrisponde una condizione di salvezza; tra i partecipanti al sacrificio conviviale regna la shalom – per questo i sacrifici conviviali che si celebrano come festa liturgica pubblica vengono chiamati s’lamin».

_020-davanti-protagonista-ratzinger-8È spontaneo qui pensare alla denominazione dell’Eucaristia nella Chiesa antica come «Pax», in cui viene continuata questa tradizione d’Israele, che a sua volta lascia trasparire tradizioni umane primordiali. Un’altra indicazione ancora è importante: l’antico convito di benedizione – che comincia sempre con la beraka, la benedizione sul pane e sul vino – «inaugura […] un essere-shalom». Spetta in proposito una particolare importanza all’elevazione del calice, perché vi si collega la sacra dichiarazione mediante la quale, appunto, si inaugura questo particolare modo di essere. «Dalle specifiche <circostanze> il sacrificio conviviale riceve così il suo significato specifico. In Es 24, 11, il banchetto può inaugurare l’alleanza sul Sinai tra Jahvé ed Israele, in Is 25,1-10, è la nuova alleanza sul monte Sion che viene stipulata mediante il banchetto – qui nella forma particolare del sacrificio dì ringraziamento -, e così si possono immaginare i tipi più diversi di banchetto sacro ».

Con questo si pone di nuovo la questione circa il convito particolare dal quale potè svilupparsi l’Eucaristia del Signore, venuto a “portare a compimento” e nulla a togliere. Gese osserva in proposito: «Stranamente sfuggì alla ricerca una determinata forma di banchetto sacro che è profondamente radicata nell’Antico Testamento e (secondo quanto risulta dalla Mishna) ha svolto un ruolo addirittura preminente anche nel giudaismo ai tempi di Gesù: la todà, il sacrificio di ringraziamento. Questo sacrificio appartiene allo zebah, al sacrificio conviviale in senso più ampio, ma si distingue considerevolmente dal comune sacrificio conviviale, per quanto riguarda il rito […] ed il significato teologico. Troviamo qui il riferimento da noi cercato con l’evento di morte e di salvezza dell’offerente».

Per quanto riguarda la diffusione di questo tipo di sacrificio conviviale, si può dire «che la tòdà ha costituito la base cultuale della parte principale del Salterio». Gese analizza come esempi di tali salmi-tòdà, che come ambientazione concreta hanno lo svolgimento della tòdà, i salmi 69; 51; 40,1-12; e 22 – i grandi Salmi cristologici del Nuovo Testamento – dei quali il Salmo 22 è divenuto per gli evangelisti il canovaccio della Passione di Cristo. Dal contesto evidenziato da Gese risulta chiaramente che questo non è un’applicazione successiva di parole veterotestamentarie ad un evento che così sarebbe stato trasformato e teologizzato; la passione e Risurrezione di Gesù è tòdà: è il compimento reale della parola di questi Salmi, e ciò con una profondità della quale queste parole, sembra, che fossero come in attesa – parole che andavano al di là di ogni individuale destino di morte e di salvezza, ma al di là anche del destino semplicemente collettivo d’Israele verso una dimensione più grande fino ad allora sconosciuta.

In che cosa consiste la tòdà? Gese la caratterizza così: «Il sacrificio di ringraziamento presuppone una determinata situazione. Quando un uomo è salvato da un pericolo mortale, da una malattia micidiale o da una persecuzione che minaccia la sua vita, egli festeggia questo salvataggio divino in un culto sacrificale di ringraziamento come nuova fondazione della sua esistenza. Qui egli riconosce (jdIhI) Dio come Salvatore in un banchetto sacrificale di ‘attestazione’ e di ringraziamento (tòdà). Invita le persone che appartengono al suo ambiente di vita, offre l’animale per il sacrificio […] e compie […] insieme agli invitati l’inaugurazione della sua nuova esistenza […]. Si fa memoria del salvataggio operato da Dio e vi si rende grazie solo considerando l’attraversamento della crisi e l’evento della liberazione […]. Non è un semplice rito sacrificale, ma un rito sacrificale di attestazione […]: rito verbale e rito conviviale, lode e sacrificio formano qui un’unità. Il sacrificio non può, qui, essere frainteso come ‘offerta’ a Dio, è piuttosto l’ “onoranza’ tributata al Salvatore. Ed è un dono di Dio, che il salvato possa festeggiare la propria vita nel banchetto sacro».

Per quanto riguarda gli elementi formali, due aspetti sono particolarmente importanti per la nostra questione. Decisiva per questo tipo di sacrificio è l’attestazione in atteggiamento di gratitudine, è (come già detto) un «un rito sacrificale di attestazione». «Se il riconoscimento della salvazione divina divenne parte costitutiva del sacrificio, questo rito potè apparire addirittura un riscontro del sacrificio stesso. Il calice corrisponde all’evento dell’annuncio, il sacrificio all’evento conviviale della tòdà».

Troviamo qui l’idea ellenistica del sacrificio a modo di parola, di cui abbiamo parlato nell’analisi dell’Eucaristia come elemento strutturale e portatore del concetto di sacrificio, profondamente radicato anche nell’Antico Testamento, sviluppatosi dall’intrinseca dinamica della fede veterotestamentaria. A questo punto era costruito in anticipo il ponte dall’Antico Testamento e da Gesù verso le «genti», verso il mondo greco: il compimento. Qui gli sviluppi spirituali convergono gli uni verso gli altri: sia lo schema giudaico che quello ellenistico sono, per così dire, in attesa di Colui che è il Verbo stesso e che, come Logos crocifisso, è insieme anche il Giusto salvato dall’abisso della morte. Il secondo importante elemento formale riguarda l’ambito che noi oggi designiamo come «materia» del Sacramento: «In contrasto con il sacrificio conviviale, la tòdà comprende non solo un sacrificio cruento di carne, ma anche un sacrificio incruento di pane ed è l’unico tipo di sacrificio che ha da farsi con il pane lievitato. Così, pane e vino ricevono nella tòdà un significato particolare: l’uno diventa una parte del sacrificio stesso, l’altro riceve un significato costitutivo nell’evento dell’annuncio».

_020-davanti-protagonista-ratzinger-6Dall’analisi dei suddetti salmi-tòdà vorrei scegliere solo due indicazioni. C’è innanzitutto la parola del salmo 51: «Sacrificio conviviale a Dio è uno spirito affranto; un cuore affranto e umiliato tu, o Dio, non disprezzi» (cf. v. 19). In questo testo si mostra «il sacrificio esteriore della todà anche interiorizzato nel senso di una sofferenza sacrificale della propria vita».  Si rende evidente come «in base alla pietà della tòdà la concezione del sacrificio e quella della vita potevano compenetrarsi a vicenda». Lo stesso pensiero appare ancora approfondito nel Salmo 40,1-12: «Con l’allusione alle formulazioni circa la Nuova Alleanza (Is 31, 33; Ez 36, 27) la piena ricezione della Torà nel proprio intimo appare come il traguardo finale. Non è un’illuminata critica del sacrificio, quella che si riflette in questi Salmi, ma il pieno coinvolgimento dell’uomo nella natura del sacrificio, coinvolgimento maturato sul terreno della profonda pietà del sacrificio di ringraziamento ».

Il secondo pensiero che vorrei menzionare si connette specialmente ai Salmi 22 e 69. La sofferenza mortale dell’orante appare qui «accresciuta fino ad una sofferenza primigenia»; vi corrisponde il fatto che anche «il salvataggio doveva andare al di là di tutti i limiti della storia […] e diventare il segno dell’irruzione escatologica della basileia. L’esperienza fondamentale di morte e redenzione, maturata nella pietà della todà, veniva approfondita in una dimensione assoluta nella prospettiva apocalittica e il salvataggio dalla morte portava alla conversione del mondo, alla partecipazione dei morti alla vita ed al perenne annuncio della salvezza (Sal 22, 28ss.) ».

Per chi considera queste connessioni, la domanda circa la derivazione dell’Eucaristia di Gesù Cristo ha trovato la sua risposta. Nella pietà veterotestamentaria della todà si trova strutturalmente anticipata l’intera cristologia, e proprio come cristologia eucaristica. La diagnosi di Gese dice pertanto: «La Cena del Signore è la tòdà del Risorto». Non occorre più illustrare qui l’applicazione dei singoli tratti. E’ importante solo far ancora notare l’approfondimento decisivo del sacrificio veterotestamentario della tòdà, che corrisponde completamente alla sua più intima intensione e proprio così trasforma l’Antica nella Nuova Alleanza: «Nell’antica tòdà il salvato offriva un animale da sacrificio per sé e per la comunità. Ma il Risorto ha dato se stesso; il sacrificio è il suo sacrificio, la sua esistenza terrena e corporea che è stata sacrificata […]. Il cibo del pasto sacro, rappresentato dal pane sacrificale, è – per quanto riguarda la sua sacralità come sacrificio – il corpo di Gesù […]. Il pane non significa il corpo di Gesù in senso metaforico, simbolico o spirituale, ma è proprio nella sua essenza, come sostanza del pasto, il sacrificio di Gesù nel banchetto sacrificale della tòdà, ora è presenza eterna».

Con la tòdà di Gesù è stata data ragione alla frase rabbinica: « Nel tempo futuro (messianico) cesseranno tutti i sacrifici, ma il sacrificio della tòdà non cesserà in eterno, e cesseranno anche tutti i canti (religiosi), ma i canti della tòdà non cesseranno in eterno ».

Ho riprodotto così dettagliatamente il contenuto della ricerca di Gese perché mi sembra difficile apprezzarne in modo adeguato l’importanza. La disputa sul concetto di sacrificio, che da oltre quattro secoli divide la cristianità, si pone qui in una luce completamente nuova, ma non estranea alla tradizione teologica della Chiesa. Dovrebbe aprirsi da qui una nuova porta per il dialogo ecumenico tra cattolici e protestanti, perché si rende visibile un concetto genuinamente neotestamentario di sacrificio in cui, da una parte, l’eredità cattolica può essere pienamente salvaguardata, anzi, capita in una nuova profondità… Questa sintesi è possibile, perché è tenuta d’occhio l’intima unità dei Testamenti, che nella teologia moderna si era sempre più persa di vista, mentre invece lo stesso Nuovo Testamento non intendeva essere altro che la piena comprensione dell’Antico Testamento resa possibile in Cristo: l’intero Antico Testamento è un movimento di avvicinamento a Lui, un atteggiamento d’attesa di Colui nel quale tutte le parole veterotestamentarie sono divenute realtà, hanno trovato compimento e in tal modo l’«Alleanza» ha raggiunto la sua forma compiuta, è divenuta Nuova Alleanza.

Infine, si rendono qui evidenti anche il significato della Presenza reale e la piena teologia della liturgia pasquale dei cristiani, e questo a partire dal loro fondamento storico-salvifico e biblico: come in questa analisi è messa in luce l’unità tra Antico e Nuovo Testamento, tra eredità cattolica ed eredità protestante, così lo è anche l’unità tra Bibbia e fede della Chiesa, tra teologia e pastorale.

Vorrei per questo citare anche l’esortazione rivolta alla prassi, che Gese deriva dalle sue convinzioni: «Non si pensi che una riduzione della dimensione sacramentale possa giovare all’uomo d’oggi: al contrario, tali riduzioni si sono verificate già da lungo tempo, e sono state proprio esse a produrre i fraintendimenti. Solo un’iniziativa che in modo pieno e positivo renda accessibile alla comprensione questa centrale celebrazione liturgica può essere un vero aiuto. Del resto, la liturgia della Cena del Signore non è per nulla un campo sperimentale […]».

La diagnosi, secondo cui eucharistia o eulogia è la «forma» determinante dell’Eucaristia, ha qui trovato una sorprendente conferma, che sola rende pienamente evidenti il suo contenuto e le sue conseguenze. Può qui rimanere aperto la domanda circa la misura in cui la discussione scientifica delle tesi di Gese produrrà singole correzioni o integrazioni.

L’intuizione centrale, cioè la stretta connessione tra sacrificio della tòdà ed Eucaristia – Presenza reale, tra pietà della tòdà e cristologia, mi sembra perfettamente dimostrata. Lo stretto legame che la tradizione neotestamentaria ha stabilito tra i salmi-tòdà e la cristologia, l’unità strutturale tra il loro genere ed il contenuto dell’Eucaristia, è così evidente che questa connessione, sulla base dei testi, non può in definitiva essere messa in discussione.

______________

NOTE

1) OPERA OMNIA- Edizione Tedesca – A cura di S.E.R. Mons. GERHARD LUDWIG MULLER in collaborazione con l’Istituto «Papa Benedetto XVI», Ratisbona: Rudolf Voderholzer, Christian Schaller, Gabriel Weiten Edizione Italiana A cura di: EDMONDO CARUANA – PIERLUCA AZZARO Traduzione A cura di: INGRID STAMPA Volume XI – TEOLOGIA DELLA LITURGIA

LIBRERIA EDITRICE VATICANA In collaborazione con In Casa editrice HERDER, Freiburg – Basel – Wien © Copyright 2010 – Libreria Editrice Vaticana 00120 Città del Vaticano Tel. (06) 698.85003 – Fax (06) 698.84716 – libreriaeditricevaticana LEV

–  Quanto è stato riportato è tratto sia dall’Opera Omnia di J. Ratzinger, quanto dal testo “Davanti al Protagonista” alle radici della liturgia, Ed. Cantagalli – 2009

Cliccare qui per scaricare il PDF


 

_002 schede 36

Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, durante una Conferenza svoltasi presso l’Abbazia benedettina di “Notre Dame de Fontgombault”, in Francia (22-24 luglio 2001). 


Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia come “l’opera del Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa” (Sacrosanctum Concilium , n. 7). L’opera di Gesù Cristo è designata nello stesso testo come l’opera della redenzione che il Cristo ha compiuto in modo particolare attraverso il mistero pasquale della Sua passione, della Sua Resurrezione dai morti e della Sua gloriosa ascensione. “Con questo mistero, morendo, ha distrutto la nostra morte e, risorgendo, ha restaurato la vita” (Sacrosanctum Concilium , n. 5).

A prima vista, in queste due frasi la parola “opera del Cristo” sembra utilizzata in due distinti significati. L’opera del Cristo designa in primo luogo le azioni redentrici storiche di Gesù, la Sua morte e la Sua Resurrezione; d’altra parte si definisce “opera del Costo” la celebrazione della liturgia. In realtà, i due significati sono inseparabilmente legati: la morte e la Resurrezione, il mistero pasquale non sono soltanto avvenimenti storici esteriori. Per la Resurrezione, questo appare molto chiaramente.

Raggiunge e penetra la storia, ma la trascende in un doppio senso; non è l’azione di un uomo bensì una azione di Dio, e conduce in tal modo Gesù risuscitato oltre la storia, là dove siede alla destra del Padre. Neanche la croce è una semplice azione umana.

L’aspetto puramente umano è presente nelle persone che condussero Gesù alla croce. Per Gesù, la croce non è un’azione, ma una passione, e una passione che significa che Egli è un tutt’uno con la volontà divina, un’unione della quale l’episodio dell’Orto degli Ulivi ci fa vedere l’aspetto drammatico.

Così la dimensione passiva della Sua messa a morte si trasforma nella dimensione attiva dell’amore: la morte diventa abbandono di se stesso al Padre per gli uomini. In questo modo l’orizzonte si estende, qui come nella Resurrezione, ben al di là del puro aspetto umano e ben al di là del puro fatto di essere stato crocifisso e di essere morto.

Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il nocciolo più intimo dell’avvenimento redentore. Se possiamo dire da allora in poi che il mistero pasquale costituì il nocciolo dell’opera di Gesù, il rapporto con la liturgia è già patente; è precisamente questa opera di Gesù che è il vero contenuto della liturgia. Tramite questa, con la fede e la preghiera della Chiesa, l’opera di Gesù raggiunge continuamente la storia per penetrarla.

Nella liturgia il puro istante storico è così trasceso di nuovo ed entra nell’azione divino-umana permanente della redenzione. In questa Cristo è il vero soggetto: e l’opera del Cristo, ma in essa Egli attira a sé la storia, precisamente in questa azione che è il luogo della nostra salvezza.

Il sacrificio rimosso in questione

Tornando al Vaticano II, vi troviamo la seguente descrizione di questi rapporti: “La liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa” (ibid. n. 2).

Tutto ciò è diventato estraneo al pensiero moderno e nemmeno trent’anni dopo il concilio, persino tra i liturgisti cattolici, è oggetto di punti interrogativi. Oggi chi parla ancora del sacrificio divino dell’Eucaristia? Certo le discussioni intorno alla nozione di sacrificio sono tornate ad essere sorprendentemente vive, sia da parte cattolica che protestante. Si avverte che in un’idea che ha sempre occupato, sotto molte forme, non soltanto la storia della Chiesa, ma la storia intera dell’umanità, vi deve esserci l’espressione di qualche cosa di essenziale che riguarda anche noi.

Ma nello stesso tempo restano ancora vive ovunque le vecchie posizioni dell’illuminismo: accusa a priori di magia e di paganesimo, sistematiche opposizioni tra rito ed ethos, concezione di un cristianesimo che si libera dal culto ed entra nel mondo profano; teologi cattolici che non hanno per nulla voglia, per l’appunto, di vedersi tacciare di anti-modernità.

Anche se si ha in un modo o nell’altro il desiderio di ritrovare il concetto di sacrificio, ciò che alla fine resta è l’imbarazzo e la critica. Così recentemente Stephan Orth, in un vasto panorama della bibliografia recente consacrata al terna del sacrificio, ha creduto di riassumere tutta la sua inchiesta con le constatazioni seguenti: oggi, persino molti cattolici ratificano il verdetto e le conclusioni di Martin Lutero, per il quale parlare di sacrificio è il più grande e spaventoso errore, è una maledetta empietà. [SM=g28001]

Per questo motivo vogliamo astenerci da tutto ciò che sa di sacrificio, compreso tutto il canone e considerare solo tutto ciò che è santo e puro.
Poi Orth aggiunge: dopo il Concilio Vaticano II questa massima fu seguita anche nella Chiesa cattolica, per lo meno come tendenza, e condusse a pensare anzitutto il culto divino a partire dalla festa della Pasqua, citata nel racconto della Cena. Facendo riferimento ad un’opera sul sacrificio edita da due liturgisti cattolici di avanguardia, dice in seguito, in termini un po’ più moderati, che appare chiaramente che la nozione di sacrificio della Messa, più ancora di quella del sacrificio della Croce, è nel migliore dei casi una nozione che si presta motto facilmente a malintesi.

Non è necessario che dica che io non faccio parte dei “numerosi” cattolici che considerano con Lutero come il più spaventoso errore e una maledetta empietà il fatto di parlare di sacrificio della Messa. Si comprende parimenti che il redattore abbia rinunciato a menzionare il mio libro sullo Spirito della liturgia che analizza nel dettaglio la nozione di sacrificio[SM=g28002]

La sua diagnosi risulta costernante. È anche vera? Io non conosco questi numerosi cattolici che considerano come una maledetta empietà il fatto di comprendere l’Eucaristia come un sacrificio. La seconda diagnosi, più cauta, secondo la quale si considera la nozione di sacrificio della Messa come concetto altamente esposto a malintesi, si presta invece a facile verifica. Ma, se si lascia da parte la prima affermazione del redattore, non trovandoci che una esagerazione retorica, resta un problema sconvolgente che occorre risolvere. Una parte non trascurabile di liturgisti cattolici sembra essere praticamente arrivata alla conclusione che occorre dare sostanzialmente ragione a Lutero contro Trento nel dibattito del XVI secolo; si può del pari ampiamente constatare la medesima posizione nelle discussioni post-conciliari sul sacerdozio.

Il grande storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin, indicava questo fatto nel 1975, nella prefazione all’ultimo volume della sua Storia del Concilio di Trento: “il lettore attento… non sarà, leggendo ciò, meno costernato dell’autore, quando si renderà conto del numero di cose, a dire il vero quasi tutte, che, avendo una volta agitato gli uomini, sono di nuovo proposte oggi”.
Solo a partire da qui, dalla squalifica pratica di Trento, si può comprendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del 1962. Questa possibilità è la contraddizione più forte e quindi la meno tollerabile in rapporto all’opinione di colui che ritiene che la fede nell’Eucaristia formulata a Trento abbia perso il suo valore. Sarebbe facile raccogliere prove a sostegno di questa situazione.

Faccio astrazione dalla teologia liturgica estrema di Harald Schutzeichel, che si stacca completamente dal dogma cattolico ed espone, per esempio, l’affermazione avventurosa che soltanto nel Medioevo l’idea di presenza reale sarebbe stata inventata. Un liturgista di punta, come David N. Power, ci insegna che nel corso della storia non solo la maniera con la quale una verità viene espressa, ma lo stesso contenuto di ciò che vi è espresso può perdere il suo significato. Mette concretamente questa teoria in rapporto con gli enunciati di Trento.

Th. Schnitker ci dice che una liturgia rinnovata include egualmente una espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici. Del resto, secondo lui ci sarebbero teologi, per lo meno nel cerchio della Chiesa romana e della sua liturgia, che non avrebbero ancora colto la portata di queste trasformazioni promosse dalla riforma liturgica nel campo della dottrina della fede. L’opera senza dubbio seria di R. Messner sulla riforma della Messa in Martin Lutero e l’Eucaristia della Chiesa antica, che contiene molte interessanti riflessioni, giunge tuttavia alla conclusione che Lutero comprese la Chiesa antica meglio di Trento.

La gravità di queste teorie consiste nel fatto che frequentemente passano subito nella pratica. La tesi secondo la quale è la comunità in quanto tale il soggetto della liturgia passa per una autorizzazione a manipolare la liturgia secondo la comprensione di ciascuno. Pretese nuove scoperte e le forme che ne conseguono si diffondono con una stupefacente rapidità e con una obbedienza riguardo a tali mode che da tempo non esiste più riguardo alle norme dell’autorità ecclesiastica. Delle teorie nel campo della liturgia si trasformano oggi molto rapidamente in pratica e la pratica, a sua volta, crea o distrugge comportamenti e forme di comprensione

La problematica del resto si è nel frattempo aggravata per il motivo che il movimento più recente dell’illuminismo supera di gran lunga Lutero. Mentre Lutero prendeva ancora alla lettera i racconti della Istituzione e li poneva come norma normans, come fondamento dei suoi tentativi di riforma, le ipotesi della critica storica stanno da tempo provocando un’ampia erosione dei testi.
I racconti della Cena appaiono come un prodotto della costruzione liturgica della comunità; dietro ad essi si cerca un Gesù storico che “naturalmente” non poteva aver pensato al dono del Suo corpo e del Suo sangue, né aver compreso la Sua croce come sacrificio di espiazione; bisognerebbe piuttosto pensare a un pasto d’addio contenente una prospettiva escatologica.

Non solo l’autorità del Magistero ecclesiale è declassata agli occhi di molti, ma anche la Scrittura, al posto della quale entrano delle ipotesi pseudo-storiche mutevoli, che in fondo daranno spazio a qual si voglia arbitrio ed espongono la liturgia alla mercé della moda. Laddove sulla base ditali idee si manipola sempre più liberamente la liturgia, i credenti sentono che in realtà nulla vi è celebrato ed è comprensibile che abbandonino la liturgia e con questa la Chiesa.

_002 schede 41

I principi della ricerca teologica 

Torniamo dunque alla questione fondamentale: è giusto qualificare l’Eucaristia di sacrificio divino, oppure è una maledetta empietà? In questo dibattito occorre per prima cosa stabilire i principali presupposti che determinano in ogni caso la lettura della Scrittura e conseguentemente le conclusioni che se ne traggono. Per il cristiano cattolico qui si impongono due linee ermeneutiche essenziali di orientamento. La prima: noi diamo fiducia alla Scrittura e ci basiamo sulla Scrittura, non su ricostruzioni ipotetiche che si collocano al di qua di essa e ricostruiscono a modo loro una storia nella quale svolge un ruolo fondamentale la domanda presuntuosa di sapere ciò che si può o ciò che non si può attribuire a Gesù; il che significa “naturalmente” solo ciò che un erudito moderno vuole attribuire a un uomo di un tempo che lui stesso ha ricostruito.

La seconda è che noi leggiamo la scrittura nella comunità vivente della Chiesa e dunque sulla base di decisioni fondamentali, grazie alle quali è divenuta storicamente efficace e ha precedentemente gettato le basi della Chiesa. Non bisogna separare il testo da questo contesto vivente. In questo senso la Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile e questo è il punto che Lutero, all’alba del risveglio dalla coscienza storica, non è riuscito a vedere. Egli credeva alla univocità della lettera, univocità che non esiste e alla quale ha da lungo tempo rinunciato la storiografia moderna.

Che nella Chiesa nascente, l’Eucaristia sia stata sin dall’inizio compresa come sacrificio, persino in un testo come la Didachè, difficile e piuttosto marginale in rapporto alla grande tradizione, è un elemento di interpretazione di prim’ordine. Ma c’è ancora un oltre aspetto ermeneutico fondamentale nella lettura e nella interpretazione della testimonianza biblica. Il fatto che io possa o no riconoscere un sacrificio nell’Eucaristia, così come il Signore l’ha istituita, si collega essenzialmente alla questione di sapere ciò che io intendo per sacrificio, dunque a ciò che si chiama pre-comprensione. La pre-comprensione di Lutero, per esempio, in particolare la sua concezione dell’avvenimento e della presenza storica della Chiesa, era tale che la categoria di sacrificio, così come egli la vedeva, non poteva nella sua applicazione all’Eucaristia della Chiesa apparire che come un’empietà.

I dibattiti ai quali si riferisce Stephan Orth mostrano quanto confusa e ingarbugliata è la nozione di sacrificio in quasi tutti gli autori e mettono in condizione di vedere tutto il lavoro da farsi sull’argomento. Per il teologo credente risulta evidente che è la stessa Scrittura che deve fargli da guida verso la definizione essenziale di sacrificio e ciò a partire da una lettura “canonica” della Bibbia nella quale la Scrittura è letta nella sua unità e nel suo movimento dinamico, le cui diverse tappe ricevono il loro significato ultimo da Cristo, al quale questo movimento nella sua interezza conduce. In questa stessa misura, l’ermeneutica qui presupposta è una ermeneutica della fede, fondata sulla sua logica interna. Non dovrebbe essere, in fondo, una evidenza? Poiché senza la fede, la stessa Scrittura non è la Scrittura, ma un insieme piuttosto disparato di brani letterari, il che non potrebbe rivendicare oggi alcun significato normativo.

Il sacrificio e la Pasqua

Il compito al quale si fa qui allusione supera di molto, beninteso, i limiti di una conferenza; mi sia allora permesso di rimandare al mio libro su Lo spirito della liturgia, nel quale ho cercato di tracciare le grandi linee di questa questione. Ciò che se no deduce è che, nel suo percorso attraverso la storia delle religioni e la storia biblica, la nozione di sacrificio assume delle connotazioni che vanno ben oltre la problematica che noi leghiamo abitualmente alla nozione di sacrificio. Di fatto, apre l’accesso alla comprensione globale del culto e della liturgia: sono queste grandi prospettive che vorrei tentare di indicare qui. In questo modo devo necessariamente rinunciare a questioni speciali d’esegesi, in particolare al problema fondamentale dell’interpretazione dei racconti dell’istituzione, riguardo alla quale, oltre al mio libro sulla liturgia, ho cercato di fornire alcuni elementi nel mio contributo su Eucaristia e Missione.

C’è tuttavia una indicazione che non posso impedirmi di dare, Nella menzionata rassegna bibliografica Stephan Orth dice che il fatto di avere evitato, dopo il Vaticano II, la nozione di sacrificio, ha condotto a “pensare il culto divino soprattutto a partire dal rito della Pasqua, rapportata nei racconti della Cena”. Questa formulazione appare a prima vista ambigua: si pensa il culto divino a partire dalla Cena, oppure dalla festa di Pasqua che vengono indicate come quadro temporale, ma non vengono descritte ulteriormente? Sarebbe giusto dire che la Pasqua ebraica, la cui istituzione è riportata in Es 12, acquista nel Nuovo Testamento un nuovo senso. Proprio in essa si manifesta un grande movimento storico che va dalle origini fino alla Cena, alla Croce e alla Resurrezione di Gesù. Ma ciò che stupisce, soprattutto nella formulazione di Orth, è l’opposizione costruita tra l’idea di sacrificio e la Pasqua.

I dati veterotestamentari giudaici privano tutto ciò di senso, poiché dalla legislazione deutoronomistica l’uccisione degli agnelli è legata al tempio; ma persino nel periodo primitivo, in cui la Pasqua era ancora una festa familiare, l’uccisione degli agnelli aveva già un carattere sacrificale. Così, per l’appunto attraverso la tradizione della Pasqua, l’idea di sacrificio arriva fino alle parole e ai gesti della Cena, dove è presente, del resto, sulla base di un secondo passaggio veterotestamentario, Es 24, che riporta la conclusione dell’Alleanza del Sinai. Là è riferito che il popolo fu asperso col sangue delle vittime condotte in precedenza e che Mosè disse in quella occasione: “Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,8).

La nuova Pasqua cristiana è così espressamente interpretata nei racconti della Cena come un avvenimento sacrificate e, sulla base delle parole della Cena, la Chiesa nascente sapeva che la croce era un sacrifico, poiché la Cena sarebbe stata un gesto vuoto senza la realtà della croce e della Resurrezione, che vi è anticipata e resa accessibile per tutti i tempi nel suo contenuto interno.
Menziono questa strana opposizione tra la Pasqua e il sacrificio, perché rappresenta il principio architettonico di un libro recentemente pubblicato dalla Fraternità San Pio X, che pretende esista una rottura dogmatica tra la nuova liturgia di Paolo VI e la precedente tradizione liturgica cattolica.

Questa rottura è vista precisamente nel fatto che tutto ormai si interpreta a partire “mistero pasquale” al posto del sacrificio redentore d’espiazione del Cristo; la categoria del mistero pasquale sarebbe l’anima della riforma liturgica ed e proprio questo che care la prova della rottura verso la dottrina classica della Chiesa. È chiaro che vi sono autori che prestano il fianco a un simile malinteso. Ma che si tratti di un malinteso è assolutamente evidente per chi osserva il fatto da vicino. In realtà, il termine di mistero pasquale rinvia chiaramente agli avvenimenti che hanno avuto luogo nei giorni che vanno dal Giovedì Santo al mattino di Pasqua: la Cena come anticipazione della Croce, il dramma del Golgota e la Resurrezione del Signore.

Nel termine di mistero pasquale, questi episodi sono visti sinteticamente come un unico avvenimento, unitario, come “l’opera del Cristo”, così come l’abbiamo inizialmente sentito dire dal Concilio, come una realtà che è storicamente avvenuta e allo stesso tempo trascende questo preciso istante. Poiché questo avvenimento è, interiormente, un culto reso a Dio, ha potuto diventare un culto divino e in questo modo essere presente in ogni istante. La teologia pasquale del Nuovo Testamento, alla quale abbiamo dato un rapido sguardo, dà precisamente a intendere questo: l’episodio apparentemente profano della crocifissione del Cristo è un sacrificio d’espiazione, un atto salvatore dell’amore riconciliatore del Dio fatto uomo. La teologia della Pasqua è una teologia della redenzione, una liturgia di un sacrificio espiatorio. Il pastore è diventato agnello. La visione dell’agnello, che appare nella storia di Isacco, dell’agnello che rimane impigliato negli sterpi e riscatta il figlio, è diventata una realtà: il Signore si fa agnello, si lascia legare e sacrificare, per liberarci.

Tutto ciò è divenuto estremamente estraneo al pensiero contemporaneo. Riparazione, “espiazione”, può forse evocare qualche cosa nel quadro dei conflitti umani e nella liquidazione della colpabilità che regna tra gli esseri umani, ma la sua trasposizione al rapporto tra Dio e l’uomo non può sortire buon esito. Ciò si collega sicuramente al fatto che la nostra immagine di Dio è impallidita, si è avvicinata al deismo. Non ci si può più immaginare che l’errore umano possa ferire Dio e ancor meno che debba avere bisogno di una espiazione, simile a quella che costituisce la croce del Cristo. Stessa cosa per la sostituzione vicaria: non possiamo affatto rappresentarci qualche cosa a questo riguardo. La nostra immagine dell’uomo è diventata troppo individualista per questo.

Così la crisi della liturgia ha per base delle concezioni centrali sull’uomo. Per superarla, non è sufficiente banalizzare la liturgia e trasformarla in una semplice riunione o in un pasto fraterno. Ma come uscire da questi disorientamenti? Come ritrovare il senso di questa realtà immensa che è nel cuore del messaggio della Croce e della Resurrezione? In ultima istanza, certamente non attraverso delle teorie e delle riflessioni erudite, ma solo per mezzo della conversione, per mezzo di un radicale cambiamento di vita, al quale possono certamente aprire la strada taluni elementi di discernimento, e vorrei proporre delle indicazioni in questo senso e ciò in tre tappe.

_002 schede 101

L’amore, cuore del sacrificio

La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. “Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti” — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.

In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. “È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità”, dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: “Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo” (La Città di Dio, X, 5).

Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a Dio e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova, a partire da questo momento, ampliata dal seguente enunciato: “Tutta la comunità umana riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso” (ibid. X, 6). E più semplicemente ancora: “Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine, un solo corpo nel Cristo” (ibid. X, 6).

Il “sacrificio” consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: “Dio tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza? Prima di tutto esiste a questo proposito una netta frontiera tra le religioni fondate sulla fede di Abramo da una parte e dall’altra parte le altre forme di religione come le troviamo in particolare in Asia, ma anche — probabilmente sulla base di tradizioni asiatiche – nel neo-platonismo di impronta plotiniana.

Là l’unione significa liberazione dalla finitezza che si svela infine come apparenza, abolizione dell’io nell’oceano del tutto che, di fronte al nostro mondo di apparenze, e il nulla, tuttavia in verità è il solo vero essere. Nella fede cristiana, che dà compimento alla fede dl Abramo, l’unità è vista in modo completamente diverso: è l’unità dell’amore, nella quale le differenze non sono abolite, ma si trasformano nell’unità superiore degli amanti, quale si trova, come in archetipo, nell’unità trinitaria di Dio. Mentre, per esempio, presso Plotino, il finito è decadenza in rapporto all’unità ed è per così dire il livello del peccato e in quanto tale e al tempo stesso il livello di ogni male, la fede cristiana non vede il finito come una negazione, ma come una creazione, come il frutto di un volere divino, che crea un partner libero, una creatura che non deve essere abolita, ma deve essere compiuta e inserirsi nell’atto libero dell’amore.

La differenza non è abolita, ma diventa la modalità di una superiore unità. Questa filosofia della libertà, che è alla base della fede cristiana e la differenzia dalle religioni asiatiche, include la possibilità della negazione. Il male non è una semplice decadenza dell’essere, ma la conseguenza di una libertà male utilizzata. Il cammino dell’unità, il cammino dell’amore, è perciò un cammino di conversione, un cammino di purificazione, prende la figura della croce, passa attraverso il mistero pasquale, attraverso la morte e la Resurrezione. Ha bisogno di un Mediatore che nella Sua morte e nella Sua Resurrezione diventa per noi la via, ci attira tutti a lui (Gv 12, 32) e ci esaudisce.

_002 schede 0c

Gettiamo un colpo d’occhio addietro.

Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio” (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.

È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo “Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta” (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia.

Il nuovo tempio 

Vorrei ora richiamare ancora, in modo molto breve, altre due linee di avvicinamento all’aspetto centrale della questione. A mio avviso, una indicazione importante è data nella scena della purificazione del tempio, in particolare nella forma trasmessa da Giovanni. In realtà Giovanni riferisce una parola di Gesù che nei Sinottici è presente soltanto durante il processo a Gesù sulle labbra di falsi testimoni e in modo deformato. La reazione di Gesù riguardo ai mercanti e ai cambiavalute del tempio era nella pratica un attacco contro le immolazioni di animali che vi erano presentati, dunque un attacco contro la forma esistente del culto del sacrificio in generale.

È questo il motivo per cui le competenti autorità ebraiche gli domandano, con pieno diritto, con quale segno Egli giustifichi una tale azione che equivaleva a un attacco contro la legge di Mosè e le sacre prescrizioni dell’Alleanza. In proposito Gesù risponde: “Distruggete (dissolvete) questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere” (Gv 2,19).

Questa sottile formula evoca una visione di cui Giovanni stesso dice che i discepoli non la compresero, se non dopo la Resurrezione, ricordandosi gli eventi, e che ricondusse a credere alle Scritture e alla Parola detta da Gesù (Gv 2, 22). Ora infatti comprendono che al momento della crocifissione di Gesù il tempio è stato abolito: secondo Giovanni, Gesù fu crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel santuario.

Nel momento in cui il Figlio si consegna in persona come agnello, vale a dire si dona liberamente al Padre e così (pure) a noi, giungono alla fine le antiche prescrizioni del culto, che non potevano essere altro che un segno delle realtà autentiche. Il tempio è distrutto. E ormai il Suo corpo risuscitato — Lui stesso — diventa il vero tempio dell’umanità, nel quale si svolge l’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma Spirito e verità non sono concetti filosofici astratti — Lui stesso è la verità, e lo Spirito è lo Spirito Santo che da Lui procede.

In tal modo, anche qui appare con chiarezza che il culto non è sostituito dalla morale, ma che il culto antico giunge alla fine, con le sue sostituzioni e i suoi malintesi, spesso tragici, perché la realtà stessa, il nuovo tempio, si manifesta: il Cristo risuscitato che ci attiva, ci trasforma e ci unisce a Lui. Ed è di nuovo chiaro che l’Eucaristia della Chiesa — per parlare con Agostino — è sacramentum del vero sacrificium — segno sacro nel quale si produce ciò che è significato.

_002 schede 30a

Il sacrificio spirituale

Infine vorrei segnalare molto brevemente una terza via secondo la quale è progressivamente diventato più chiaro il passaggio dal culto di sostituzione, quello della immolazione di animali, al vero sacrificio — alla comunione, alla offerta del Cristo. Presso i profeti pre-esilici c’era stata contro il culto del tempio una critica estremamente dura, che Stefano, con stupito terrore dei dottori e dei sacerdoti del tempio, riprese nel suo grande discorso. segnatamente questo versetto di Amos: “Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant’anni ne! deserto, o casa di Israele? Avete preso con voi la tenda di Moloc e la stella del dio Refan, simulacri che vi siete fabbricati per adorarli” (5,25, At 7,42).

La critica dei profeti fu il presupposto interno che per mise ad Israele di attraversare la prova della distruzione del tempio, dell’epoca senza culto. Allora ci si trovò nella necessità di mettere in luce in modo più profondo e nuovo che cosa è il culto, l’espiazione, il sacrificio. Al tempo della dittatura ellenistica, in cui Israele fu di nuovo senza tempio e senza sacrificio, il libro di Daniele ci ha trasmesso questa preghiera: “Ora, Signore, noi siamo diventati più piccoli dl qualunque altra nazione.., ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti dl montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia gradito, perché non c’è delusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto i! cuore, ti temiamo e cerchiamo il Tuo volto” (Dn, 37-41).

Così lentamente maturò la scoperta che la preghiera, la parola, l’uomo che prega e diviene lui stesso parola è il vero sacrificio. A questo proposito la lotta di Israele poté entrare in fecondo contatto con la ricerca del mondo ellenistico: anche esso cercava il ripiego per uscire dal culto di sostituzione delle immolazioni di animali, per arrivare a un culto propriamente detto, alla vera adorazione. In questa prospettiva è maturata l’idea della loghikè tysia — del sacrificio consistente nella parola che noi incontriamo nel Nuovo Testamento in Romani 12,1, dove l’apostolo esorta i credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.

Questo è indicato come loghikè latreia, come servizio divino secondo la parola, ragionevole. Sotto un’altra forma, troviamo la stessa affermazione in Eb 13, 15: “Per mezzo di Lui — il Cristo — offriamo a Dio continuamente un sacrificio di fede, cioè il frutto di labbra che confessano il Suo nome”. Numerosi esempi, provenienti dai Padri della Chiesa, mostrano come queste idee furono sviluppate e divennero il punto di congiunzione tra la cristologia, la fede eucaristica e la traduzione pratico-esistenziale del mistero pasquale.

Vorrei solo citare, a titolo di esempio, alcune frasi di Pietro Crisologo, di cui si dovrebbe in verità leggere l’intero Sermone in questione per poter seguire questa sintesi da capo a fondo: “Singolare sacrificio, dove il corpo si offre senza il corpo, il sangue senza il sangue! Vi scongiuro, dice l’Apostolo, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente. Fratelli questo sacrificio prende ispirazione dall’esempio di Cristo che immolò il Suo corpo, perché gli uomini abbiano la vita. Diventa, uomo, diventa il sacrificio di Dio e il suo sacerdote. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua promessa, non del tuo sangue. Il fervore lo placa, non l’uccisione”.

Anche qui si tratta di tutt’altra cosa che di un puro moralismo, tanto l’uomo vi è impegnato nel suo essere totale: sacrificio consistente nella parola. I pensatori greci avevano già messo questo aspetto in relazione al logos, alla parola stessa, indicando che il sacrificio della preghiera non deve essere un puro discorso, bensì la trasformazione del nostro essere ne logos, l’unione con Lui. Il culto divino implica che noi stessi diventiamo degli esseri della Parola, che ci conformiamo alla Ragione creatrice. Ma è nuovamente chiaro che non possiamo ottenere tutto questo da noi stessi e così tutto sembra di nuovo finire nel nulla, fino al giorno in cui viene il Logos, il vero, il Figlio, fino al giorno in cui sì fa carne e ci attira a se stesso nell’esodo della croce.

Questo vero sacrificio, che ci trasforma tutti in sacrificio, vale a dire ci unisce a Dio, fa di noi degli esseri conformi a Dio, è certamente fissato e fondato in un avvenimento storico, ma non si trova come una cosa del passato dietro di noi; anzi diventa contemporaneo e accessibile a noi nella comunità della Chiesa, che crede e prega, nel suo sacramento: ecco che cosa significa il sacrificio della Messa. L’errore di Lutero si fondava – ne sono convinto — su un falso concetto di storicità, in una errata comprensione dell’unicità ( ephapax). Il sacrificio di Cristo non si trova dietro di noi come una cosa del passato. Raggiunge tutti i tempi ed è presente in noi.

L’Eucaristia non è semplicemente la distribuzione di ciò che viene dal passato, ma più a fondo è la presenza dei mistero pasquale del Cristo che trascende ed unisce i tempi. se Il Canone romano cita Abele, Abramo, Melchisedec, annoverandoli tra coloro che celebrano l’Eucaristia, lo fa nella convinzione che anche in essi, i grandi offerenti, il Cristo attraversava i tempi, oppure meglio che nella loro ricerca essi camminavano incontro al Cristo. La teologia dei Padri, così come la troviamo nel Canone, non nega l’insufficienza dei sacrifici precristiani; però il Canone include, con le figure di Abele e Melchisedec, gli stessi “santi pagani” nel mistero di Cristo.

La conclusione è precisamente che tutto ciò che precedeva è visto nella sua insufficienza come ombra, ma pure che il Cristo attira tutto a sé, che vi è anche nel mondo pagano una preparazione al Vangelo, che anche elementi imperfetti possono condurre al Cristo, qualunque siano le purificazioni di cui hanno bisogno.

_002 schede 53

Il Cristo soggetto della liturgia 

Vengo alla conclusione. Teologia della liturgia — questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia e che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non possiamo costruire la nostra via verso Dio. Questa via non è percorribile, eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E una volta per sempre: le vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono delle non-vie.

Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso ci parla e non solo parla: viene con il Suo corpo, la Sua anima, la Sua carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a Lui, per fare di noi “un solo corpo”. Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia cristiana è una liturgia cosmica —abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8, 19).

Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza di questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare tramite la mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti. 

Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni, congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica. spesso anche passando a lato dell’autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.

La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia a per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è l’espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e cangiante. Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera e di conseguenza la sua norma è la fede della Chiesa, nella quale la Rivelazione è accolta. Le forme che si danno alla liturgia possono variare in relazione ai luoghi e ai tempi, così come i riti sono diversi. Essenziale è il legame con la Chiesa che, a sua volta, è vincolata dalla fede nel Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia, oltre la frontiera dei luoghi e dei tempi e così ci lascia sperimentare l’unità della Chiesa, della Chiesa come patria del cuore.

Infine, l’essenza della liturgia è riassunta nella preghiera trasmessa da S. Paolo (1 Cor 16, 22) e dalla Didaché (10, 6) Maranà tha — il Signore viene — vieni o Signore! . Nella liturgia si compie già ora la parusia, ma questo avviene protendendoci verso il Signore che viene e precisamente insegnandoci ad invocare “Vieni Signore Gesù”. Ed essa ci fa sempre percepire ancora oggi la sua risposta e ce ne fa provare la verità: sì, vengo presto (Ap 22, 1 7-20).

****************

Cliccare qui per scaricare il PDF

I commenti sono chiusi.

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑