Benedetto XVI spiega il Getsemani di Gesù e le due volontà

Capitolo 6 – GETSEMANI (*)

1 – In cammino verso il Monte degli ulivi

«Dopo  aver cantato l’inno, uscirono verso il Monte degli ulivi» – con queste parole, Matteo e Marco concludono i loro racconti dell’ultima cena (Mt 26,30; Mc 14,26). L’ultimo convito di Gesù – cena pasquale o no – è soprattutto un evento cultuale. Al suo centro sta la preghiera di ringraziamento e di lode e alla fine esso sfocia nuovamente nella preghiera. Pregando Gesù esce con i suoi nella notte, che richiama da vicino quella notte in cui furono colpiti i primogeniti d’Egitto ed Israele venne salvato mediante il sangue dell’agnello (cfr Es 12) – esce nella notte nella quale Egli deve assumersi il destino dell’agnello.

Si suppone che Gesù, nella prospettiva della Pasqua che Egli aveva celebrato a modo suo, abbia cantato forse alcuni Salmi  (113-118 e 136), nei quali si ringrazia Dio per la liberazione di Israele dall’Egitto; Salmi però nei quali si parla anche della pietra scartata dai costruttori, che ora è diventata prodigiosamente pietra angolare. In questi Salmi, la storia passata diventa sempre di nuovo momento presente. Il ringraziamento per la liberazione è allo stesso tempo un’invocazione di aiuto in mezzo a tribolazioni e minacce sempre nuove, e nella parola circa la pietra scartata si rendono presenti il buio e insieme la promessa di quella notte. Gesù recita con i suoi discepoli i Salmi d’Israele: è questo un dato fondamentale per la comprensione, da un lato, della figura di Gesù ma, dall’altro, anche degli stessi Salmi che, sotto un certo aspetto, in Lui ottengono un nuovo soggetto, un nuovo modo di presenza e insieme un allargamento al di là di Israele verso l’universalità.

Vedremo che in ciò sorge anche una nuova visione della figura di Davide: nel Salterio canonico, Davide è visto come l’autore principale dei Salmi. Egli appare così come colui che guida ed ispira la preghiera di Israele, colui che riassume tutte le sofferenze e le speranze di Israele, le porta in sé e le trasforma in preghiera. Israele può quindi continuamente pregare con lui ed esprimere se stesso nei Salmi, dai quali in ogni oscurità riceve anche sempre nuova speranza. Nella Chiesa nascente, ben presto Gesù venne considerato come il nuovo, il vero Davide e così, senza rottura e tuttavia in modo nuovo, i Salmi potevano essere recitati come preghiera in comunione con Gesù Cristo.

Questo modo cristiano di pregare con i Salmi – un modo che si è sviluppato presto – Agostino l’ha spiegato in maniera perfetta dicendo che nei Salmi è sempre Cristo che parla, una volta come Capo, una volta come Corpo (cfr in Ps., 60, ls; 61,4; 85,1.5). Ma mediante Lui, Gesù Cristo, noi siamo ora un unico soggetto e possiamo così, insieme con Lui, parlare veramente con Dio.

Questo processo dell’assunzione e della trasposizione, che comincia con la preghiera dei Salmi da parte di Gesù, è caratteristico per l’unità dei due Testamenti come Egli ce la insegna. Gesù prega in perfetta comunione con Israele ed è, tuttavia, Egli stesso Israele in modo nuovo: l’antica Pasqua appare ora come un grande anticipato abbozzo. La nuova Pasqua, però, è Gesù stesso e la vera «liberazione» si attua adesso mediante il suo amore che abbraccia l’intera umanità.

Questa compenetrazione di fedeltà e novità, che abbiamo potuto osservare nella figura di Gesù lungo tutti i capitoli di questo libro, si manifesta anche in un altro dettaglio del racconto del Monte degli ulivi. Nelle notti precedenti, Gesù si era ritirato a Betania. In questa notte, che celebra come la sua notte di Pasqua, Egli segue la prescrizione di non lasciare il territorio della città di Gerusalemme, i cui confini per tale notte erano stati allargati per dare a tutti i pellegrini la possibilità di essere fedeli a questa legge. Gesù osserva la norma e proprio così va consapevolmente incontro al traditore e all’ora della passione.

Se a questo punto gettiamo ancora uno sguardo retrospettivo sull’intero cammino di Gesù, vediamo anche qui lo stesso intreccio di fedeltà e totale novità: Gesù è «osservante». Celebra con gli altri le feste ebraiche. Prega nel tempio. Si regola secondo Mose e i Profeti. Ma al contempo tutto diventa nuovo: dalla sua spiegazione del Sabato (cfr Mc 2,27; al riguardo cfr anche pp. 132-140 nella Prima Parte di questo libro), alle prescrizioni circa la purità rituale (cfr Mc 7), alla nuova interpretazione del Decalogo nel discorso della montagna (cfr Mt 5,17-48), fino alla purificazione del tempio (cfr Mt 21,12s e par.), che anticipa la fine del tempio di pietra e annuncia il nuovo tempio, la nuova adorazione «in spirito e verità» (Gv 4,24).

Abbiamo visto che questo sta in profonda continuità con la volontà originaria di Dio ed è al tempo stesso la svolta decisiva della storia delle religioni, svolta che nella croce diventa realtà. Proprio questo intervento – la purificazione del tempio – ha contribuito in modo essenziale alla sua condanna alla morte in croce, e proprio così si è adempiuta la sua profezia, ha preso inizio il culto nuovo.

«Giunsero a un podere chiamato Getsemani ed egli disse ai suoi discepoli: “Sedetevi qui, mentre io prego”» (Mc 14,32). Annota Gerhard Kroll al riguardo: «Ai tempi di Gesù, su questo territorio nel pendio del Monte degli ulivi si trovava una fattoria con un frantoio in cui le olive venivano spremute… Esso dava alla fattoria il nome di Getsemani… Molto vicino c’era una grande caverna naturale, che poteva offrire a Gesù e ai suoi discepoli un alloggio sicuro anche se non proprio comodo per la notte» (p. 404).

Qui, già al termine del IV secolo, la pellegrina Eteria trovava una «magnifica chiesa», che nel succedersi turbinoso dei tempi è andata in rovina, ma nel XX secolo è stata riscoperta dai francescani. «L’odierna Chiesa dell’agonia di Gesù, completata nel 1924, abbraccia insieme con lo spazio della “ecclesia elegans” [la chiesa della pellegrina Eteria] nuovamente la roccia sulla quale, secondo la tradizione, … Gesù ha pregato» (Kroll, p. 410).

È questo uno dei luoghi più venerabili della cristianità. Certo, gli alberi non risalgono al tempo di Gesù; durante l’assedio di Gerusalemme, Tito fece abbattere tutti gli alberi nei vasti dintorni della città. Il Monte degli ulivi, tuttavia, è lo stesso di allora. Chi lì si trattiene, si trova davanti ad un culmine drammatico del mistero del nostro Redentore: qui Gesù ha sperimentato l’ultima solitudine, tutta la tribolazione dell’essere uomo. Qui l’abisso del peccato e di tutto il male gli è penetrato nel più profondo dell’anima. Qui è stato toccato dallo sconvolgimento della morte imminente. Qui il traditore lo ha baciato. Qui tutti i discepoli lo hanno lasciato. Qui Egli ha lottato anche per me.

San Giovanni riprende tutte queste esperienze e dà al luogo un’interpretazione teologica, dicendo: «Al di là del torrente Cedron c’era un giardino» (18,1). La stessa parola-chiave ritorna alla fine del racconto della passione: «Nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto» (19,41). È evidente che Giovanni con la parola «giardino» allude al racconto del Paradiso e del peccato originale. Vuole dirci che qui quella storia viene ripresa. Nel « giardino » avviene il tradimento, ma il giardino è anche il luogo della risurrezione. Nel giardino, infatti, Gesù ha accettato fino in fondo la volontà del Padre, l’ha fatta sua e così ha capovolto la storia.

Dopo la comune preghiera dei Salmi, ancora in cammino verso il luogo del riposo notturno, Gesù fa tre profezie.

Applica a sé la profezia di Zaccaria, che aveva detto che il «pastore» sarebbe stato percosso – che cioè sarebbe stato ucciso – e che, di conseguenza, le pecore sarebbero state disperse (cfr Zc 13,7; Mt 26, 31). Zaccaria, in una misteriosa visione, aveva accennato a un Messia che subisce la morte e ad una conseguente nuova dispersione di Israele. Solo attraverso queste tribolazioni estreme egli attendeva la salvezza da parte di Dio. A questa visione in se stessa oscura e protesa verso un futuro ignoto, Gesù dà una forma concreta: sì, il pastore viene percosso. Gesù stesso è il pastore d’Israele, il pastore dell’umanità. Ed Egli prende su di sé l’ingiustizia, il carico distruttivo della colpa. Si lascia percuotere. Si mette dalla parte degli sconfitti della storia. Adesso, in quell’ora, ciò significa anche che la comunità dei discepoli si disperde, che questa nuova famiglia di Dio, appena nata, si sfascia prima ancora di aver cominciato a stabilirsi veramente. «Il pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Questa parola di Gesù, in base a Zaccaria, appare in una nuova luce: è venuta l’ora per la sua realizzazione.

Alla profezia di disgrazia segue, però, subito anche la promessa di salvezza: «Dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea» (Mc 14,28). «Precedere » è una parola tipica del linguaggio dei pastori. Gesù, passando attraverso la morte, vivrà nuovamente. Come Risorto, Egli è pienamente quel pastore che, attraverso la morte, conduce sulla strada della vita. Ambedue le cose fanno parte del buon pastore: il dare la propria vita ed il precedere. Anzi, il dare la vita costituisce il precedere. Proprio per mezzo di questo dare la vita Egli ci conduce. Proprio mediante questo «dare» Egli apre la porta verso la vastità della realtà. Attraverso la dispersione avviene il raduno definitivo delle pecore. All’inizio della notte sul Monte degli ulivi sta quindi la parola oscura del percuotere e del disperdere, ma anche la promessa che Gesù proprio così si manifesterà come il vero pastore, radunerà i dispersi e li condurrà verso Dio, introducendoli nella vita.

La terza profezia è un’ulteriore modifica delle discussioni con Pietro svoltesi nell’ultima cena. Pietro non bada alla profezia della risurrezione. Percepisce soltanto l’annuncio di morte e dispersione, e questo gli offre l’occasione di ostentare il suo coraggio incrollabile e la sua fedeltà radicale nei confronti di Gesù. Poiché è contrario alla croce, non può percepire la parola sulla risurrezione e vorrebbe – come già presso Cesarea di Filippo – il successo senza la croce. Egli confida nelle proprie forze.

Chi potrebbe negare che il suo atteggiamento rispecchi la tentazione continua dei cristiani, anzi anche della Chiesa: senza la croce arrivare al successo. Così bisogna annunciargli la sua debolezza, il triplice rinnegamento. Nessuno da sé è abbastanza forte per percorrere la via della salvezza fino alla fine. Tutti hanno peccato, tutti hanno bisogno della misericordia del Signore, dell’amore del Crocifisso (cfr Rm 3,23s).

2 –  La preghiera di Gesù

Della preghiera sul Monte degli ulivi, che ora segue, abbiamo cinque relazioni: innanzitutto le tre dei Vangeli sinottici (cfr Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,39-46); s’aggiunge un breve testo nel Vangelo di Giovanni, inserito però da Giovanni nella raccolta dei discorsi tenuti nel tempio la «Domenica delle Palme» (cfr 12,27s) e infine un testo della Lettera agli Ebrei, basato su una tradizione particolare (cfr 5,7ss). Cerchiamo ora, in un ascolto congiunto dei testi, di avvicinarci per quanto possibile al mistero di quell’ora di Gesù.

Dopo la rituale recita in comune dei Salmi, Gesù prega da solo – come durante tante notti in precedenza. Lascia, tuttavia, vicino a sé il gruppo dei tre – noto da altri contesti e in particolare dal racconto della trasfigurazione: Pietro, Giacomo e Giovanni. Così questi, anche se ripetutamente sopraffatti dal sonno, diventano testimoni della sua lotta notturna. Marco ci racconta che Gesù comincia a «sentire paura e angoscia». Il Signore dice ai discepoli: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate!» (14,33s).

L’appello alla vigilanza è già stato un tema di fondo nell’annuncio a Gerusalemme e adesso appare con un’urgenza molto immediata. Ma pur riferendosi proprio a quell’ora, tale appello rimanda in anticipo alla storia futura della cristianità. La sonnolenza dei discepoli rimane lungo i secoli l’occasione favorevole per il potere del male. Questa sonnolenza è un intorpidimento dell’anima, che non si lascia scuotere dal potere del male nel mondo, da tutta l’ingiustizia e da tutta la sofferenza che devastano la terra. È un’insensibilità che preferisce non percepire tutto ciò; si tranquillizza col pensiero che tutto, in fondo, non è poi tanto grave, per poter così continuare nell’autocompiacimento della propria esistenza soddisfatta.

Ma questa insensibilità delle anime, questa mancanza di vigilanza sia per la vicinanza di Dio che per la potenza incombente del male conferisce al maligno un potere nel mondo. Di fronte ai discepoli assonnati e non disposti ad allarmarsi, il Signore dice di se stesso: «La mia anima è triste fino alla morte». E’ questa una parola del Salmo 43,5 nella quale risuonano altre espressioni dei Salmi.

Anche nella sua passione – sul Monte degli ulivi come sulla croce – Gesù parla di sé e a Dio Padre mediante parole dei Salmi. Ma queste parole tratte dai Salmi sono diventate del tutto personali, parole assolutamente proprie di Gesù nella sua tribolazione: Egli è di fatto il vero orante di questi Salmi, il loro vero soggetto. La preghiera molto personale e il pregare con le parole di invocazione dell’Israele credente e sofferente sono qui una cosa sola.

Dopo questa esortazione alla vigilanza, Gesù si allontana un po’. Inizia la preghiera vera e propria del Monte degli ulivi. Matteo e Marco ci dicono che Gesù cade faccia a terra – è la posizione di preghiera che esprime l’estrema sottomissione alla volontà di Dio, il più radicale abbandono a Lui; una posizione che la liturgia occidentale prevede ancora al Venerdì Santo e nella Professione monastica come anche nell’ordinazione diaconale e in quella presbiterale ed episcopale.

Luca dice invece che Gesù prega in ginocchio. Inserisce così, in base alla posizione di preghiera, questa lotta notturna di Gesù nel contesto della storia della preghiera cristiana: Stefano, durante la lapidazione, piega le ginocchia e prega.(cfr At 7,60); Pietro s’inginocchia prima di risuscitare Tabità dalla morte (cfr At 9,40); Paolo s’inginocchia, quando si congeda dai presbiteri di Efeso (cfr At 20,36), e un’altra volta quando i discepoli gli dicono di non salire a Gerusalemme (cfr At 21,5). Dice Alois Stöger al riguardo: «Tutti questi, di fronte alla morte, pregano in ginocchio; il martirio non può essere superato che mediante la preghiera. Gesù è modello dei martiri » (Das Evangelium nach Lukas II, p. 247).

Segue poi la preghiera vera e propria in cui è presente tutto il dramma della nostra redenzione. Marco dice prima in modo riassuntivo che Gesù pregava affinché, «se fosse possibile, passasse via da Lui quell’ora» (14,35). Riporta poi così la frase essenziale della preghiera di Gesù: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (14,36). Possiamo distinguere, in questa preghiera di Gesù, tre elementi. C’è innanzitutto l’esperienza primordiale della paura, lo sconvolgimento di fronte al potere della morte, lo spavento davanti all’abisso del nulla, che lo fa tremare, anzi che, secondo Luca, lo fa sudare gocce di sangue (cfr 22,44). In Giovanni (cfr 12,27) questo sconvolgimento è espresso, come nei sinottici, in riferimento al Salmo 43,5, ma con una parola che rende particolarmente evidente il carattere abissale della paura di Gesù: tetàraktai – è la stessa parola taràssein che Giovanni usa per descrivere il profondo turbamento di Gesù alla tomba di Lazzaro (cfr 11,33), come anche il suo turbamento interiore nel preannuncio del tradimento di Giuda nel cenacolo (cfr 13,21).

Con ciò Giovanni esprime senza dubbio l’angoscia primordiale della creatura di fronte alla vicinanza della morte, c’è però qualcosa di più: è lo sconvolgimento particolare di Colui che è la Vita stessa davanti all’abisso di tutto il potere della distruzione, del male, di ciò che si oppone a Dio, e che ora gli crolla direttamente addosso, che Egli in modo immediato deve ora prendere su di sé, anzi, deve accogliere dentro di sé fino al punto di essere personalmente «fatto peccato» (2 Cor 5,21).

Proprio perché è il Figlio, Egli vede con estrema chiarezza l’intera marea sporca del male, tutto il potere della menzogna e della superbia, tutta l’astuzia e l’atrocità del male, che si mette la maschera della vita e serve continuamente la distruzione dell’essere, la deturpazione e l’annientamento della vita. Proprio perché è il Figlio, Egli sente profondamente l’orrore, tutta la sporcizia e la perfidia che deve bere in quel «calice» a Lui destinato: tutto il potere del peccato e della morte. Tutto questo Egli deve accogliere dentro di sé, affinché in Lui sia privato di potere e superato.

Bultmann dice con ragione: Gesù è qui «non solo il prototipo in cui l’atteggiamento richiesto all’uomo diventa visibile in modo esemplare … ma Egli è anche e soprattutto il rivelatore, la cui scelta soltanto rende possibile l’opzione umana per Dio in un’ora simile». L’angoscia di Gesù è una cosa molto più radicale di quell’angoscia che assale ogni uomo di fronte alla morte: è lo scontro stesso tra luce e tenebre, tra vita e morte – il vero dramma della scelta che caratterizza la storia umana. In questo senso possiamo con Pascal in modo tutto personale applicare l’avvenimento del Monte degli ulivi anche a noi: anche il mio peccato era presente in quel calice spaventoso. «Quelle gocce di sangue, le ho versate per te», sono le parole che Pascal sente rivolte a sé dal Signore in agonia sul Monte degli ulivi (cfr Pensées, VII 553).

Le due parti della preghiera di Gesù appaiono come la contrapposizione di due volontà: c’è la «volontà naturale» dell’uomo Gesù, che recalcitra di fronte all’aspetto mostruoso e distruttivo dell’avvenimento e vorrebbe chiedere che il calice «passi oltre»; e c’è la «volontà del Figlio», che si abbandona totalmente alla volontà del Padre. Se vogliamo cercare di comprendere per quanto possibile questo mistero delle «due volontà», è utile gettare ancora uno sguardo sulla versione giovannea di quella preghiera. Anche in Giovanni troviamo le due domande di Gesù: «Padre, salvami da quest’ora … Padre, glorifica il tuo nome» (12,27s).

Il rapporto tra le due domande in Giovanni non è fondamentalmente diverso da quello rinvenibile nei sinottici. La tribolazione dell’anima umana di Gesù («l’anima mia è turbata»; ma Bultmann traduce «ho paura») spinge Gesù a chiedere di essere salvato da quell’ora.

Ma la consapevolezza circa la sua missione, il fatto cioè che proprio per quell’ora Egli è venuto, lo fa pronunciare la seconda domanda – la domanda che Dio glorifichi il suo nome: proprio la croce, l’accettazione della cosa orribile, l’entrare nell’ignominia dell’annientamento della dignità personale, nell’ignominia di una morte infame diventa la glorificazione del nome di Dio. Proprio così, infatti, Dio si rende manifesto per quello che è: il Dio che nell’abisso del suo amore, nel donare se stesso oppone a tutte le potenze del male il vero potere del bene. Gesù ha pronunciato ambedue le domande, ma la prima, quella di essere «salvato», è fusa insieme con la seconda, che chiede la glorificazione di Dio nella realizzazione della sua volontà – e così il contrasto nell’intimo dell’esistenza umana di Gesù è ricomposto in unità.

3 –  La volontà di Gesù e la volontà del Padre

Ma che cosa vuol dire questo? Che cosa significa «mia » volontà contrapposta a  tua» volontà? Chi sono coloro che si confrontano? Il Padre e il Figlio? O l’Uomo Gesù e Dio, il Dio trinitario? In nessun’altra parte della Sacra Scrittura guardiamo così profondamente dentro il mistero interiore di Gesù come nella preghiera sul Monte degli ulivi. Non per caso, quindi, la ricerca appassionata della Chiesa antica per la comprensione della figura di Gesù Cristo ha trovato la sua forma conclusiva nella riflessione, guidata dalla fede, sulla preghiera del Monte degli ulivi.

A questo punto è forse necessario gettare uno sguardo molto veloce sulla cristologia della Chiesa antica, per capire la sua idea dell’intreccio tra volontà divina e umana nella figura di Gesù Cristo. Il Concilio di Nicea (325) aveva chiarito il concetto cristiano di Dio. Le tre Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo – sono una cosa sola nell’unica «sostanza» di Dio. Più di cento anni dopo, il Concilio di Calcedonia (451) ha cercato di afferrare concettualmente l’unione della divinità e dell’umanità in Gesù Cristo con la formulazione che, in Lui, l’unica Persona del Figlio di Dio abbraccia e porta le due nature – quella umana e quella divina – in modo «inconfuso ed indiviso».

Così l’infinita differenza tra Dio e uomo, tra Creatore e creatura viene conservata: l’umanità rimane umanità e la divinità rimane divinità. L’umanità in Gesù non è assorbita o ridotta dalla divinità. Esiste interamente come tale e tuttavia è sostenuta dalla Persona divina del Logos. Allo stesso tempo, nella diversità non annullata delle nature si esprime, mediante la parola «unica Persona», l’unità radicale nella quale Dio, in Cristo, è entrato con l’uomo. Questa formula – due nature, un’unica Persona – l’ha creata Papa Leone Magno con un’intuizione che andava molto oltre il momento storico, e ha trovato subito l’assenso entusiastico dei Padri conciliari.

Ma essa era un’anticipazione: il suo significato concreto non era ancora sondato fino in fondo. Che cosa vuol dire «natura»? Ma soprattutto: che cosa vuol dire «persona»? Poiché ciò non era stato affatto chiarito, dopo Calcedonia molti Vescovi dissero che preferivano pensare nella maniera dei pescatori e non in quella di Aristotele; la formula rimase oscura. Per questo la recezione di Calcedonia è avanzata in modo molto intricato e tra accaniti litigi. Alla fine è rimasta la divisione: soltanto le Chiese di Roma e di Bisanzio hanno accettato definitivamente il Concilio e la sua formula. Alessandria (Egitto) preferiva mantenere la formula di «una natura divinizzata» (monofisismo); ad Oriente, la Siria rimase scettica di fronte al concetto di «un’unica persona», in quanto, appunto, sembrava compromettere l’umanità reale di Gesù (nestorianismo). Più dei concetti, però, facevano effetto certi tipi di devozione, che si opponevano a vicenda e caricavano il contrasto con l’impeto dei sentimenti religiosi, rendendolo così irrisolvibile.

Il Concilio ecumenico di Calcedonia rimane per la Chiesa di tutti i tempi l’indicazione vincolante della via che introduce nel mistero di Gesù Cristo. Deve però essere acquisito nuovamente nel contesto del nostro pensiero, in cui i concetti di natura e di persona hanno assunto un altro significato rispetto ad allora. Questo sforzo per una nuova acquisizione deve andare di pari passo col dialogo ecumenico da promuovere con le Chiese pre-calcedonensi, per ritrovare l’unità smarrita proprio nel centro della fede, nella confessione del Dio fattosi uomo in Gesù Cristo.

Nella grande lotta, sviluppatasi dopo Calcedonia soprattutto nell’ambiente bizantino, si trattava essenzialmente di questa domanda: se in Gesù c’è solo l’unica persona divina che abbraccia le due nature, come stanno allora le cose circa la natura umana? Può questa, sostenuta dall’unica persona divina, veramente sussistere come tale nella sua particolarità ed essenzialità? Non deve forse necessariamente essere assorbita dal divino, almeno nella sua parte più alta, la volontà? E così l’ultima delle grandi eresie cristologiche si chiama «monotelismo».

Stante l’unità della persona – essa afferma – può esistere soltanto un’unica volontà; una persona con due volontà sarebbe schizofrenica: la persona, in fin dei conti, si manifesta nella volontà, e se c’è una persona sola, allora non può esserci che una sola volontà. Ma contro ciò emerge la domanda: che uomo è colui che non possiede una propria volontà umana? Un uomo senza volontà è veramente uomo? Dio si è fatto veramente uomo in Gesù, se quest’uomo non aveva poi una volontà?

Il grande teologo bizantino Massimo il Confessore (+ 662) ha elaborato la risposta a questa domanda nel corso della lotta per la comprensione della preghiera di Gesù sul Monte degli ulivi. Massimo è innanzitutto e soprattutto un avversario deciso del monotelismo: la natura umana di Gesù non viene amputata a motivo dell’unità con il Logos, ma rimane completa. E la volontà fa parte della natura umana. Questa irrecusabile duplicità in Gesù di un volere umano e di un volere divino non deve, però, portare alla schizofrenia di una doppia personalità. Per questo, natura e persona devono essere viste ognuna nel modo d’essere a loro proprio. Ciò significa: esiste in Gesù la «volontà naturale» della natura umana, ma c’è una sola «volontà della persona», che accoglie in sé la «volontà naturale». E questo è possibile senza distruzione dell’elemento essenzialmente umano perché, a partire dalla creazione, la volontà umana è orientata verso quella divina. Nell’aderire alla volontà divina la volontà umana trova il suo compimento e non la sua distruzione.

Massimo dice al proposito che la volontà umana, secondo la creazione, tende alla sinergia (alla cooperazione) con la volontà di Dio, ma a causa del peccato la sinergia si è trasformata in opposizione. L’uomo, la cui volontà si compie nell’aderire alla volontà di Dio, ora sente compromessa la sua libertà dalla volontà di Dio. Vede nel «sì» alla volontà di Dio non la possibilità di essere pienamente se stesso, ma la minaccia per la sua libertà, contro cui egli oppone resistenza.

Il dramma del Monte degli ulivi consiste nel fatto che Gesù riporta la volontà naturale dell’uomo dall’opposizione alla sinergia e ristabilisce così l’uomo nella sua grandezza. Nell’umana volontà naturale di Gesù è, per così dire, presente in Gesù stesso tutta la resistenza della natura umana contro Dio. L’ostinazione di tutti noi, l’intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando, trascina la natura ricalcitrante in alto verso la sua vera essenza. Il passaggio dal contrasto tra le due volontà alla loro comunione avviene attraverso la croce dell’obbedienza. Nell’agonia del Getsemani si compie questo passaggio. Così la preghiera: «non la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42) è veramente una preghiera del Figlio al Padre, nella quale l’umana volontà naturale è stata tratta totalmente dentro l’Io del Figlio, la cui essenza si esprime appunto nel «non io, ma tu» – nell’abbandono totale dell’Io al Tu di Dio Padre. Questo «Io», però, ha accolto in sé l’opposizione dell’umanità e l’ha trasformata, così che ora nell’obbedienza del Figlio siamo presenti tutti noi, veniamo tutti tirati dentro la condizione di figli.

Con ciò arriviamo ad un ultimo punto di questa preghiera, alla sua vera chiave di comprensione, all’appellativo: «Abbà, Padre» (Mc 14,36). Joachim Jeremias nel 1966 ha scritto un libro importante su questa parola di preghiera di Gesù, un libro del quale vorrei citare due pensieri essenziali: «Mentre nella letteratura ebraica di preghiera non esiste alcuna prova dell’appellativo Abbà rivolto a Dio, Gesù (con l’eccezione del grido dalla croce, Mc 15,34 par.) ha chiamato Dio sempre così. Stia mo dunque davanti ad un contrassegno assolutamente evidente dell’ipsissima vox Iesu» (Abba, p. 59).

Jeremias dimostra inoltre che questa parola «Abbà» appartiene al linguaggio dei bambini – essa è il modo nel quale in famiglia il bambino si rivolge al padre. «Per la sensibilità ebraica sarebbe stato irriverente e quindi impensabile rivolgersi a Dio con questa parola familiare. Era una cosa nuova ed inaudita che Gesù osasse fare questo passo. Egli parlava con Dio così come il bambino parla col padre … L’Abbà dell’appellativo usato da Gesù per Dio svela l’intima essenza del suo rapporto con Dio» (p. 63). È pertanto assolutamente assurdo che alcuni teologi pensino che, nella preghiera sul Monte degli ulivi, l’Uomo Gesù si sia rivolto al Dio trinitario. No, proprio qui parla il Figlio, che ha assunto in sé ogni volontà umana e l’ha trasformata in volontà del Figlio.

4 – La preghiera di Gesù sul Monte degli ulivi nella Lettera agli Ebrei

Alla fine dobbiamo ancora dedicarci al testo della Lettera agli Ebrei concernente il Monte degli ulivi. Lì si legge: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). In questo testo è riconoscibile una tradizione autonoma sull’evento del Getsemani, poiché di forti grida e lacrime non si parla nei Vangeli.

Dobbiamo, certo, tener presente che l’autore ovviamente non si riferisce soltanto alla notte del Getsemani, ma all’intero cammino della passione di Gesù fino alla crocifissione, fino a quell’istante, quindi, del quale Matteo e Marco ci dicono che Gesù proclamò «a gran voce» le parole iniziali del Salmo 22. Ambedue dicono anche che Gesù spirò con un forte grido; Matteo vi usa esplicitamente la parola «grido» (27,50). Di lacrime di Gesù parla Giovanni in occasione della morte di Lazzaro e questo in rapporto al «turbamento» di Gesù, che viene descritto con la stessa parola usata nel racconto del Monte degli ulivi per la sua angoscia, della quale Giovanni parla nel contesto della «Domenica delle Palme».

Sempre si tratta dell’incontro di Gesù con le potenze della morte, il cui abisso Egli, come il Santo di Dio, percepisce in tutta la sua profondità e spaventosità. La Lettera agli Ebrei vede così l’intera passione di Gesù dal Monte degli ulivi fino all’ultimo grido sulla croce pervasa dalla preghiera, come un’unica ardente supplica a Dio per la vita contro il potere della morte.

Se la Lettera agli Ebrei considera l’intera passione di Gesù come una lotta, nella preghiera, con Dio Padre e insieme con la natura umana, manifesta con ciò in modo nuovo la profondità teologica della preghiera sul Monte degli ulivi. Per la Lettera, questo gridare e supplicare costituisce la messa in atto del sommo sacerdozio di Gesù. Proprio nel suo gridare, piangere e pregare Gesù fa ciò che è proprio del sommo sacerdote: Egli porta il travaglio dell’essere uomini in alto verso Dio. Porta l’uomo davanti a Dio.

Con due parole, l’autore della Lettera agli Ebrei ha evidenziato questa dimensione della preghiera di Gesù. La parola «portare» (prosphérein: portare davanti a Dio, portare in alto – cfr Ebr 5,1) è un’espressione della terminologia del culto sacrificale. Con questo Gesù fa ciò che, nel più profondo, avviene nell’atto del sacrificio. «Si è offerto a fare la volontà del Padre». La seconda parola, che qui è importante, dice che Gesù ha imparato l’obbedienza da ciò che ha sofferto e così è stato «reso perfetto» (cfr Ebr 5,8s). Vanhoye fa notare che l’espressione «rendere perfetto» (teleioùn) nel Pentateuco – i cinque libri di Mosè – viene usata esclusivamente nel significato di «consacrare sacerdote» (p. 75). La Lettera agli Ebrei adotta questa terminologia (cfr 7, 11. 19. 28).

Dice quindi questo brano che l’obbedienza di Cristo, l’estremo «sì» al Padre, a cui Egli giunge nella lotta interiore sul Monte degli ulivi, lo ha, per così dire, «consacrato sacerdote»; proprio in questo, nella sua auto-donazione, nel portare l’umanità in alto verso Dio, Cristo è diventato sacerdote nel senso vero «secondo l’ordine di Melchisedek» (cfr Ebr 5,9s; cfr Vanhoye p. 74s).

Ora dobbiamo però ancora inoltrarci nell’affermazione centrale della Lettera agli Ebrei quanto alla preghiera del Signore sofferente. Il testo dice che Gesù supplicò Colui che poteva salvarlo da morte e «per il suo pieno abbandono a lui venne esaudito» (5,7). Ma è stato Egli veramente esaudito? Di fatto, è morto sulla croce! Così Harnack ha sostenuto che qui dovrebbe essere caduto un «non», e Bultmann lo segue. Ma una spiegazione che rivolge il testo nel suo contrario non è una spiegazione. Dobbiamo piuttosto cercare di comprendere questo modo misterioso di «esaudimento», per avvicinarci con ciò anche al mistero della nostra salvezza.

Si possono individuare diverse dimensioni di tale esaudimento. Una possibile traduzione di questo testo è: «E stato esaudito e liberato dalla sua angoscia». Ciò corrisponderebbe al testo di Luca secondo cui venne un angelo e lo confortava (cfr 22,43). Allora si tratterebbe della forza interiore che è stata data a Gesù nella preghiera, così che Egli è stato poi capace di affrontare con decisione l’arresto e la passione. Ma il testo significa ovviamente di più: il Padre lo ha sollevato dalla notte della morte, nella risurrezione lo ha definitivamente e per sempre salvato dalla morte: Gesù non muore più (cfr Vanhoye p. 71s). Ma probabilmente il testo significa ancora di più. La risurrezione non è solo il personale salvataggio di Gesù dalla morte. In questa morte, infatti, Egli non si è trovato per sé soltanto. Il suo è stato un morire «per gli altri»; si è trattato del superamento della morte come tale.

Così si può sicuramente comprendere l’esaudimento anche a partire dal testo parallelo in Giovanni 12,27s, dove alla preghiera di Gesù: «Padre, glorifica il tuo nome», la voce dal cielo risponde: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora». La croce stessa è diventata glorificazione di Dio, manifestazione della gloria di Dio nell’amore del Figlio. Questa gloria va oltre il momento e pervade l’intera vastità della storia. Questa gloria è vita. Sulla croce stessa appare, in modo velato eppure insistente, la gloria di Dio, la trasformazione della morte in vita. Dalla croce viene incontro agli uomini una vita nuova. Sulla croce, Gesù diventa fonte di vita per sé e per tutti. Sulla croce, la morte viene vinta. L’esaudimento di Gesù riguarda l’umanità nel suo insieme: la sua obbedienza diventa vita per tutti.

E così questo passo della Lettera agli Ebrei in modo coerente conclude con le parole: «Egli divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio ” sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek”» (5,9; cfr Sai 110,4).

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Altri capitoli del libro:

Benedetto XVI spiega la lavanda dei piedi, Giuda e Pietro

Benedetto XVI Il discorso escatologico di Gesù

L’ingresso in Gerusalemme

(*) J.Ratzinger-Benedetto XVI: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione – secondo Libro sul Gesù di Nazaret. Edizione italiana a cura di Pierluca Azzaro Traduzione italiana a cura di Ingrid Stampa © Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana – 00120 Città del Vaticano Tel. (06) 698.85003 – Fax (06) 698.84716 – ISBN 978-88-209-8486-1 – link al sito Libreria Vaticana

 

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