“Perché, infatti, esiste la catechesi? Per farvi conoscere la persona di Gesù. Perché esistono vari gruppi nella vostra comunità? Perché possiate conoscere la persona di Gesù. Perché celebriamo i divini misteri? Per incontrarlo e vivere di Lui. Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; Egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché Egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito..” (Omelia – 2 aprile 2000)
- La mariologia nelle prediche del cardinale Carlo Caffarra
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APRILE
1 – SOLENNE VEGLIA PASQUALE Cattedrale di Ferrara (3 aprile 1999)
E’ piena di misteri questa santa notte durante la quale stiamo vegliando, nella lode al Signore e nella preghiera. Essa infatti è la “memoria” di quattro grandi notti che hanno scandito la storia del mondo, e ne hanno segnato le tappe fondamentali: di questa storia e di queste tappe abbiamo appena ascoltato la narrazione.
La prima notte: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse “sia la luce!”. E la luce fu”. E’ l’atto fondamentale che il Dio tre volte santo ha compiuto: l’atto creativo. E’ attraverso questo atto che il Signore rende partecipi dell’essere altri all’infuori di Sé, per chiamarli all’alleanza. E’ la prima notte durante la quale è stato posto l’inizio di tutta la storia della nostra salvezza. Dalle mani creatrici di Dio esce l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, capace di entrare in dialogo col suo Creatore.
La seconda notte: la notte di Abramo che, a causa del sacrificio di Isacco, riceve la “benedizione” per sempre. E’ il secondo momento fondamentale della storia della nostra salvezza. Dio che ha creato l’universo ed in esso l’uomo, esce dal suo silenzio e si rivolge all’uomo: gli parla. In Abramo accade per la prima volta un atto mirabile e misterioso: la elezione da parte di Dio di una persona. E’ un’elezione, dal momento che non presuppone nella persona eletta alcun merito: Abramo, quando fu scelto, viveva in un paese pagano, nell’ignoranza del vero Dio. E’ un impegno che Dio si assume per primo nei confronti del suo eletto: “io ti benedirò”. Un impegno assoluto, incondizionato, siglato da un giuramento: “giuro per me stesso”. Ed allora di fronte al Dio che gratuitamente, incondizionatamente elegge l’uomo-Abramo, che cosa deve fare questi? Credere, affidarsi completamente al Signore con ossequio totale della volontà e dell’intelligenza. Abramo ha espresso questa fede nella forma più alta: il sacrificio del suo unigenito.
E’ accaduto il secondo fondamentale avvenimento della storia della salvezza: l’Alleanza di Dio con l’uomo in Abramo e colla sua discendenza per sempre.
La terza notte: “E il Signore durante la notte risospinse il mare con un forte vento venuto d’oriente, rendendolo asciutto: le acque si divisero”. E’ la notte della liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto: la notte del “passaggio” dalla schiavitù alla libertà, dalla morte di chi non si appartiene più alla vita di chi serve il Signore. L’uomo con cui il Signore stringe l’alleanza è un uomo che si è allontanato dalle vie del Signore stesso: vive in una terra di lontananza da Lui. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie, oracolo del Signore”. L’elezione che Dio compie nei confronti dell’uomo implica sempre una redenzione dell’uomo da una condizione di schiavitù.
La quarta notte: “questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte risorge vincitore dal sepolcro: o notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dai morti”.
Tutta la storia dell’elezione-alleanza di Dio con l’uomo, iniziata nella notte della creazione, posta in essere con Abramo e realizzata “nel segno” per mezzo di Mosè che conduce l’uomo dall’Egitto della schiavitù e della morte alla Terra promessa della libertà e della vita, raggiunge la sua piena e perfetta realizzazione. E’ l’apostolo Paolo che ce lo insegna: “Come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”. Ciò che è accaduto questa notte nell’umanità di Cristo, il “passaggio” da una vita destinata alla morte a causa del peccato a una vita incorruttibile a causa della giustizia, è accaduto perché si riproducesse anche in ciascuno di noi. Siamo stati creati in vista di questo; la benedizione data ad Abramo ed alla sua discendenza aveva questo preciso contenuto; il passaggio del Mar Rosso per mezzo di Mosè era l’ombra della realtà. E la realtà è ciò che stiamo ora celebrando: la risurrezione di Cristo ed in Lui la nostra.
Carissimi fratelli, carissime sorelle: questa notte riviviamo interamente tutta la nostra storia, la nostra vera biografia. Quella che è scritta nel libro della vita: la nostra creazione, la nostra elezione, la nostra redenzione, la nostra divinizzazione. Siamo stati creati perché eletti in Cristo fin dall’eternità, e per questo siamo stati redenti per essere “viventi per Dio in Cristo Gesù”. Abbiamo riacquistato in questa notte i quattro titoli fondamentali della nostra vera nobiltà e dignità: creati ad immagine e somiglianza di Dio, eletti in Cristo per essere santi, redenti dal suo Sangue, divinizzati dalla e nella sua Resurrezione. “Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia”.
2 – “E si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due”. Oggi tutta l’umanità, ciascuno di noi è invitato a “recarsi al sepolcro”. Anzi, a recarsi di corsa. Perché oggi un sepolcro diventa il centro del mondo, il “punto di concentrazione” della nostra attenzione? Non certo per convincere l’uomo che quella, il sepolcro, è la casa definitiva: lo sapeva molto bene. Ma perché quel sepolcro ha precisamente dimostrato che la sorte, il destino ultimo dell’uomo è mutato…. Ciò che è accaduto in Gesù morto, cioè la risurrezione, è accaduto per ciascuno di noi e ciascuno di noi quindi è chiamato a parteciparvi: a “risorgere come ed in Cristo”. Che cosa significa nella nostra vita quotidiana, per la nostra vita quotidiana “risorgere come ed in Cristo” ? Significa venire in contatto con Lui: non dico semplicemente colla sua dottrina. Con Lui personalmente, poiché Egli è appunto il vivente ed in Lui il Padre è attivo come Colui che ci vivifica, e non solo in senso fisico, ma nel senso intero del termine: ci fa essere nella pienezza della verità del nostro essere persone. E sono i santi sacramenti pasquali che ci fanno vivere questo incontro col Risorto: la santa confessione e la partecipazione all’Eucarestia. (Omelia Pasqua 1999)
3 – “Ogni volta … che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga”. Le parole di S. Paolo ci svelano la realtà del mistero eucaristico: mangiando il pane e bevendo il vino, il credente entra in rapporto reale colla morte del Signore sulla Croce. L’Eucarestia è la “memoria” della morte del Signore, del sacrificio offerto sulla Croce. Non nel senso che la celebrazione eucaristica sia un semplice ricordo di un avvenimento trascorso, o una serie di riti e gesti tesi a tener viva in noi la memoria di qualcuno che appartiene al passato storico. In virtù dell’azione trasformante dello Spirito che agisce attraverso le parole consacratorie, il pane ed il vino, presentati dalla Chiesa, diventano “veramente, realmente e sostanzialmente” il Corpo ed il Sangue del Signore. ( Omelia – 1° aprile 1999)
4 – Questo amore del Padre che si mostra in Gesù, soprattutto nella morte di Gesù, a che cosa mira? “…perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna”. Dunque, il suo amore mira a che noi possiamo vivere di una vita eterna. “Eterna” non indica in primo luogo la misura della sua durata: una vita senza fine, indistruttibile. “Eterna” significa la qualità: essa è la vita stessa divina, il modo divino di vivere. E’ quindi vita piena di beatitudine. Il Padre ci ha amati così tanto da donare il suo Figlio unigenito perché ciascuno di noi divenisse partecipe della stessa vita divina. Quando? dopo la morte? non propriamente: subito, adesso. Adesso tu puoi entrare in possesso della vita eterna. Come? Se sei nella tenebre, per uscire devi accostarti ad una fonte luminosa. Gesù è Colui che ci dona la vita eterna. E’ necessario accostarci a Lui. In Lui è la Vita…. Perché, infatti, esiste la catechesi? Per farvi conoscere la persona di Gesù. Perché esistono vari gruppi nella vostra comunità? Perché possiate conoscere la persona di Gesù. Perché celebriamo i divini misteri? Per incontrarlo e vivere di Lui. Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; Egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché Egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito.. (Omelia – 2 aprile 2000)
5 – Cari fratelli e sorelle, quando abbiamo a che fare con l’Eucaristia abbiamo a che fare con la presenza reale del Signore stesso….. Ma la nostra domanda a questo punto si fa più incalzante: ma perché, Signore, tu hai voluto questo modo di ricordarti, continuando fra noi la tua presenza reale? Perché non hai ritenuto che bastassero le narrazioni evangeliche, scritte sotto l’ispirazione del tuo Spirito? Le nostre domande chiedono a che cosa mirava Gesù istituendo l’Eucaristia…. Ciò non può essere stato per caso. Mediante il nostro quotidiano nutrimento noi sosteniamo la nostra vita fisica, attraverso quella mirabile trasformazione del cibo chiamata metabolismo del nostro corpo. Il pane e il vino eucaristico, che in realtà sono il corpo offerto e il sangue effuso di Gesù, mantengono la funzione del nostro cibo, ma rovesciata: non siamo noi che trasformiamo Gesù nel nostro io, ma è il nostro io che viene trasformato in Gesù. Agostino racconta che una volta sentì la voce di Cristo che gli diceva: “non sei tu a trasformare me in te, come il cibo della tua carne, ma tu sarai trasformato in me” [Confessioni VII, 10]. Questo si proponeva Gesù istituendo l’Eucaristia: trasformare ciascuno in Lui, fino al punto che ciascuno possa dire: “non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” [Gal 2, 20]; ed in Lui si costituisce quella profonda unità che è condivisione della stessa vita, si costituisce cioè la Chiesa. Ma dobbiamo essere più concreti e precisi: in “quale Gesù” l’Eucaristia ci trasforma? Nel Gesù che fa i miracoli? No, cari amici: in Gesù che dona Se stesso fino alla morte; in Gesù trasfigurato dal suo amore. Mediante la comunione al corpo e al sangue di Cristo, siamo partecipi e resi capaci di amare come Gesù ha amato. (Omelia – 5 aprile 2012)
6 – Cristo è stato risuscitato dai morti! E nella sua risurrezione, Egli ha portato a compimento ciò che nelle altre due notti era iniziato, ha donato ciò che nelle altre due notti era atteso. “Questa è la notte in cui” – come ha cantato il diacono – “hanno vinto le tenebre con lo splendore della colonna di fuoco”. Infatti, come ci insegna S. Paolo, “Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo”. La luce della santa umanità risorta di Cristo ci ri-crea. Il Padre in questa notte ha ricostituito la sua creazione, liberandola definitivamente dalla corruzione. L’uomo è riposto nella sua originaria dignità, poiché nel suo volto è ancora una volta inspirato il soffio della vita. Quel soffio dico che la risvegliato il crocefisso dai morti. “E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm. 8,10-11). Ciò che la notte egiziana, “la notte in cui ha liberato i figli di Israele … dalla schiavitù dell’Egitto”, prefigurava profeticamente si è ora compiuto. Cristo ha “ridotto all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Ebr. 2,14-15). (Omelia – 6 aprile 1996)
7 – Quando otto giorni dopo Gesù venne ancora fra i suoi, Tommaso era presente. Gesù si rivolse a lui: “metti qua il tuo dito e guarda le mie mani … e non essere più incredulo ma credente”. Ed allora Tommaso disse: “Mio Signore e mio Dio”……. La storia di ciascuno. La storia di Tommaso si ripete in un qualche modo anche nella vita di ciascuno di noi. Anche ciascuno di noi, vivendo nel contesto della vita di un popolo modellato dalla fede cristiana, ha sentito parlare di Cristo. La vita di ciascuno di noi è stata attraversata dalla notizia cristiana. Ma ciascuno di noi ha dentro di sé l’apostolo Tommaso, e pone le domande di fondo: è vero che Dio esiste ed ha creato il mondo? È vero che Gesù Cristo non è uno dei fondatori di religione, ma è Dio stesso fattosi uomo? E se non è irragionevole e rassegnato alla sua infelicità, anche ciascuno di noi desidera e cerca l’incontro, l’esperienza di una presenza di Cristo. C’è una parola straordinaria detta da Gesù: “perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto, hanno creduto”. Pietro, Giovanni, gli altri apostoli, le donne avevano visto, quando andarono al sepolcro, avevano visto dei segni: la tomba vuota; le bende che avevano avvolto il corpo morto del Signore. Ma non avevano visto il Signore: eppure credettero ed ebbero così l’esperienza dell’incontro colla Sua persona vivente. Ciascuno di noi oggi può giungere alla fede se da una parte riconosce umilmente i tanti segni della presenza del Signore quali sono rinvenibili nella Chiesa, e dall’altra è docile all’azione della grazia che opera nel suo cuore. E’ questa la via della fede. Essa ha un versante, per così dire, esterno: ci sono segni attraverso i quali posso ragionevolmente concludere che quanto la Chiesa mi dice è vero. Ed ha un versante interno: c’è un’azione della grazia che opera nel cuore dell’uomo e lo conduce a credere che “Gesù è il Cristo, il figlio di Dio”. (Omelia – 7 aprile 2002)
8 – Proclamando Cristo Re voi dite con Pietro: “Signore, tu solo hai parole di vita eterna” e quindi con Paolo: “Guai a me se non annuncio il Vangelo”. Ma il riconoscimento di Cristo non è universale: “alcuni farisei tra la folla dissero: maestro, rimprovera i tuoi discepoli”. La situazione si ripete anche oggi. Gesù vi ha detto nell’ultima catechesi: “chi mi segue, deve essere disposto a portare la Croce, cioè ad essere emarginato [e sono tante le forme di questa emarginazione!] e fatto tacere”. E’ assai significativa la risposta di Gesù: “Vi dico che se questi taceranno, grideranno le pietre”. Effettivamente i suoi discepoli tacquero durante la passione. …. Tuttavia dopo tre giorni la pietra messa sul sepolcro sarà fatta rotolare via. “E le donne che verranno al sepolcro lo troveranno vuoto. Ugualmente gli apostoli. Dunque quella “pietra rotolata via” griderà, quando tutti taceranno. Griderà. Essa proclamerà il Mistero pasquale di Gesù Cristo. E da essa attingeranno questo Mistero le donne e gli apostoli, che lo porteranno con le loro labbra nelle strade di Gerusalemme, e poi per le vie del mondo d’allora. E così, di generazione in generazione, “grideranno le pietre” [Giovanni Paolo II, Carissimi giovani, A. Mondadori ed., Milano 1995, pag. 31]. Carissimi giovani, anche voi questa sera in fondo testimoniate alla nostra città che Cristo è la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’egoismo, del dono sul possesso, del senso sull’assurdo, della verità sull’errore. (Omelia – 7 aprile 2001)
9 – “Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù”. Chi ha nel cuore l’intima certezza che Cristo è risorto perché Egli lo ha incontrato, egli non vive più come prima. Non lavora più come prima, non ama più sua moglie/suo marito come prima, non educa più i suoi figli come prima. E’ cambiato dentro: è risorto con Cristo. Ma ora penso a te che forse dici nel tuo cuore: “Ma io non ho ancora vissuto questo incontro con Cristo vivo”, però mi interesso alla sua “causa”. No, fratello: è Lui che devi incontrare “fisicamente” se vuoi che la tua vita risorga. E come? Vieni nella sua Chiesa, credi veramente in Lui, ricevi profondamente i suoi sacramenti. Ma ora penso a te che rimani indifferente di fronte a questo annuncio perché alla fine ti ritieni degno di morire e credi che la morte sia alleata dell’uomo. Rifletti. Non scartare in via di principio la possibilità che questo annuncio sia vero e quindi che tu possa vivere cento volte di più in termini di gioia, di libertà di come vivi oggi. Sii semplicemente “ragionevole”: verifica se ciò che la Chiesa ti dice oggi non sia vero. (Omelia – 7 aprile 1996)
10 – Interrogarsi sull’identità della famiglia è divenuto oggi necessario, posti come siamo di fronte al fenomeno della “pluralizzazione della famiglia o delle forme familiari”. Con tale espressione si allude al fatto che la società attuale e prossima ventura anziché avere un solo modello di famiglia (o un modello prevalente), ne farebbe emergere molti: ma quanti e quali? … È dunque necessario che ci interroghiamo seriamente su ciò che definisce la famiglia, distinguendola da qualsiasi altra forma di convivenza; è necessario fare una seria riflessione sulla “qualità del familiare”…. Quando parlo di famiglia “vera”, di famiglia “propriamente detta”, non intendo parlare di una idea di famiglia, elaborata dalla mente, alla quale poi ogni famiglia, per essere tale, dovrebbe corrispondere: una sorta di “orizzonte ideale” al quale ogni famiglia dovrebbe cercare di avvicinarsi. La famiglia vera è quella che è adeguatamente corrispondente alla realtà, all’essere dell’uomo…. Quale è questa realtà vissuta da chi “fa famiglia” in senso vero? E siamo al punto centrale della mia riflessione. È la realtà del proprio essere posto in relazione in quanto è uomo o donna, ed in quanto è chiamato al dono della vita ad altre persone umane. L’identità della famiglia è interamente racchiusa in questa formulazione. (Identità e pluralità della famiglia Ravenna: 8 aprile 2003)
11 – Perché ho parlato di “grandezza drammatica” della vostra libertà? Consentitemi di parlarvi colla massima sincerità. È in atto una vera e propria congiura contro la vostra libertà perché molti vi stanno mentendo dicendovi che la vostra libertà è solo spontaneità: forza che vi spinge a cercare ciò che è utile e/o piacevole senza fare a voi stessi e agli altri troppo danno. La cultura in cui viviamo esaspera i vostri desideri sradicandoli dal cuore della vostra persona, li separa dalla realtà più profonda della vostra persona e così vi fa sognare dicendovi di farvi sperare. E il sogno finisce quando ci si sveglia! Ma la libertà è solo questo? Voi affidate il progetto, il futuro della vostra vita – che deve formarsi appunto nella vostra età – ad una libertà che sia solo questo? È possibile che questa libertà custodisca pienamente il bene della vostra giovinezza? Provate in questo momento ad ascoltare queste parole dette a voi giovani da Giovanni Paolo II: “La storia… viene scritta non solo dagli avvenimenti che si svolgono in un certo qual senso “all’esterno”: è la storia delle coscienze umane, delle vittorie e delle sconfitte morali. Qui trova il suo fondamento anche l’essenziale grandezza dell’uomo: la sua dignità autenticamente umana… il tesoro della coscienza, il discernimento fra il bene e il male, l’uomo lo porta attraverso la frontiera della morte, affinché, al cospetto di Colui che è la santità stessa, trovi l’ultima e definitiva verità su tutta la sua vita” [pag. 179-180]. (Incontro con gli studenti delle Scuole Superiori di Bologna e Provincia sulla figura, il pensiero e l’opera di S.S. Papa Giovanni Paolo II Paladozza, 9 aprile 2005)
12 – “Vistolo spirare in quel modo, disse: veramente quest’uomo era Figlio di Dio”. Carissimi giovani, l’esperienza fatta dal centurione romano è di portata e significato immensi. Egli non ha riconosciuto in Gesù il Figlio di Dio vedendolo fare miracoli; ascoltandolo mentre parlava come nessun altro. Ma “vistolo spirare in quel modo”: in che modo? Mistero di un incontro! Certo perché non imprecava come altri condannati a morte. Ma non solo per questo: egli scorse nel crocefisso un atto d’amore che solo Dio poteva compiere. E quel centurione capì che dentro alla storia dei rapporti umani era accaduto un avvenimento che poteva avere la sua origine solo in Dio, venuto a vivere la nostra vita e a morire la nostra morte perché né vita né morte fossero prive di senso: mere escrescenze di un destino impersonale e immutabile. Il centurione capì che quella morte aveva introdotto nel mondo la vera vita. Carissimi giovani, conosco le vostre sofferenze e le vostre difficoltà: “la solitudine, gli insuccessi e le delusioni della vostra vita personale; la difficoltà di inserzione nel mondo degli adulti e nella vita professionale; le separazioni e i lutti nelle vostre famiglie; la violenza delle guerre e la morte degli innocenti”. State di fronte a Cristo: è da Lui che può venirvi ogni forza…. vi invito a prendere coscienza di un dono particolare e preziosissimo che Cristo crocifisso vi ha fatto: il dono di sua Madre. Egli ha chiesto e ha donato a lei di estendere la sua maternità a ciascuno di voi: “donna, ecco tuo figlio” [Gv 19,27]. E da questo momento dice a ciascuno di voi, indicandovi Maria: “ecco tua madre”. Quale è il modo giusto di ricevere questo dono? “da quel momento il discepolo la prese in casa sua”. È Lei che vi insegnerà a “stare di fronte” a Cristo perché lo conosciate sempre più profondamente; perché abbiate in voi gli stessi sentimenti, gli stessi pensieri che furono in Lui. Ella fa questo in voi soprattutto quando recitate il Santo Rosario…. affidatevi a Maria; pregatela ogni giorno col santo Rosario. (Ai giovani 12 aprile 2003)
13 – “Vi ho dato … l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”. In che cosa consista la “rivoluzione eucaristica” è detto in queste parole pronunciate dal Signore … “Come ho fatto io, fate anche voi”… E che cosa ha fatto il Signore? Ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Non ha dominato, ha servito; non si è glorificato, si è umiliato; non si è innalzato, si è abbassato; non ha preso, ha donato; non si è impossessato, si è arreso. Egli cioè ha introdotto un modo e una forma di rapporto cogli altri completamente diversi da quelli cui l’uomo si era ispirato fino ad allora. Ma il Signore non si accontenta di fare ciò che ha fatto. Egli dice: “come ho fatto io, fate anche voi”. Egli sa molto bene di che pasta siamo fatti. Non ci impone nessun comandamento se non dopo averci donato la possibilità reale di compierlo. Gesù colla sua Eucarestia ci rende partecipi della sua stessa capacità di amare; nell’Eucarestia noi diventiamo capaci di fare ciò che Cristo ha fatto. L’Eucarestia ci attira dentro al cuore di Cristo, al suo atto oblativo. Solo partendo da questa prospettiva eucaristica, possiamo capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore: l’amore può essere comandato solo perché prima è stato donato. Carissimi, se la nostra celebrazione dell’Eucarestia non diventa quotidiano e reciproco servizio, è come interrotta e spezzata nella sua logica interna. È dall’Eucarestia che fiorisce l’amore fedele degli sposi, l’oblazione pura delle vergini consacrate, la carità pastorale dei nostri sacerdoti: in una parola, la Chiesa come comunione di carità. (Omelia 13 aprile 2006)
14 – … la ragione è capace di conoscere la verità circa il bene/il male della persona umana. Diciamo subito che non si tratta dell’uso teoretico della ragione: la scoperta per esempio delle leggi della meccanica celeste. Ma stiamo parlando di un uso pratico della ragione. Di un uso cioè intimamente legato alla ricerca da parte della persona, al desiderio della persona di quei beni in cui essa trova realizzazione; ed in ultima analisi del bene ultimo. Ora perché possa esistere un vero dialogo [διά – λόγος] fra le persone, è necessario che esse possano raggiungere “qualcosa riguardante la persona” intersoggettivamente argomentabile, controllabile e comunicabile. Un vero dialogo presuppone che ognuno possa essere, durante il suo svolgimento, testimone diretto e giudice di ciò che l’altro [nel nostro caso l’educatore] gli comunica come risultato ed espressione della propria esperienza. La capacità della ragione di istituire un tale dialogo consiste nella capacità di ciascuno di trascendere il semplice “a me pare che” o “a me piace che”, e di attingere la verità circa un bene in cui ogni persona può riconoscersi. Agostino ha scritto una pagina stupenda al riguardo: “abbiamo […] una realtà di cui tutti possiamo godere in modo uguale e comune […]. Accoglie tutti i suoi amanti, per nulla gelosi di lei, è comune a tutti ed è casta con ciascuno. Nessuno dice ad un altro: “scostati, perché anch’io possa accostarmi, allontana le mani perché anch’io possa abbracciare”. Tutti restano attaccati, tutti toccano proprio quell’oggetto. Il suo cibo non è spezzettato da nessuna parte; nulla bevi da essa che anch’io non possa. Dalla sua condivisione infatti non trasformi qualcosa in tuo possesso privato, ma ciò che tu ne cogli rimane integro anche per me […] ma essa è comune nella sua interezza a tutti contemporaneamente (simul omnibus tota est communis)” [Il libero arbitrio II, XIV, 37]. (La questione educativa come questione politica Lecco, 13 aprile 2012)
15 – Viene da chiedersi, carissimi giovani, e ve lo dovete chiedere in questo momento assai seriamente: perché la venuta di Cristo … è una “benedizione”? Perché l’instaurarsi in essa del suo regno è una “benedizione”? Nel rispondere a questa domanda ci viene in aiuto l’apostolo Paolo che scrivendo ai cristiani di Efeso, ci dice che Dio “ci ha benedetti con ogni benedizione… in Cristo” [cfr. Ef 1,4]. Gesù Cristo venendo dentro alla vostra vita porta con sé ogni benedizione: Egli è la risposta piena ai vostri desideri. Un grande esperto di umanità, S. Agostino, ha scritto: “Che cosa desidera l’anima più ardentemente della verità? Di che cosa dovrà l’uomo essere avido, a quale scopo dovrà custodire sano il palato interiore, esercitato il gusto, se non per mangiare e bere la giustizia, la verità, l’eternità?” E’ per questo che “si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo” [Commento al vangelo sec. Giovanni 26,4-5; NBA XXIV, pag. 601 e 599]. Voi direte col cuore ed in tutta sincerità “benedetto Colui che viene nel nome del Signore”, se sarete persone che trovano il loro diletto nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella bellezza. “Benedetto Cristo che mi viene incontro”, direte, perché ogni giorno sperimenterete che in Lui c’è ogni pienezza di verità, di giustizia, di amore, di bellezza…. Carissimi giovani, non abbiate paura di essere testimoni di Cristo: nelle sue case, nelle sue scuole, nella sua Università, nei suoi luoghi di lavoro, nei suoi uffici pubblici. (Omelia – 15 aprile 2000)
16 – Legato al dono dello Spirito è il terzo dono: la Chiesa ha il potere di rimettere i peccati. Cari fedeli, lasciamoci profondamente commuovere da questa donazione fattaci dal Risorto! Da Lui, dalla sua umanità glorificata, dal suo costato che rimane aperto per tutta l’eternità sgorga un torrente di misericordia che lava tutti i peccati. E Gesù dona alla sua Chiesa questo potere, un potere a cui la Chiesa attribuisce un’importanza primaria, poiché essa esiste in forza del perdono ricevuto. … S. Faustina K., la testimone della Misericordia di Dio, annota nel suo Diario: «Agli uomini scoraggiati dal male che c’è dentro di loro e nel mondo [Dio] dice: tutto passerà ma la sua Misericordia è senza limiti e senza fine. Sebbene la malvagità arrivi a colmare la sua misura, la Misericordia di Dio è senza misura». I doni di Dio non sono mai ritirati. Gesù ha deposto nella Chiesa questo potere: esso resterà per sempre. Gesù Risorto, dunque, incontra i suoi primi discepoli. Ma egli continua ad incontrare anche noi, oggi, ogni volta che ci riuniamo per ascoltare la sua Parola e celebrare l’Eucarestia. Anche a noi fa i doni di cui parla il racconto evangelico: il dono della pace; il dono dello Spirito Santo; il dono della remissione dei peccati. La proclamazione del Vangelo fatta nella Liturgia non è solo “informativa” di fatti accaduti, ma narra ciò che sta accadendo ora fra noi. (Omelia – 11 aprile 2015)
80° compleanno di Benedetto XVI – Bologna Sette, 15 aprile 2007
Il ricordo del cardinale Caffarra
Lunedì 16 aprile il Santo Padre Benedetto XVI compirà il suo ottantesimo anno. Sia in primo luogo un grande momento di preghiera. Preghiera di lode e di ringraziamento al Signore per il dono fattoci di un così grande pontefice; di invocazione allo Spirito Santo perché “gli conceda vita e salute e lo conservi alla sua santa Chiesa, come guida e pastore del popolo santo di Dio”.
Questo compleanno è anche occasione per riflettere sul ministero del Santo Padre e sul suo Magistero, per accordarci sempre più profondamente ad esso.
Il numero sempre più elevato di fedeli che accorrono ad ascoltarlo, dimostra quanto il popolo cristiano apprezzi l’insegnamento della fede di Benedetto XVI, la profondità unita alla semplicità, la chiarezza espositiva unita alla teologia più grande. Il modello fondamentale dell’evangelizzazione e della pastorale proposto dal Santo Padre è il “grande sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla sua intelligenza. Questo “grande sì” il Papa a Verona lo ha mostrato nella forma di una “forte unità tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti”.
L’amicizia della fede colla ragione – il grande, vero tema centrale del discorso di Ratisbona – esige di richiamare la necessità di allargare gli spazi della razionalità, proponendo un incontro nuovo e fecondo della fede cristiana con la ragione del nostro tempo. Dall’altra parte quella stessa amicizia da ricostruire esige che la fede sappia sempre più dire la sua ragionevolezza: il grande tema della verità, della bellezza, della “vivibilità” della proposta cristiana è centrale nel Magistero di Benedetto XVI. Il popolo cristiano accorre tanto numeroso perché sente il “calore” di quell’amicizia fra Dio e l’uomo.
Tocchiamo il punto centrale, mi sembra, del Magistero benedettino: il Dio in cui noi crediamo, il Dio di Gesù Cristo, è il Dio carità [Deus caritas est]; il Dio che ama l’uomo fino al punto di “rivolgersi contro se stesso” nella Croce del suo Unigenito. La Ragione ultima, il Dio-Logos è identicamente il Dio-Amore che entra nella storia dell’uomo, e “solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede” [Messaggio Urbi et Orbi, Pasqua 2007].
Non posso concludere senza purtroppo far notare che poco o niente i grandi mezzi di comunicazione sociale rilanciano di queste linee e temi fondamentali del Magistero di Benedetto XVI. L’attenzione è attirata su altro.
Noi fedeli non dobbiamo stancarci di abbeverarci a questa fonte di acqua viva, attraverso la quale giunge a noi quell’unica Parola che resta in eterno.
Auguri, S. Padre!
17 – “Le pecore ascoltano la sua voce; egli chiama le pecore una per una”. Noi entriamo in un rapporto vero con la persona di Cristo in forza di una sua chiamata e della nostra risposta alla sua chiamata. La sua è una chiamata non generale, ma che viene fatta a ciascuno di noi in particolare: “egli chiama le pecore una per una”. Davanti al Signore non esiste il genere; esiste il singolo. E’ la chiamata alla fede, accogliendo la quale “l’uomo si abbandona in tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio” che in Gesù si rivela e ci chiama. Il testo evangelico prosegue: “le conduce fuori”. Che cosa significa in realtà? Riprendiamo in mano il Salmo con cui abbiamo risposto alla parola di Dio: “ad acque tranquille mi conduce … davanti a me tu prepari una mensa … cospargi di olio il mio capo”.Cioè, se nella fede noi stiamo uniti a Cristo, Egli ci dona un “nutrimento” che ci dona la vita e in abbondanza. Questo nutrimento è costituito dal dono che Egli ci fa della sua Verità mediante la sua parola; della sua Libertà che noi raggiungiamo pienamente seguendo Lui; della sua stessa Vita divina mediante il pane eucaristico. (Omelia – 17 aprile 2005)
18 – Richiamo della dottrina cristiana. Sarò molto semplice. Come dice la parola “confermazione” con cui viene chiamata la Cresima, questo sacramento conferma – cioè: rende più stabili e perfeziona – gli effetti del Battesimo. Li richiamo brevemente nella forma del Catechismo della Chiesa Cattolica [cfr. n°1303]…. Il sacramento della Cresima è la forza donata ai nostri ragazzi, perché per la prima volta ratifichino, confermino quanto hanno ricevuto nel battesimo. Non per caso il rito della celebrazione della Cresima inizia chiedendo ai ragazzi di rinnovare la fede e le promesse battesimali. È un grande atto di stima che la Chiesa mostra nei confronti dei vostri figli, poiché prende pubblicamente atto e sul serio della loro libertà. …… L’adulto o educa, ed allora deve proporre la visione della vita che ritiene vera e buona; o non educa ed allora si limita a dire: “da grande, farà lui le scelte che vuole”… Per gli anni immediatamente successivi alla Cresima, da parte vostra non dite mai a vostro figlio a parole o coi fatti che il “debito” verso la Chiesa è stato pagato. Non dite mai a parole o nei fatti che, fatta la Cresima, è finito tutto, in attesa di sentire ancora un po’ di catechismo nel corso prematrimoniale…. Cari genitori, questa è la scelta davanti alla quale siete posti: quale forma di vita ritenete che sia vera e buona per i vostri figli? (Incontro con i genitori dei Cresimandi – Bologna, 8 e 15 marzo 2009)
19 – Solenne concelebrazione eucaristica per il Papa Benedetto XVI nel V anniversario della sua elezione al Soglio Pontificio e in segno di speciale comunione di preghiera, di affetto e di solidarietà (erano mesi in cui si attaccava spudoratamente Benedetto XVI per la sua ortodossia) Cattedrale di S. Pietro, 19 aprile 2010
“In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. È a persone che lo cercano [“voi mi cercate”], che Gesù si rivolge. Ma esse o limitano la misura del loro desiderio o non ne hanno la giusta comprensione: per loro il pane mangiato è solo pane, e non segno che rimanda ad un cibo “che dura per la vita eterna”. In questa pagina evangelica è posta chiaramente sia la domanda circa Gesù: chi è veramente Gesù di Nazareth?, sia la domanda circa la misura del desiderio dell’uomo: che cosa l’uomo ha il diritto di sperare, una vita eterna o solo “un cibo che perisce”?
Cari fratelli e sorelle, il dialogo evangelico fra Gesù e le folle ci fa capire profondamente il servizio petrino di Benedetto XVI. Esso è interamente teso a proporre la verità salvifica di Gesù al cuore dell’uomo del nostro tempo, e pertanto la questione della verità della fede cristiana è al centro del suo insegnamento. Non a caso nel suo stemma episcopale aveva scritto cooperatores veritatis. Che cosa significa più esplicitamente tutto questo? Ritorniamo al testo evangelico. Gesù, come avete sentito, parla di un cibo “che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre ha messo il suo sigillo”.
Cari fratelli, queste parole ci parlano di Dio, ce ne svelano il mistero. Nel suo servizio alla verità, il S. Padre ha costantemente insegnato in primo luogo la verità su Dio. L’affermazione con cui inizia il quarto Vangelo “in principio era il Verbo”, costituisce “la parola conclusiva del concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi” [Benedetto XVI, Discorso di Regensburg]. E pertanto la proposta cristiana interloquisce in primo luogo con la ragione dell’uomo, esibendosi come la religione vera.
Ma questo non è tutto. Il testo evangelico ci ha detto che Dio in Gesù dona all’uomo un pane “che dura per la vita eterna”. Il Dio vero in cui crediamo, non è una realtà inaccessibile. È un Dio che ama l’uomo, fino a condividerne il destino mortale per poterlo nutrire con un pane “che dura per la vita eterna”. La prima enciclica di Benedetto XVI, quella programmatica del suo pontificato, inizia così “Deus charitas est” [Dio è carità]. La verità circa Dio è di un Dio che è il Verbo – Logos e identicamente l’Amore – Agape. Egli è identicamente il Dio “che abita una luce inaccessibile” e il Dio che entra nella nostra storia tribolata e contraddittoria. L’impegno di rendere presente questo Dio nella vita degli uomini – lo ha detto il Santo Padre stesso – è l’impegno fondamentale di questo pontificato.
Ma un “tale Dio” può essere incontrato solo mediante un atto della persona che faccia uso e di una ragione che decida di andare oltre se stessa, e di una libertà che non si faccia imprigionare dalla ipnosi dei beni umbratili. In una parola: può essere incontrato dalla fede. “Gesù rispose: questa è l’opera di Dio: credere in colui che ha mandato”. E qui troviamo l’altro grande centro del servizio petrino di Benedetto XVI: salvare la ragione e quindi la libertà dell’uomo. È un servizio che può esprimersi positivamente nella formula: allargare gli spazi della ragione; e negativamente: rifiutare la dittatura del relativismo. È su questo piano che lo scontro mite e coraggioso del S. Padre colla cultura egemone in Occidente è totale, ed ha assunto ormai un profilo drammatico.
Quando il S. Padre parla di “allargare gli spazi della ragione” intende dire che la nostra ragione non è capace di conoscere solo ciò che è scientificamente sperimentabile, e solo ciò che noi possiamo tecnicamente realizzare. È ciò che dice Gesù alle folle: non fermatevi al pane che ha soddisfatto la vostra fame; in questo pane vedete un “segno” di un cibo che è risposta ad un desiderio illimitato di vita. Trascendere il sensibile per salire fino a Dio è una capacità ed un atto ragionevole.
Può sembrare strano che un Papa si erga a difensore della ragione con tanta forza. Non è, il successore di Pietro, prima di tutto il testimone del Vangelo? Cari fratelli e sorelle: la separazione tra la fede e la ragione distrugge la fede cristiana perché finisce col ridurla ad un fatto emotivo e puramente soggettivo. Una “ragione debole” è incapace di una fede ragionevole.
Cari amici, la seconda lettura ci ha narrato lo scontro tra Stefano ed il potere religioso del suo tempo. È intrinseco alla testimonianza cristiana lo scontro coi poteri di questo mondo. Quale è il “potere del mondo” con cui oggi si scontra la testimonianza che quotidianamente Benedetto XVI rende a Cristo? Prima ho parlato della “dittatura del relativismo”. Con questa espressione il S. Padre intende quel modo di pensare oggi così diffuso secondo il quale non esiste alcuna verità universalmente valida circa ciò che è bene o male; che “non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
Una tale posizione, sul piano etico, ha una potenza devastante smisurata. Vengono censurate non solo le norme morali del cristianesimo; ma ogni tentativo di mostrare che esistono norme morali che difendono “beni umani non negoziabili” è rigettato in partenza. Mai l’uomo è stato esposto ad un pericolo più grave, dal momento che è stato privato del potere di riconoscere le prevaricazioni contro se stesso. Il “sistema spirituale immunitario” che lo difende da ogni attacco alla sua dignità – la convinzione che esistano beni umani non negoziabili – è stato annullato.
È su questo livello che lo scontro fra il S. Padre e il potere culturale del mondo è totale.
“Siedono i potenti, mi calunniano, ma il tuo servo medita i tuoi decreti”, abbiamo or ora pregato col Salmo. Ecco: questo sembra essere l’atteggiamento fondamentale del S. Padre.
Questo deve essere l’atteggiamento della Chiesa, anche della Chiesa di Dio in Bologna. La fede ha già vinto il mondo, poiché essa ci radica nella divina Verità e trova corrispondenza profonda nel cuore di ogni uomo, fatto per incontrarsi con Dio nel Cristo.
20 – “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita”. Sono parole drammatiche queste parole: esse tracciano un confine di separazione fra gli uomini. Un confine fissato in base all’attitudine dell’uomo di fronte a Cristo: o di fede-obbedienza a Lui o di incredulità-disobbedienza. Non c’è via di scampo, poiché non c’è una “terza via” possibile fra il “credere” e il “non credere”. Anche il “non pensarci”, anche il “non-interessarsi” non è una via di uscita da questa alternativa, poiché chi non ci pensa, chi non si interessa, chi è indifferente subisce la stessa sorte di chi “non obbedisce al Figlio”: “chi non è con me è contro di me”. La fede, intesa nel suo intero significato, è l’unica cosa di cui l’uomo ha bisogno per diventare partecipe della promessa salvifica di Gesù: la vita eterna. La fede di cui ci parla il Vangelo, è un inchinarsi obbediente di fronte al Salvatore; è l’accettazione profonda della sua rivelazione e dei suoi insegnamenti… Ma se tale è la “sorte” di chi crede, che avviene a chi non crede? “… non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”. L’incredulità è disobbedienza a Cristo, è disinteresse per lui, ed esclude dalla vita di Dio. Fin tanto che l’uomo, per la sua incredula indifferenza, rifiuta di comunicare con Colui che dona la vita, resta nella morte: anzi, rimane sotto l’ira di Dio. Non è che sia il Padre a condannarlo: è l’uomo che rimanendo nell’incredulità, si auto-condanna. La vera discriminazione fra le persone è solo questa, alla fine: fra chi crede e chi non crede. (Mandato missionario 15 aprile 1999)
21 – ….“a che profondità ho posto le radici del mio essere?”. La domanda ha un senso. Nessuno di noi può decidere di esistere. Le radici dunque del nostro esserci non possono essere una nostra decisione. Quale è il terreno in cui affondano?…….. La pagina di S. Paolo è la risposta a questa domanda. Meglio: è una guida a scoprire il vero terreno in cui sono poste le nostre radici. È una pagina drammatica. Essa enumera tutte le difficoltà che possono abbattersi sulla persona umana: la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada; la morte e la vita, potenze impersonali avverse. È l’immagine di una vita umana la quale potrebbe essere paragonata ad un albero percosso continuamente da venti furiosi. «A che profondità tu hai posto le radici» per non essere sradicato ed inaridirti? Dentro quale terreno? Paolo risponde: poni le tue radici nell’amore di Dio quale si è rivelato ed incontri in Cristo Gesù…. Se questo nome vi è già stato dato, non pensate che si possa cambiarlo. È definitivo; non sradicarti dal terreno dell’amore che ti ha scelto. (Veglia per le vocazioni Seminario, 21 aprile 2015)
22 – “Dove è il Signore perché io possa incontrarlo?”. Il Vangelo, che descrive l’incontro di due uomini col Signore Risorto, ti risponde precisamente a queste domande….. in essi possiamo ritrovare ciascuno di noi. Sono “in cammino”: ciascuno di noi è sempre in cammino. La nostra vita è come un cammino, verso che cosa? Quale è la meta ultima della nostra giornata terrena? Ascoltate: “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”. Ecco l’uomo: una speranza delusa! Portiamo nel cuore una grande attesa, una infinita sete di beatitudine e di vita. Essi avevano pensato che finalmente tutto questo avrebbe avuto compimento. Niente! Perché? Perché è morto. Ecco che cosa ci rende “disperati”: l’impossibilità di sfuggire alla morte. Per cui non si è trovato rimedio migliore che quello di non pensarci.
Ed ecco il miracolo della nostra vita: “Gesù in persona si accostò e camminava con loro”. L’unico, vero miracolo che può veramente cambiare la vita: Gesù risorto che si rende compagno del nostro viaggio: la compagnia del Risorto. Come avviene questa compagnia? I due discepoli diranno: “non ci ardeva forse il cuore …” Il Signore risorto ci parla: ci sta parlando anche ora. Non solo nel senso che le mie parole percuotono le vostre orecchie. Egli, mediante questa parola, entra nel nostro cuore e risuscita la nostra speranza morta. Voi sentite rinascere dentro di voi la gioia del vivere. Ma questo non è tutto. … Noi lo “vediamo”, vediamo il suo volto quando celebriamo l’Eucarestia. Ecco come accade il miracolo della sua compagnia: l’annuncio che ci viene fatto della sua parola e la celebrazione dell’Eucarestia. (ai Cresimandi 21 aprile 1996)
23 – “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”. Non senza una provvidenziale ispirazione, infatti i nostri padri hanno scelto S. Giorgio martire come loro e nostro patrono. E’ dunque necessario che riflettiamo seriamente sul significato del martirio nella comunità cristiana. Esiste una vita che può essere soppressa dal potere di questo mondo: esiste una vita che nessun potere di questo mondo può sopprimere. Il martire ha permesso che fosse soppressa la prima, per salvare l’altra. Egli è sembrato essere uno sconfitto, perché fu rinnegato davanti agli uomini. In realtà egli vinse, perché fu riconosciuto dal Cristo davanti a Dio. Nel martirio così accade uno straordinario paradosso: chi è sconfitto, in realtà è vincitore e chi prevale, in realtà, è uno sconfitto; chi muore, in realtà vive; chi vive, è in realtà già morto. Non appena, noi sentiamo descrivere questo evento paradossale, ci rendiamo conto immediatamente che stiamo parlando dell’evento centrale della nostra fede: la morte e la risurrezione di Cristo. Il martire ci rimanda, più di ogni altro (ed in questo sta la sua suprema grandezza), al mistero di Cristo. Il Cristo non ebbe paura di coloro che uccidevano il suo corpo perché non potevano uccidere la sua anima. La morte di Cristo è il suo supremo atto di amore: “nessuno ha un amore più grande …”. In essa noi scopriamo che “valiamo più di molti passeri” agli occhi del Padre, se Egli ha consegnato alla morte il suo Figlio Unigenito per la nostra salvezza: “siete stati comprati a caro prezzo…”. E’ a causa di questa morte che accade la vera, unica “rivoluzione” nella condizione umana, cioè la risurrezione di Gesù Crocefisso ad una Vita che nessuno più avrà il potere di distruggere. E’ nella luce quindi del mistero pasquale di Cristo, che possiamo capire il martirio di S. Giorgio. L’atto della morte di Cristo continua nella nostra morte. La Chiesa non celebrerebbe in piena verità il sacrifico di Cristo, ogni volta che celebra l’Eucarestia, se non fosse anche il suo sacrificio. Ora il sacrificio della Chiesa sono i martiri. La morte dei martiri e la morte di Gesù non sono che un solo atto di redenzione: la vittoria continua sul potere dell’inferno. La morte dei martiri sono il segno che Cristo vince. (Omelia per la festa di san Giorgio 23 aprile 1996)
24 – “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni … perché l’amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori”. L’apostolo parla di tribolazione, di pazienza, di virtù che è messa alla prova. E’ un insegnamento fra i più chiari sul fatto che l’esistenza cristiana è un “caso serio”. La testimonianza del cristiano per Cristo prende in consegna tutta la sua esistenza. Cristo l’ha detto in modo inequivocabile: chi non pospone tutto, anche la vita, “non è degno di me”, ed ancora: “chi mi rinnegherà …” In questa prospettiva, tutta la vita del discepolo deve essere un morire a se stesso, per vivere per Cristo. L’impegno della vita in totale e la testimonianza del sangue non sono affatto distinguibili. Il martirio non è tanto una questione di morte, ma piuttosto una questione che riguarda ogni istante della nostra vita. In questo senso, ogni cristiano è chiamato al martirio. Questa identità del cristiano, alla quale il nostro martire oggi ci richiama, non deve essere intesa come un dovere, pesante e terribile, che il discepolo si sente imposto dall’esterno. “La carità di Dio è stata effusa nei nostri cuori …” La nostra esistenza deve lasciarsi espropriare dall’amore di Dio, rivelatosi in Cristo, e che lo Spirito ci fa ulteriormente sentire: lasciarci conformare all’amore di Cristo, che giunse fino al dono della vita.
Qui scopriamo la vera natura del martirio cristiano. Il martire cristiano non muore per un’idea, sia pure assai elevata, per la dignità dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli oppressi. Egli muore con Qualcuno, Cristo, che è già morto e risuscitato per lui. E questa è la nostra vocazione di cristiani. Così sia. (Omelia per la festa di san Giorgio 23 aprile 1996)
25 – “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente”. Stiamo trascorrendo le settimane più intense, più importanti nello scorrere dei nostri giorni: sono le sette settimane che da Pasqua, ci condurranno alla celebrazione della Pentecoste…. Le più intense, le più importanti perché, come dice una preghiera liturgica, “in questi giorni pasquali ci hai rivelato la grandezza del tuo amore”. Ecco: la rivelazione della grandezza dell’amore di Dio è il grande avvenimento che accade in questi giorni. Ed è alla contemplazione, alla “visione” di questo amore che oggi siamo invitati: “vedete quale ….”. – E’ un amore assolutamente gratuito, immeritato: ci è stato “donato”. Il primo dono, il dono dal quale ci viene ogni altro dono è precisamente il suo Amore. Ascoltiamo quanto ci insegna l’apostolo S. Paolo: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati” (Ef. 2,4-5). Dunque, possiamo accostarci al Signore con piena fiducia, poiché in Lui troviamo solo misericordia….. Ecco, questo è il nostro destino: non esistiamo per caso. Il Signore stesso ci ha voluti perché entrassimo nel possesso della sua stessa vita. Questa è la nostra dignità, una dignità che è propria di ciascuna persona, dovuta al suo essere figlio di Dio. (Omelia 20 aprile 1997)
26 – “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il grande amore che il Padre ci ha dato, compie la sua opera nel dono che Cristo compie della propria vita….. E’ una opera che il Buon pastore compie perché “gli importa delle pecore”. L’atto redentivo che Cristo compie ha la sua origine in questa “appartenenza” di ciascuno di noi al suo cuore; in questo supremo interesse che Egli prova per ciascuno di noi. Fratelli, sorelle: sentiamo questa appartenenza di ciascuno di noi a Cristo; questa preoccupazione che egli ha per ciascuno di noi. Non gli sei sconosciuto: “conosco le mie pecore”. Egli conosce le tue difficoltà, le tue sofferenze. E’ un’opera che consiste nel dono più grande che si possa immaginare: “offro la vita per le pecore”. La nostra redenzione consiste nel dono che Cristo ha fatto della sua propria vita sulla Croce. Ascoltiamo ancora quanto ci dice S. Paolo: “Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora , a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto…. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rom. 5,6.8). E’ un dono che Cristo compie nella più grande libertà. La sua morte non è stata semplicemente un triste incidente, una pena che Egli ha dovuto subire. E’ stata da Cristo scelta: egli ha donato la sua vita in piena libertà. “Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo”. Ed è questo dono che noi ora celebriamo, celebrando la divina Eucarestia. Ecco, vedete che si compie davanti agli occhi della nostra fede tutta l’opera della nostra salvezza. Essa ha una origine: l’amore assoluto, immeritato del Padre verso ciascuno di noi. Essa ha una meta finale: farci vedere il Padre così come Egli è, fatti a Lui simili. Essa ha una realizzazione: il dono che Cristo ha fatto della sua vita. (Omelia 20 aprile 1997)
27 – …. la storia di S. Tommaso ci ha insegnato che per riconoscere il Signore risorto, per avvertire la sua Presenza fra noi è necessaria la fede: “non essere più incredulo, ma diventa credente” aveva detto a Lui il Signore. Oggi, il quadro delle disposizioni umane necessarie per “vedere” la presenza del Signore, si completa. Se fate bene attenzione alla pagina evangelica, vedete che, come sempre, all’inizio il Signore non è riconosciuto. Il primo a riconoscerlo è il discepolo che Gesù amava: è l’amore che rende il discepolo prediletto capace di riconoscere Colui che è sulla riva, come il Signore. E’ l’amore che dona all’uomo la capacità di vedere Gesù. Tommaso ha creduto dopo che ha messo la mano nel costato di Cristo: dopo che ha sentito l’amore del Signore. E’ l’amore che dona alla nostra anima gli occhi per vedere. Quando si tratta di qualcosa, tu puoi conoscere pur restando del tutto indifferente nei suoi confronti. Quando si tratta di qualcuno, di una persona, la si può conoscere solo nella misura in cui la si ama: il mistero di ogni persona di apre solo agli occhi del cuore di chi lo ama. Lo stesso accade nella nostra esperienza di fede: il primo a riconoscere il Signore è colui che aveva amato di più il Signore. Fratelli e sorelle: questa pagina narra l’ultima apparizione del Risorto ai discepoli. Anche noi nelle domeniche successive non mediteremo più sulle apparizioni del Risorto, come abbiamo fatto nelle prime tre domeniche di Pasqua. Ma l’ultima apparizione, come è descritta oggi dal Vangelo di Giovanni, non ci sembra affatto un commiato: il tempo si è come fermato. Il Risorto rimane con noi: non importa se non lo vediamo cogli occhi del nostro corpo. Egli rimane, poiché il banchetto eucaristico è sempre preparato nella Chiesa. Resta l’Eucarestia per i discepoli che credono ed amano il Signore. “E’ il mistero eucaristico che accompagna la Chiesa nel suo cammino e fa già presente la fine. La fine del mondo è la Sua presenza” (D. Barsotti). (Omelia 26 aprile 1998)
28 – La grandezza suprema della persona, la dimensione che la rende più simile a Dio, è precisamente l’esercizio della sua libertà. Ma è precisamente in esso (esercizio) che dimora la domanda ultima sull’uomo: che senso ha l’essere liberi? perché sono libero? quale è il significato ultimo del nostro essere liberi? A questa domanda si possono dare due risposte contrarie (e quindi se è vera l’una, è falsa l’altra). Prima risposta possibile: il significato ultimo della libertà consiste nell’essere la persona umana chiamata a rispondere ad un Tu che la chiama ad una comunione di Amore. Dunque: l’atto libero ha la struttura intima di “risposta”. Ed in questo senso, la libertà umana non è un primum: essa è preceduta (non cronologicamente) da un Altro che la pone. Seconda risposta possibile: il significato ultimo della libertà consiste nella libertà stessa. L’atto libero non ha pre-supposti: è un primum. La modernità nasce quando alla domanda sulla libertà e sul suo significato si risponde nel secondo modo. In questo senso, la modernità trova nel progetto di una liberazione totale della persona umana il suo fondamentale codice interpretativo…. (…) L’esperienza della modernità è terminata e quindi stiamo congedandoci da essa. Come dobbiamo farlo? Se non vado errato, mi sembra che ci siano oggi tre proposte di congedo dalla modernità. La proposta neo-pagana. Parte da due presupposti: la modernità è lo sviluppo coerente della visione cristiana dell’uomo e di questa stessa visione è il punto finale; la modernità ha fallito perché ha tentato di realizzare un cristianesimo senza grazia, perché ha addossato solo all’uomo il peso di una salvezza completa. E’ necessario congedarsi da questo progetto (…). La proposta nichilista. La perdita del centro, “di un punto archimedeo facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all’intero” (F. Volpi) è da ritenersi definitiva. Si deve tessere l’esistenza al modo di Penelope, cioè fare e disfare nella certezza che non arriverà più nessuno a porre fine ad un tessuto che non esprime più nessun disegno, nella totale perdita della speranza di un Incontro. E il tutto non tragicamente, ma ormai allegramente. E’ questa proposta soprattutto che sta devastando il cuore di tanti giovani.
La proposta di una nuova evangelizzazione. E’ la proposta che Giovanni Paolo II sta facendo con la Chiesa Cattolica: percorrere nuovamente tutti i cammini dell’uomo (l’uomo è la via della Chiesa) perché ogni cammino umano sia luogo di incontro con Cristo (Cristo è la via della Chiesa). Questa proposta si congeda dalla modernità accogliendone pienamente la grande sfida. (Lectio Doctoralis tenuta alla Real Academia de Doctores – Madrid 29 aprile 1998 )
29 – Il rapporto famiglia-vita, direi con maggiore compiutezza matrimonio-famiglia-vita, è stato progressivamente distrutto nella nostra cultura ed ethos occidentali. E ciò è accaduto, mi sembra, attraverso tre momenti successivi, sui quali ora vorrei attirare la vostra attenzione. Tre passi che consistono in tre separazioni.
La prima separazione, di gran lunga la più grave, è stata la separazione della sessualità dalla persona, causata dalla separazione del corpo dalla persona. Il risultato di questa separazione è stato che la sessualità ha perduto ogni serietà: ha cessato di essere “un caso serio” per trasformarsi progressivamente in gioco.
La seconda separazione ha rotto l’armonia fra eros ed amore. E’ questa una grave malattia spirituale, come dirò dopo. Il terreno su cui questa separazione ha potuto impiantarsi e crescere, è stato l’ingresso nel nostro ethos occidentale di quella visione utilitaristica dell’uomo che è risultata di fatto vincente. Per visione utilitaristica intendo quella concezione dell’uomo secondo la quale l’uomo non dispone di una ragione egemone capace di misurare e ordinare i suoi desideri secondo specifiche virtù. Al contrario: l’uomo è portatore di desideri, passioni, interessi, alla cui soddisfazione la ragione è posta al servizio. Richiamarsi ad una verità scoperta dalla ragione e quindi ad un bene intelligibile secondo cui guidare desideri e passioni, è di fatto una indebita ed infondata limitazione dell’uomo. La separazione dell’eros dall’amore ha così legittimato una visione edonista della sessualità. Ora non c’è dubbio che una visione prevalentemente o esclusivamente edonista lavora nel senso di una separazione della sessualità dal matrimonio e, quindi del matrimonio dalla famiglia. Per quale ragione? perché una visione edonista della sessualità de-responsabilizza profondamente la persona nei confronti della propria sessualità medesima: è un esercizio individualista.
La terza separazione ha rotto il rapporto fra le due capacità insite nella sessualità, in una duplice direzione. La “nobilitazione” della contraccezione ha separato nella coscienza (non solo nel comportamento) la capacità unitiva dalla capacità procreativa. La “procreatica artificiale” ha separato la capacità procreativa dalla capacità unitiva. E così il cerchio si è chiuso. L’amore coniugale non è più orientato al dono della vita sia perché si è pensato possibile un amore coniugale vero e nel contempo chiuso alla vita, sia perché esiste un modo di “produrre” la vita, che prescinde completamente dall’amore coniugale. (Famiglia e Vita lo scontro decisivo: Relazione al Congresso Internazionale Educazione Famiglia e Vita Università Cattolica San Antonio – Murcia (Spagna) 27-28 aprile 2001 )
30 – L’apostolo Paolo, scrivendo ai suoi fedeli di Corinto, dice: “vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato” [1 Cor 15, 1-2]. L’annuncio del Vangelo è accompagnato e seguito da un insegnamento che ne presenta e ne spiega i contenuti. Rimanere saldi nella fede significa non distaccarsi da questo insegnamento; “mantenerlo in quella forma, in quei contenuti con cui vi è insegnato”. “Altrimenti” aggiunge l’Apostolo “avreste creduto invano”.
Cari amici, questo è un punto assai importante. I contenuti della fede non sono a nostra disposizione, così che alcuni li accettiamo altri non li accettiamo. La fede non è come un supermercato dove uno entra, e prende ciò di cui ha bisogno. Non esiste una fede “fai da te”, misurata e tagliata secondo i propri gusti. L’apostolo, come avete sentito, è molto severo con chi pensa ed agisce così: “avreste creduto invano”…. La fede, per essere salda, deve anche essere difesa dalla mentalità del mondo in cui viviamo. Se ragionate secondo questa mentalità, gradualmente non rimarrete saldi nella fede, secondo la forma in cui essa vi è stata annunciata. Non dovete aver paura di ragionare colla vostra testa, cioè nella luce della fede, anche se questo vi fa sentire isolati. (Omelia 28 aprile 2013)