Ragione e fede in dialogo. Le idee di Benedetto XVI a confronto con un grande filoso.
Premessa
Un eminente filosofo del nostro tempo, forse il più importante, e un eminente cardinale, senza dubbio il più vero nell’ortodossia anche prima di diventare Benedetto XVI, concordano in queste pagine sull’idea che ragione e fede debbano dare luogo a un dialogo, che apprendano qualche cosa l’una dall’altra, che si pongano l’una all’altra come limite, che diano luogo tra loro a un sistema di checks and balance reciproco (espressione inglese:”controllo e bilanciamento reciproco”), che controllino e tengano a freno gli eccessi l’una dell’altra, e che in questa correlazione si alimentino beneficamente come forze complementari.
Non tutti probabilmente saranno d’accordo, né da parte cattolica né da parte laica e liberale. E tuttavia queste pagine che prendiamo dal dibattito di Ratzinger, sono un documento che ci servirà probabilmente a lungo per capire un’epoca, quella che stiamo vivendo, in cui si è preso atto che i rapporti tra la religione e la vita pubblica hanno compiuto una svolta.
È in questi nostri anni che stiamo prendendo atto di un cambiamento: la versione classica del racconto storico del processo di secolarizzazione, quella secondo la quale il distacco dalla religione avanza con l’avanzare della modernizzazione, mostra molte incrinature e viene abbandonata non solo da alcuni eccentrici intellettuali postmodernisti o da militanti della fede che non l’hanno mai condivisa.
C’è una persistenza della religione e una sua crescente richiesta di partecipare al discorso pubblico in contrasto con quelle classiche previsioni che facevano pensare a un crescere del disincanto e a un tendenziale ritrarsi nella dimensione privata.
È questa svolta concettuale che fa da sfondo all’impegnativo confronto pubblico tra Jvirgen Habermas e Joseph Ratzinger, promosso dall’Accademia cattolica di Monaco di Baviera nel gennaio del 2004.
Entrambi convergono qui nell’uso del concetto di «postsecolarismo». Ed è per questa convergenza, ricca di molte conseguenze, che crediamo che questo documento dovrà essere ricordato e studiato.
I testi che raccolgono le loro riflessioni incrociate, ma soprattutto la risposta di Ratzinger che ne raccoglie tutto il senso e che per questo pubblichiamo integralmente, illuminano lo stato dell’arte nei rapporti tra religiosi e laici, credenti e non credenti, tra fede e sapere, chiesa e politica, in questo inizio di secolo.
La mossa del cardinale Ratzinger consiste nel cercare di mettere la cultura secolare «in minoranza» svelandone la corruzione intellettuale e dunque della ragione stessa, così da non nascondere – come oggi accade – il problema della secolarizzazione e scristianizzazione europea, in una prospettiva di culture comparate e di sociologia della religione, come di una deviazione pericolosa che necessita di una correzione della ragione, correzione permeata dalla cultura Cristiana che fece grande l’Europa.
Ragione e fede (1)
Scambio reciproco per un’etica comune
di Joseph Ratzinger
Mentre i processi storici in cui siamo coinvolti evolvono con rapidità sempre maggiore, mi sembra che soprattutto due fattori si manifestino come caratteristiche di un’evoluzione che prima procedeva solo in tempi lunghi: il primo è la nascita di una società globale, in cui i singoli poteri politici, economici e culturali sempre più fanno riferimento l’uno all’altro e nei loro differenti spazi vitali entrano in contatto e si permeano vicendevolmente; il secondo è lo sviluppo delle possibilità dell’essere umano – il potere di creare e di distruggere – le quali sollevano la questione dei controlli giuridici e morali sul potere molto oltre rispetto a quanto siamo stati abituati finora.
Pertanto è assai urgente affrontare la questione di come le culture incontrandosi possano trovare fondamenti etici atti a condurle sulla strada giusta e a costruire una comune forma di delimitazione e regolazione del potere provvista di una legittimazione giuridica.
Ai due fattori succitati se ne aggiunge un terzo: nel processo di incontro e compenetrazione delle culture vengono distrutte quelle che erano state finora le principali certezze in materia di etica. La questione fondamentale di cosa sia dunque veramente il bene — soprattutto nel contesto attuale – e perché lo si debba mettere in pratica anche a costo di ricavarne un danno personale, rimane ampiamente senza risposta.
Ora, mi sembra evidente che la scienza come tale non può produrre un’etica e dunque una rinnovata consapevolezza etica non si realizza come prodotto di dibattiti scientifici. D’altra parte è anche innegabile che il fondamentale cambiamento della concezione del mondo e dell’essere umano, risultato delle crescenti conoscenze scientifiche, abbia svolto un ruolo essenziale nella distruzione delle antiche certezze morali.
A tale riguardo, esiste però una responsabilità della scienza nei confronti dell’essere umano in quanto tale, e soprattutto una responsabilità della filosofia nell’accompagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze e nell’esaminare criticamente conclusioni affrettate e finte certezze su cosa sia l’essere umano, da dove venga e perché esista; in altre parole, nel separare l’elemento non scientifico dai risultati scientifici — con cui spesso è mescolato — e mantenere lo sguardo sull’insieme, sulle altre dimensioni della realtà umana, di cui nella scienza si possono mostrare solo aspetti parziali.
Maggioranza e verità
In concreto, è compito della politica sottoporre il potere al controllo della legge, in modo da garantirne un uso assennato. Non deve valere la legge del più forte, ma la forza della legge.
Il potere controllato e guidato da essa è l’opposto della violenza, che noi intendiamo come potere senza legge e contrario alla legge. Per questo è importante per ogni società superare la diffidenza nei confronti della legge e dei suoi ordinamenti: solo così, infatti, si esclude l’arbitrio e la libertà può essere vissuta come libertà condivisa dalla comunità.
Il compito di porre il potere sotto il controllo del diritto rimanda, di conseguenza, all’ulteriore que-stione di come nasce il diritto e di come deve essere il diritto affinché sia strumento della giustizia e non del privilegio di coloro che detengono il potere di legiferare.
Il problema della necessità che il diritto non sia strumento di pochi, ma espressione dell’interesse comune, appare risolto – almeno per ora – attraverso gli strumenti del processo decisorio democratico, perché tutti collaborano alla nascita del diritto e perciò esso è la legge di tutti e può e deve essere considerato tale. Di fatto, la garanzia della collaborazione nella formazione della legge e nell’equa gestione del potere è il motivo fondamentale a favore della definizione della democrazia come la forma di ordinamento politico più adeguata.
Tuttavia, resta ancora aperta una questione. Dal momento che difficilmente c’è unanimità tra gli esseri umani, per il processo decisorio democratico rimangono come strumento indispensabile esclusivamente la delega della rappresentanza da un lato e la decisione a maggioranza dall’altro; per quanto riguarda quest’ultima, in base all’importanza della decisione si possono richiedere diversi ordini di grandezza della maggioranza.
Anche le maggioranze, però, possono essere cieche o ingiuste.
La storia lo dimostra in modo più che evidente: quando una maggioranza – per quanto preponderante – opprime con norme persecutorie una minoranza, per esempio religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o in generale di diritto?
Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non può mai diventare legittimo, qualcosa dunque che di per sé rimane sempre un’ingiustizia, oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura è legge immutabile, a prescindere da ogni decisione della maggioranza, e che da essa deve essere rispettata.
L’età moderna ha formulato un patrimonio di simili elementi normativi nelle differenti dichiarazioni dei diritti umani e li ha sottratti al gioco delle maggioranze.
Ci si può accontentare, nella coscienza contemporanea, dell’evidenza interna di questi valori; tuttavia, anche una simile rinuncia autoimposta a indagare ha carattere filosofico.
Ci sono dunque valori che valgono per se stessi, che provengono dalla natura umana e perciò sono inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa natura.
Sulla portata di una simile rappresentazione dovremo tornare ancora in seguito, tanto più che tale evidenza oggi non è assolutamente riconosciuta in tutte le culture.
Quale rapporto tra religione e progresso?
Quando ci si occupa del rapporto tra potere e diritto e delle fonti del diritto, anche il fenomeno stesso del potere deve essere preso in esame più approfonditamente.
Non voglio tentare di definire l’essenza del potere in quanto tale, ma delineare le sfide poste dalle nuove forme di potere che si sono evolute negli ultimi cinquant’anni.
Nei primi tempi dopo la seconda guerra mondiale, incombeva lo spettro di un nuovo potere distruttivo per gli uomini, aumentato con la scoperta della bomba atomica.
L’uomo era improvvisamente in grado di distruggere se stesso e il suo mondo. Si levò la questione: quali meccanismi politici sono necessari, per scongiurare una simile distruzione? Come possono essere mobilitate forze etiche che creino tali forme politiche e conferiscano loro capacità operativa?
De facto, per un lungo periodo furono la competizione tra blocchi di potere contrapposti e la paura di causare la propria distruzione insieme a quella dell’altro, a preservarci dallo spettro della guerra atomica. La limitazione reciproca del potere e la paura per la propria sopravvivenza si dimostrarono forze salvatrici.
Nel frattempo, non ci spaventa più tanto la paura di una grande guerra, bensì la paura del terrorismo onnipresente, che può colpire e attivarsi in ogni luogo. L’umanità, vediamo oggi, non ha bisogno della grande guerra per rendere invivibile il mondo. I poteri anonimi del terrore, che possono essere presenti ovunque, sono sufficientemente fo-ti da perseguitarci tutti fin nella vita d’ogni giorno, dove permane la minaccia che elementi criminali guadagnino l’accesso a grandi potenziali di distruzione e perciò possano sprofondare il mondo nel caos fuori dall’ordinamento della politica.
La questione del diritto e dell’etica si è dunque spostata: da quale fonte si alimenta il terrorismo? Come può l’umanità riuscire a scacciare questa nuova malattia dal suo interno?
Inoltre è spaventoso che almeno in parte il terrorismo si legittimi moralmente. I messaggi di Bin Laden presentano il terrorismo come la risposta dei popoli oppressi e senza potere alla superbia dei potenti, come la giusta punizione per la loro arroganza e per il loro sacrilego autoritarismo e la loro crudeltà.
Per persone in determinate condizioni sociali e politiche simili motivazioni evidentemente sono convincenti.
In parte il comportamento dei terroristi è rappresentato come la difesa di una tradizione religiosa contro l’empietà della società occidentale.
A questo punto si impone un’altra questione su cui dovremo tornare: se il terrorismo è alimentato dal fanatismo religioso, come è, la religione è salvifica e risanatrice» o non piuttosto un potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi e perciò induce all’intolleranza e al terrorismo?
La religione non deve pertanto essere posta sotto la tutela della ragione e attentamente delimitata?
Sorge dunque spontaneamente la domanda: chi può farlo? Come si può fare? Ma la domanda generale rimane: l’annullamento generalizzato della religione, il suo superamento, deve essere considerato un necessario progresso dell’umanità sulla via della libertà e della tolleranza universale, o no?
Nel frattempo è apparsa in primo piano un’altra forma di potere, che sembra del tutto benefica e meritevole di approvazione, ma in realtà può diventare una nuova minaccia per l’essere umano: l’uomo è ora in grado di creare essere umani, per così dire di produrli in provetta. L’uomo diventa un prodotto, e di conseguenza cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso.
Non è più un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto di se stesso. L’uomo è giunto alla sorgente del potere, nel luogo di origine della propria stessa esistenza.
La tentazione di creare infine l’uomo perfetto, di condurre esperimenti sugli esseri umani, di vedere gli esseri umani come spazzatura e di metterli da parte, non è una fantasticheria di moralisti nemici del progresso.
Se poco fa ci si è posta la questione se la religione sia davvero una forza morale positiva, ora deve affiorare il dubbio sulla affidabilità della ragione.
Alla fin fine, anche la bomba atomica è un prodotto della ragione e l’allevamento e la selezione di esseri umani sono stati ideati dalla ragione. Ora non dovrebbe dunque a sua volta essere messa sotto osservazione la ragione? Ma da chi o da cosa?
O forse religione e ragione dovrebbero limitarsi a vicenda, e ciascuna mettere l’altra al suo posto e condurla sulla propria via positiva?
A questo punto di nuovo si pone la questione di come, in una società globale con i suoi meccanismi di potere e con le sue forze senza freni, con le sue differenti visioni di ciò che è giusto e di ciò che è morale, si possa trovare una evidenza etica operativa, con sufficiente potere di motivarsi e di imporsi, per rispondere alle sfide delineate in precedenza e aiutare a superarle.
Diritto e ragione
Si raccomanda innanzi tutto uno sguardo alle situazioni storiche comparabili con la nostra, fino al punto in cui la comparazione è possibile. Vale la pena almeno di considerare brevemente che la Grecia conobbe il suo illuminismo, che il diritto fondato sugli dèi perse la sua evidenza e si dovette indagare alla ricerca di più profondi fondamenti del diritto.
Così nacque l’idea che di fronte alla giurisprudenza, che può essere iniqua, deve esserci una legge che promani dalla natura, dall’essenza stessa dell’essere umano. Tale legge deve essere trovata e rappresenta quindi il correttivo del diritto positivo.
In un’epoca più vicina a noi, si può considerare la doppia frattura che si è verificata all’inizio dell’evo moderno per la coscienza europea e che ha costretto ad una nuova riflessione sul contenuto e sull’origine del diritto, sin dai fondamenti.
In primo luogo, dunque, l’evasione dai confini del mondo europeo e cristiano, che si compie con la scoperta dell’America.
Si incontrano popoli che non appartengono alla compagine di credo e di diritto cristiana, che era stata fino ad allora l’origine del diritto per tutti e gli aveva conferito la sua fisionomia.
Ma sono dunque privi di diritto, come molti pensarono allora e come fu praticato largamente, o esiste un diritto che supera tutti i sistemi giuridici e lega e delimita gli esseri umani come tali nel loro incontrarsi?
Francisco de Vitoria in questa situazione ha sviluppato il concetto preesistente dello ius gentium, il «diritto dei popoli», in cui nella parola gentes è compreso anche il significato di pagani, non cristiani.
La seconda frattura nel mondo cristiano si compì all’interno della cristianità stessa, attraverso lo scisma con cui la comunità dei cristiani si divise in comunità diverse e in parte ostili. Di nuovo occorre sviluppare un diritto comune precedente al dogma, almeno un minimum giuridico, le cui basi devono trovare il proprio fondamento non più nella fede, ma nella natura, nella ragione umana. Hugo Grotius, Samuel von Pufendorf e altri hanno sviluppato il concetto di un diritto naturale come diritto razionale, che oltre le barriere di fede pone in vigore la ragione come l’organo di comune costruzione del diritto.
Il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella Chiesa cattolica, la figura argomentativa con cui essa richiama alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede e con cui ricerca i fondamenti di una comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista.
Ma questo strumento è purtroppo diventato inefficace, e non vorrei basarmi su di esso in questo intervento.
Il concetto del diritto di natura presuppone un’idea di natura in cui natura e ragione si compenetrano, la natura stessa è razionale.
Questa visione della natura, con la vittoria della teoria evoluzionista, si è persa.
La natura come tale non sarebbe razionale, anche se in essa v’è un atteggiamento razionale: questa è la diagnosi che per noi ne deriva e che oggi appare per lo più inoppugnabile.
Delle differenti dimensioni del concetto di natura, su cui si fondava un tempo il diritto naturale, rimane dunque solo quella sintetizzata da Ul piano (III secolo d.C.) nella nota formulazione: «Ius naturae est, quod natura omnia animalia docet» ossia ” Il diritto naturale è quello che la stessa natura insegna a tutti gli esseri viventi”.
Ma ciò non basta per le nostre questioni, in cui si tratta di individuare non già cosa riguarda tutti gli «animalia», ma gli specifici doveri, che la ragione umana ha creato per gli uomini e ai quali non si possono fornire risposte senza la ragione.
Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente possibile un diritto razionale – almeno nell’età moderna -, sono rimasti i diritti umani. Essi non sono comprensibili senza presupporre che l’uomo in quanto tale, sem-plicemente per la sua appartenenza alla specie umana, sia soggetto di diritti, che il suo essere stesso comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non inventati.
Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe però aiutare a rinnovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per l’uomo e la sua esistenza nel mondo. Un simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato interculturalmente.
Per i cristiani ciò avrebbe a che fare con la creazione e con il Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe al concetto di «Dharma», la legge interna all’essere, nella tradizione cinese all’idea degli ordinamenti celesti, e così via.
L’interculturalità e le sue conseguenze
Prima di arrivare alle considerazioni finali, vorrei approfondire il discorso accennato poc’anzi. L’interculturalità mi sembra rappresentare oggi una dimensione inevitabile della discussione sulle questioni fondamentali dell’essenza dell’essere umano, che non può essere condotta né del tutto all’interno – esclusivo – del Cristianesimo né puramente all’interno della tradizione razionalista occidentale.
Infatti, entrambi si considerano universali in base alla propria percezione di sé e aspirano ad esserlo anche de iure. Devono però riconoscere de facto che sono accettati e addirittura comprensibili solo per una parte dell’umanità. Il numero delle culture concorrenti è tuttavia molto più limitato di quanto può sembrare ad un primo sguardo.
Prima di tutto è importante il fatto che non esiste alcuna unanimità all’interno delle aree culturali, ma tutte subiscono l’influenza di profondi conflitti all’interno della propria tradizione culturale.
In occidente è del tutto evidente.
Anche se predomina largamente la cultura laica di una rigorosa razionalità, di cui Habermas ci ha fornito un’immagine persuasiva, ed essa si considera vincolante, la percezione cristiana della realtà oggi come ieri è una forza attiva. Gli estremi si trovano di volta in volta vicini o in conflitto, con reciproca disponibilità a imparare oppure in più o meno deciso rifiuto l’uno dell’altro.
Anche la cultura islamica è influenzata da simili tensioni; dall’assolutismo fanatico di un Bin Laden fino agli atteggiamenti che rimangono aperti a una razionalità tollerante, si stende un ampio ventaglio.
La terza grande area culturale – la cultura indiana, o meglio le aree culturali dell’Induismo e del Buddismo – è attraversata nuovamente da simili conflitti, anche se essi si manifestano in modo meno drammatico, almeno ai nostri occhi. Anche questa cultura si vede esposta alle rivendicazioni della razionalità occidentale come alle domande della fede cristiana, le une e le altre rappresentate in essa. Le culture tribali africane e quelle latinoamericane, risvegliate da determinate teologie cristiane, completano il quadro.
Sembrano mettere in discussione la razionalità occidentale, ma anche la rivendicazione universale del messaggio cristiano.
Qual è la conseguenza di tutto ciò?
Innanzi tutto, mi sembra, la non universalità di fatto di entrambe le principali culture dell’occidente, quella della fede cristiana e quella della razionalità laica, per quanto entrambe esercitino – ciascuna a suo modo – un influsso su tutto il mondo e tutte le culture.
A tale riguardo mi sembra che la questione dei colleghi di Teheran, che Habermas ha citato, sia dunque di qualche peso: cioè la questione se la secolarizzazione europea, in una prospettiva di culture comparate e di sociologia della religione, non sia una deviazione che necessita di una correzione.
Non ridurrei la questione esclusivamente, o almeno non necessariamente, alla posizione di Cari Schmitt, Martin Heidegger e Leo Strauss, circa una situazione europea per così dire stanca di razionalità.
Comunque, è un dato di fatto che la nostra razionalità secolare, per quanto illumini la nostra ragione di formazione occidentale, non è comprensiva di ogni ragione che, in quanto razionalità, nella sua ricerca di rendersi evidente urta contro dei limiti.
La sua evidenza è di fatto legata a determinati contèsti culturali, e deve riconoscere che, in quanto tale, non è comprensibile a tutta l’umanità e perciò in se stessa non può neppure essere del tutto operativa.
In altre parole, non esiste una formula di interpretazione del mondo razionale, etica o religiosa, su cui tutti siano d’accordo e che potrebbe dunque sostenere il tutto; comunque è attualmente irraggiungibile. Perciò anche la cosiddetta etica globale rimane un’astrazione.
Disponibilità (reciproca) ad apprendere
Che fare, dunque? Per ciò che riguarda le conseguenze pratiche, mi trovo in ampio accordo con ciò che Habermas ha esposto sulla società post-secolare, riguardo la disponibilità ad apprendere e la autolimitazione da entrambe le parti.
Vorrei riassumere la mia opinione personale in due tesi. In primo luogo, abbiamo visto che ci sono patologie nella religione, che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la Luce divina della ragione come un organo di controllo, dal quale la religione deve costantemente lasciarsi chiarificare e regolamentare; questo era anche il pensiero dei Padri della Chiesa.
Ma nelle nostre riflessioni si è anche mostrato che esistono patologie anche nella ragione (cosa che all’umanità oggi non è altrettanto nota); una hybris della ragione, che non è meno pericolosa, ma a causa della sua potenziale efficacia è ancora più minacciosa: la bomba atomica, l’uomo visto come un prodotto.
Perciò anche alla ragione devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell’umanità. Quando essa si emancipa completamente e rifiuta questa capacità di apprendere, questo rapporto correlativo, diventa distruttiva.
Kurt Hubner ha brevemente formulato una simile esortazione dicendo che con una tesi del genere non si tratterebbe di un «ritorno alla fede», ma della «liberazione dall’errore epocale, che essa (cioè la fede) non abbia più nulla da dire ai contemporanei, perché in contrasto con la loro idea umanistica di ragione, illuminismo e libertà».
Di conseguenza parlerei della necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente.
In secondo luogo, questa regola di base deve essere messa in pratica nel contesto interculturale della contemporaneità. Senza dubbio i due partner principali in questo rapporto correlativo sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale: si può e si deve dirlo senza falso eurocentrismo.
Entrambi determinano la situazione globale come nessun’altra delle forze culturali. Ciò non significa però che sia lecito accantonare le altre culture come un’entità in qualche modo trascurabile. Ciò sarebbe una hybris occidentale, che pagheremmo cara e in parte già paghiamo. E’ importante per entrambe le grandi componenti della cultura occidentale acconsentire ad un ascolto, ad un rapporto di scambio anche con queste culture. E’ importante accoglierle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui esse si aprano spontaneamente alla complementarità essenziale di ragione e fede, cosicché possa crescere un processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell’umanità.
Alcune brevi considerazioni sul testo di Ratzinger
Rinuncia alle pretese autoritarie e tutela del pluralismo sì, ma con le dovute attenzioni per non scadere in un sincretismo religioso da una parte (tutte le culture sono sullo stesso piano di quella cristiana), e dall’altra parte per non far prevalere il concetto di una ragione liberista che pretende, imponendola, una ragione privata della fede nel Dio unico in generale e contro il Dio Cristiano in particolare per mascherare, in realtà, un attacco impietoso contro la Chiesa Cattolica.
Questo, d’altra parte, è il senso della riflessione del cardinale Ratzinger che abbiamo appena letto: religione e ragione devono disporsi oggi a un atteggiamento di apprendimento reciproco, e devono guardare alla secolarizzazione non come a una forma di imperialismo di una parte sull’altra, ma come a un «processo di apprendimento complementare» in cui entrambe le parti discutono temi controversi in pubblico per cercare una autentica collaborazione per il vero bene dell’uomo.
Perché ciò sia possibile sono necessarie due condizioni: da una parte, che la religione sia disposta ad abbandonare pretese di autoritarismo (quel che si chiarisce poi come fondamentalismo religioso) e a entrare in quel discorso razionale in cui valgono solo pretese di validità argomentabili razionalmente come, per esempio, sono i valori non trattabili sull’etica e sulla morale imposti dalla legge naturale valida per tutti, credenti o non credenti; dall’altra, che la neutralità del potere statale non sia intesa come generalizzazione politica di una visione del mondo secolarizzata o senza Dio.
La neutralità dello Stato di diritto, insomma, deve valere anche a tutela di quelle concezioni religiose del mondo che non possono vedersi negato, a priori per così dire, un potenziale di verità, o il diritto di entrare criticamente nella discussione pubblica.
Detto in parole brevi e semplici il liberalismo-laicista che Ratzinger mette sotto accusa, è quello che non riconosce altra autorità che quella dello Stato. Egli nega la divina istituzione della Chiesa, e perciò è “anticattolico” per partito preso. Nega tutta l’opera di Gesù Cristo in quanto “dottrina”, e perciò è “razionalista” e non ragionevole, diventa relativista e non relativo nel ragionare. Nega la superiorità dello spirito sulla materia, e perciò è “pagano”. Anzi nega ogni religione e ogni culto come se Dio non esistesse e perciò è “ateo” e pretendere di relegarlo nelle sacrestie, privatizzarlo. Invero egli, il liberista, concepisce lo Stato come potenza suprema del genere umano, e lo Stato diventa il “suo dio”, a sua volta questo Cesare liberale diventa dio di se stesso.
A fronte di questa distesa apertura al dialogo, la posizione del cardinale Ratzinger è senza dubbio centrata, ragionevolmente come ama chiarire lui stesso, su posizioni tradizionali della cultura Cristiana che ha dato origine all’Europa.
La formula habermasiana dell’«apprendimento reciproco» viene naturalmente richiamata con approvazione ma dove, per senso di reciprocità, non si pretenda la rinuncia alla cristianizzazione (che per la Chiesa è la missione imprescindibile dell’evangelizzazione).
Ragione e religione, sostiene Ratzinger, devono controllarsi a vicenda, censurando ciascuna pretese fondamentaliste che l’altra rischia di avanzare.
Tuttavia, la necessità di «un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione» sembra rimanere all’interno della tradizionale concezione scolastica per cui fides quaerens intellectum (ossia la fede cerca di comprendere).
Nelle parole del cardinale Ratzinger permane un non celato rammarico per la fine di un fondamento prepolitico del diritto naturale, per il misconoscimento della «luce divina» della ragione da parte della cultura secolare. Temi a lui cari che riprenderà in tutti questi otto anni del suo Pontificato.
Il diritto naturale rimane il ponte attraverso il quale dialogare con la cultura secolare – soprattutto a partire dalla teoria dei diritti umani, integrata, sostiene Ratzinger -, da una teoria dei doveri e dei limiti umani, ma il dialogo tanto con la cultura secolare quanto con le altre aree culturali (Ratzinger si riferisce a quella islamica, quella buddista e induista indiane, e secolare-laiche occidentali, oltre a quella cristiana che si è formata sull’ebraismo), di cui giustamente si sottolineano l’interna complessità e non omogeneità, dovrebbe poggiare sulla ricerca all’interno di ciascuna di esse di un fondamento comune, religioso e non, dei diritti umani.
La mossa del cardinale Ratzinger consiste nel cercare di mettere la cultura secolare «in minoranza» svelandone la corruzione intellettuale e dunque della ragione stessa, così da non nascondere – come oggi accade – il problema della secolarizzazione e scristianizzazione europea, in una prospettiva di culture comparate e di sociologia della religione, come di una deviazione pericolosa che necessita di una correzione della ragione permeata dalla cultura Cristiana che fece grande l’Europa.
Vogliamo concludere ricordando che, queste riflessioni dell’allora cardinale Ratzinger, tra fede e ragione, o come i rapporti tra giustizia, politica e carità, li ritroviamo nella sua prima enciclica da Pontefice, nella Deus Caritas est – vedi qui in particolare dal n.23 al n.30 – nella quale, Benedetto XVI, riprendere i medesimi appunti sviluppandoli ulteriormente.
E’ lui stesso ad annotarlo in una Lettera ai lettori di FC nel 2006 e nel presentare proprio la sua prima enciclica.
Scriveva così Benedetto XVI:
“La seconda domanda è la seguente: possiamo davvero amare il “prossimo”, che ci è estraneo o addirittura antipatico?
Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio. Se siamo amici di Cristo e in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama, benché spesso noi distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti. Se però la sua amicizia diventerà, a poco a poco, per noi importante e incisiva, allora cominceremo a voler bene a coloro ai quali lui vuole bene e che hanno bisogno del mio aiuto. Egli vuole che noi diventiamo amici dei suoi amici e noi lo possiamo se gli siamo interiormente vicini.
Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros, dell’essere amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare unione?
Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che la promessa più profonda dell’eros può maturare solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l’altro nel profondo, nella totalità di corpo e anima, di modo che da ultimo la felicità dell’altro diventi più importante della mia.
Allora non si vuole più solo prendere, ma donare e proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova sé stesso e diviene colmo di gioia. Nell’enciclica parlo di un percorso di purificazioni e maturazioni necessario perché la vera promessa dell’eros possa adempiersi. Il linguaggio della tradizione l’ha chiamato “educazione alla castità”, che, da ultimo, non significa altro che l’apprendimento dell’amore intero nella pazienza della crescita e della maturazione…
Nella seconda parte (dell’enciclica) si parla della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore.
Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?
Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo incompleto e insufficiente.
La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?
Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo ordinamento.
La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune, così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere.
La fede serve a purificare la ragione, perchè possa vedere e decidere correttamente. E’ compito allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo senso “senza fare essa stessa politica” la Chiesa partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.
Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia, l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla giustizia.
In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la Luce di Dio.” (2)
Suggeriamo di leggere anche un altro testo fondamentale dell’allora cardinale:
Ratzinger inquietudine tra fede e ragione nel cuore europeo “Libertà e religione nell’identità dell’Europa” e che troverete cliccando qui, area download.
Sia lodato Gesù Cristo +
Sempre sia lodato
NOTE
1) fonte originale: Idee per una convergenza «postsecolare» di Giancarlo Bosetti. II filosofo e il cardinale: confronto pubblico tra Jvirgen Habermas e Joseph Ratzinger, promosso dall’Accademia cattolica di Monaco di Baviera nel gennaio del 2004.
2) Lettera di Benedetto XVI ai lettori di Famiglia cristiana, numero 6/2006 del 1 febbraio 2006, per presentare l’enciclica Deus Caritas est