La Comunione e i divorziati-risposati

Dossier de Il Timone (n. 93, maggio 2010)

Pandemia divorzio

In Italia falliscono 300 matrimoni su 1000. In testa alla classifica le regioni del Nord e il Lazio. In Europa quasi un matrimonio su due finisce male. La risposta della Chiesa: accoglienza delle persone e verità della dottrina. L’Associazione Famiglie Separate Cristiane: «La separazione un rullo compressore, ma non si cura con l’aperturismo di certi preti»

Non c’è dubbio: se c’è un ambito in cui gli italiani manifestano un desiderio spontaneo di farsi “europei” – non sollecitati per una volta da direttive o leggi comunitarie – colmando il divario che li separa dagli altri Paesi della UE è quello della famiglia. Lo dicono le statistiche. Secondo i dati più aggiornati, quelli a disposizione del ministero della Giustizia e resi noti a febbraio dal Sole 24Ore, in Italia quasi 300 matrimoni ogni mille si sciolgono. Per la precisione, nel primo semestre del 2009 su 34.628 istanze di separazione consensuale e 17.676 di tipo giudiziale la classifica per regioni risulta così fatta: in cima il Piemonte/Valle d’Aosta, con 418 separazioni ogni mille nozze; subito dopo Friuli Venezia Giulia (396), Trentino Alto Adige (393), Liguria (392), Lazio (381), Lombardia (358) ed Emilia Romagna (373); a seguire Toscana (324), Marche (305), Veneto (302), Abruzzo (285), Umbria (258); infine il Sud e le isole, Molise (255), Sardegna (225), Sicilia (223), Puglia (217), Campania (189), Basilicata (138). Un tasso di fragilità che aumenta con geometrica precisione più si sale lungo la penisola e ci si avvicina dal Mediterraneo alle lande dell’Europa continentale, se si eccettuano i casi del Veneto, che si comporta come una regione di centro Italia, e del Lazio, che sovrasta i propri vicini e supera addirittura la Lombardia. Il dato medio italiano vede quindi 298 richieste di separazione (e 234 richieste di divorzio) ogni mille matrimoni. Numeri ancora lontani da quelli delle ultime rilevazioni di Eurostat – secondo cui a fronte di 2 milioni e 400mila matrimoni celebrati nel 2007 nei Paesi della UE, si sono registrate un milione di separazioni, una ogni 2,3 matrimoni – ma che puntano in quella direzione. Questo, in estrema sintesi, è anche il quadro che fa da sfondo a un’attività pastorale della Chiesa tra le più complesse e impegnative. Quella con le famiglie divise, appunto, con le coppie che scoppiano. Con cattolici che si trovano lacerati tra la consapevolezza dell’indissolubilità del loro matrimonio in frantumi e il desiderio di un nuovo legame, o di battezzati chi riscoprono Dio e la fede trovandosi in una situazione irregolare. Con famiglie allargate che devono fare i conti anche con figli disorientati dal trovarsi di fronte nuovi “papà” e nuove “mamme” (in Italia in un solo anno, nel 2007, i figli coinvolti in separazioni e divorzi sono stati 66.406, più di mezzo milione andando negli ultimi dieci anni).

Ernesto Emanuele, milanese, è stato uno dei pionieri in questo campo. Sua l’idea di fondare nel 1998 l’associazione “Famiglie Separate Cristiane”, che ha iniziato i lavori nel 2000 dopo aver ottenuto il placet della CEI, e che si rivolge a «donne e uomini che vivono la separazione o il divorzio del loro matrimonio cattolico, ma anche persone che hanno subito una sentenza di nullità o il naufragio di un’unione civile o di una convivenza, e vogliono condividere la loro sofferenza per renderla feconda». Già, sofferenza. È da qui, spiega Emanuele, che bisogna sempre partire per affrontare correttamente il problema: «Per prima cosa, la cura delle ferite. Il senso di fallimento innanzi tutto. Ma anche ferite di tipo materiale: il problema della casa, dell’avvocato, dell’assegno familiare… La separazione è un po’ come un rullo compressore, dietro i sassi sono tutti stirati, davanti sono tutti increspati. Un’angoscia. Un passaggio sotto la croce che parifica tutti, buoni e cattivi, credenti e non credenti». Il primo compito di chi cerca il bene di queste persone è quindi quello di farsi prossimo a loro: «Noi lo chiamiamo il vangelo del grembiule: stare accanto a chi vive queste situazioni. Come ha fatto Gesù con la Samaritana, rimanendo a parlare con lei, ascoltandola. Io mi sono trovato recentemente con una coppia di amici sfasciata: sono andato a casa loro, ho suonato il campanello e ho detto: “se volete aprirmi bene, se dite di farmi i fatti miei va bene lo stesso. Però sappiate che per voi io ci sono in ogni momento e che vi sono vicino”. Sembra poco, ma non è così. Questa carità attiva, questo visitare gli ammalati è anche il modo migliore per parlare di Dio, anche senza nominarlo. Per iniziare a riattivare un rapporto con il Signore».

Di associazioni e di esperienze ecclesiali che si dedicano al mondo della separazione – realtà magari già attive da tempo e versate nella pastorale “classica” della famiglia – ne sono spuntate molte negli anni, un po’ ovunque. Dalla Casa della Tenerezza a Perugia, all’Opera Madonnina del Grappa a Roma, all’Associazione Oasi Cana a Palermo, alla comunità Famiglia Piccola Chiesa nelle diocesi di Foggia e Otranto, a Retrouvaille, un programma attivo ormai in diverse regioni, nato in Canada alla fine degli anni ’70 per l’aiuto delle coppie in crisi. E così decine di gruppi di preghiera, insieme alle iniziative delle diocesi italiane. Un pullulare di offerte, per così dire, per le quali «non c’è ancora un vero e proprio coordinamento a livello nazionale» dice don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio nazionale di pastorale familiare della CEI, «se non in alcune indicazioni di fondo, come il monito che è venuto dal convegno nazionale di Verona, o il direttorio familiare CEI e il magistero degli ultimi due Papi. C’è chi sta investendo molto in questo campo, penso alla diocesi di Milano o di Albano nel Lazio, ma anche al sud: recentemente è stato organizzato a Cosenza un momento specifico per le persone separate e divorziate. C’è ormai una sensibilità diffusa, che trova una sua espressione nelle attività di base e nella creatività dei laici». Il tutto, ricorda don Gentili, deve fare leva comunque su due elementi: «Quello dell’accoglienza delle persone e della verità della dottrina. Bisogna far capire ai separati o ai divorziati che non sono fuori dalla Chiesa. Anche se non possono fare la comunione bisogna aiutarli a cogliere la presenza di Gesù nella parola di Dio, nella vicinanza dei fratelli, nella Chiesa stessa, che, come dice la Lumen Gentium, è sacramento di salvezza. Tenendo ferma la verità sull’indissolubilità del sacramento del matrimonio e su ciò che questo comporta. L’esperienza insegna che là dove c’è questa chiarezza ci sono anche i frutti maggiori».

L’equilibrio tra questi due poli non si trova però facilmente. «Manca ancora un’accoglienza vera dei separati/divorziati nelle comunità ecclesiali», commenta Ernesto Emanuele, «e dove è presente, spesso è sbilanciata in senso opposto, in un aperturismo verso le situazioni irregolari che finisce per mettere in imbarazzo coloro che, nella separazione, vogliono vivere la fedeltà al proprio coniuge, anche se costui se ne è andato o si è risposato: i separati fedeli».

Una scelta di donazione e di coerenza con la propria fede, questa, che – spiega sempre Emanuele, direttore pure di un’associazione specificamente dedicata a queste persone – sembra scomoda per non pochi pastori: «Alcuni nella Chiesa non sanno gestire i separati fedeli. C’è un noto monsignore familiarista, che scrive molto su questi argomenti, che ha messo per iscritto tutta la casistica: il separato che ha una relazione ma non convive, il separato che convive, il separato che si è risposato, e così via. Mancava un solo caso: il separato che ha fatto la scelta della fedeltà.

La prima volta che ci siamo riuniti come associazione è venuta una signora emiliana sui 45 anni, una bella donna, che ha raccontato di essersi separata a 23. E che il consiglio che gli diede il suo parroco fu molto semplice: “Senti, la vita è lunga, tu sei giovane e anche bella, trovati un altro uomo…”. Poi c’è il giudice del tribunale ecclesiatico che dice: “ma sì, signora, si rifaccia la vita con un altro…”. Noi l’abbiamo scritto nei nostri statuti: bisogna dare la speranza alla Chiesa che la fedeltà al sacramento del matrimonio è possibile anche quando l’amore non è più ricambiato. Perché questa speranza, spiace dirlo, oggi non c’è. Anche fra i preti».

Marco Lora, direttore del Forum delle Associazioni familiari e docente di spiritualità coniugale al Teresianum di Roma, sintetizza la situazione così: «Si assiste alla sfiducia di una parte della Chiesa nel sacramento del matrimonio (vedi i fautori politici di Di.Co., CUS etc.) e tale sfiducia ha effetti diretti sia sulla pastorale familiare, sia su quella dei separati, dei divorziati, delle situazioni irregolari. Ma la questione è più profonda: la poca stima nel matrimonio diventa poca stima della Chiesa, non solo di quel settore specifico che è la pastorale familiare. Il problema, come già accade per la contraccezione a partire da Paolo VI, è di carattere ecclesiale: di fiducia e di obbedienza al Magistero.

Nel matrimonio si tocca addirittura il livello stesso della natura sacramentale della Chiesa, che – come ben ricorda tutta la Tradizione, la Liturgia, il Concilio Vaticano II – è “Sposa”.

La via d’uscita da questo impoverimento è un percorso con due riferimenti forti: il nesso tra antropologia e teologia, chiarissimo nella prima parte della Enciclica Deus Caritas est, di Benedetto XVI, che prosegue in perfetta coerenza la fiducia nell’amore di Giovanni Paolo II, e quanto indicato nel Direttorio di Pastorale familiare per la Chiesa in Italia, dove i vescovi tracciano un percorso teologico-pastorale chiaro: nell’intreccio tra progetto di Dio, bellezza dell’amore umano e risposta degli uomini. Allora anche le situazioni più critiche trovano la loro collocazione e la loro accoglienza. E la Chiesa torna a far vedere il volto radioso di sposa e di madre».

ANDREA GALLI


Nel segno della speranza

La Chiesa e i divorziati risposati: molti ne parlano ma pochi conoscono la vera dottrina cattolica sull’argomento. “Il Timone” ristabilisce in questo articolo tutta la verità, senza scorciatoie. Ma anche senza disperazione.

La posizione della Chiesa nei confronti dei fedeli divorziati è molto chiara. Ma quanti la conoscono veramente? Basta ascoltare i discorsi della gente per accorgersi che equivoci, fraintendimenti ed errori clamorosi sono assai diffusi: si confondono situazioni oggettivamente molto diverse tra loro, in un tripudio di luoghi comuni e di nozioni raccogliticce orecchiate dalla Tv o spigolate su qualche giornale sfogliato dal parrucchiere. Questa situazione dipende certamente da una diffusa superficialità in materia di fede e di morale, alla quale non sono estranei gli stessi credenti. Ma è anche conseguenza di colpevoli omissioni da parte di coloro che nella Chiesa hanno il compito di insegnare e di “pascere” il gregge affidato da Gesù. Non è raro infatti sentirsi dire che “queste cose ormai si sanno”, e che – per ragioni pastorali, per carità, per rispetto umano – “è meglio non parlare di queste cose nelle prediche o nella catechesi”. Il risultato è che i fedeli in realtà “queste cose non le sanno”, o le sanno in modo approssimativo, ignorando le precise indicazioni del Magistero e soprattutto le ragioni che stanno alla base di questo rigoroso insegnamento. Il fatto è reso ancor più grave dalla enorme diffusione del divorzio nella nostra società, al punto che quasi tutti ormai hanno almeno un parente o un amico o un collega che vive un fallimento matrimoniale e che, come si usa dire, “si rifà una vita” con un altro partner. È dunque ancora più urgente sapere che cosa la Chiesa dice esattamente, anche per poter fare davvero del bene a coloro che si trovano in questa profonda sofferenza umana e spirituale. Anche per questi fratelli, infatti, Cristo ha parole di speranza. Anche per loro il bene proposto dal Vangelo è possibile.

Luoghi comuni e mala fede

La gente sa in maniera assai vaga che se sei divorziato non puoi ricevere la Comunione. Così capita che ci siano dei divorziati erroneamente convinti di essere colpiti da questa preclusione, mentre in realtà il divieto si riferisce ai divorziati risposati, cioè a coloro che hanno contratto matrimonio civile dopo aver celebrato un precedente matrimonio valido. E ancora: la maggior parte delle persone non sa che anche ai divorziati risposati la Chiesa offre una strada per ritornare alla Comunione. Di più: in alcune parrocchie si va diffondendo l’idea che ogni divorziato risposato decide in coscienza se vuole fare la Comunione, e che nessuno, tanto meno il sacerdote, può interferire in questa scelta. Altri pensano che i divorziati risposati siano degli scomunicati. E in generale si ritiene che la Chiesa escluda questi fedeli dall’eucarestia con un intento punitivo. Come vedremo in questo articolo, tutti questi luoghi comuni sono davvero molto lontani dalla verità. Sono lontani dal vero anche quei cattolici che inveiscono contro la Chiesa, colpevole di “discriminare” i fedeli divorziati. Un atteggiamento di ribellione davvero singolare, soprattutto se assunto da coloro che magari per anni hanno snobbato la vita cristiana, la Messa domenicale, la confessione, le devozioni, e che improvvisamente “riscoprono” una sospetta “fame eucaristica” proprio nel momento in cui – per loro libera scelta – si sono messi in una condizione irregolare.

L’atteggiamento della Chiesa

I divorziati risposati possono pensare che la Chiesa provi nei loro confronti disprezzo. Nulla di più falso: i pastori sono chiamati ad accogliere questi fedeli «con carità e amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio». Sono le parole testuali dell’autorevolissima Congregazione per la Dottrina della Fede, che nel 1994 ha inviato a tutti i vescovi del mondo un documento sulla materia. La Congregazione – allora guidata dal Cardinal Ratzinger – aggiunge che i pastori devono suggerire a questi fedeli «con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione». In queste parole c’è tutto il Magistero: la carità di Cristo, la maternità della Chiesa, la possibilità di lasciare alla spalle il male per fare il bene.

Il giudizio della Chiesa

Comprendere non significa però giustificare. La misericordia è autentica solo quando procede insieme alla verità. Ed è per questo che vescovi e sacerdoti hanno il dovere (non quindi una generica possibilità discrezionale) di richiamare ai fedeli divorziati la dottrina della Chiesa, in particolare sulla ricezione dell’Eucarestia. Qual è questa dottrina? Eccola: «Fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura questa situazione».

Chi decide?

Secondo qualche sacerdote, la disciplina della Chiesa su questa materia si risolverebbe in una classica questione di coscienza. Poiché valutare la giusta disposizione d’animo a ricevere l’eucarestia spetta normalmente al singolo fedele, anche in questo caso sarebbe il divorziato risposato a dover decidere che fare. Con la conseguenza pratica che, sempre secondo taluni sacerdoti, «se un fedele si presenta a fare la comunione, io ho il dovere di dargliela in ogni caso, anche se so che è un divorziato risposato». Questa posizione non è conforme all’insegnamento della Chiesa, che impone un “grave dovere a tutti i pastori”. Qual è questo obbligo grave? Quando qualcuno, convivendo more uxorio con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, giudicasse possibile ricevere la Comunione, allora vescovi e sacerdoti – in particolare nel ruolo di confessori – «hanno il grave dovere di ammonire che tale giudizio è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa». Questa dottrina dovrà essere ricordata «anche nell’insegnamento a tutti i fedeli». Dunque ai sacerdoti è richiesta una specifica vigilanza, rispetto ad altri peccati, e la ragione è evidente: il matrimonio è essenzialmente una realtà pubblica.

Nemmeno in certi casi?

Secondo alcuni, in svariati casi bisognerebbe eliminare il divieto di accesso alla Comunione. Tali situazioni particolari sono state evocate dallo stesso documento della Congregazione per la Dottrina della Fede:

a. Quando il divorziato risposato era stato abbandonato ingiustamente dal coniuge, pur cercando in ogni modo di salvare il matrimonio;
b. Quando il divorziato risposato è convinto in coscienza che il precedente matrimonio sia nullo, pur non potendolo dimostrare nel foro esterno;
c. Quando il divorziato risposato si è sottoposto a un lungo cammino di penitenza, ed è assistito da un sacerdote prudente ed esperto.

Nel n. 84 della Familiaris Consortio Giovanni Paolo II esorta i pastori a tenere in considerazione queste situazioni, distinguendole da atteggiamenti colpevoli. D’altra parte, il n. 4 del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede usa parole inequivocabili, che non lasciano scampo a interpretazioni lassiste. Anche in questi casi molto particolari, l’accesso alla Comunione non può essere consentito.

Esiste una via di uscita?

A questo punto, i divorziati risposati potrebbero sembrare dei condannati a una sorta di “ergastolo morale”, una gabbia senza scampo. Ma non è così. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede è anche qui molto preciso: «Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l’acceso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall’assoluzione sacramentale». E a chi può essere data tale assoluzione? «Solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». In concreto ciò significa che i due hanno l’obbligo di separarsi. Ma qualora i due non possono più separarsi, perché ad esempio devono educare i figli, assumeranno «l’obbligo di vivere in piena continenza, astenendosi dagli atti propri dei coniugi». Quindi, due divorziati che vivano “come fratello e sorella” possono accedere alla Comunione «fermo restando l’obbligo di evitare lo scandalo», ad esempio ricevendo l’eucarestia in una chiesa diversa da quella della propria comunità.

La Chiesa potrà cambiare la sua posizione?

No. La prassi di escludere i divorziati risposati dalla Comunione è costante e universale, ed è fondata sulla Sacra Scrittura. Questa prassi è vincolante, e «non può essere modificata in base alle diverse situazioni», poiché «agendo in tal modo la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità».

Due scomunicati?

I divorziati risposati non sono affatto degli “scomunicati”. Questo significa che non sono colpiti da una sanzione grave da parte della Chiesa – come avviene ad esempio nei confronti di chi ha commesso il peccato di aborto volontario – e significa anche che essi devono essere incoraggiati a partecipare alla vita cristiana. In particolare, la Chiesa li incoraggia a non abbandonare la pratica della Messa, anche quando fossero impossibilitati a ricevere la Comunione, perché questa loro partecipazione al sacrificio di Cristo non è senza valore e senza significato. La Congregazione per la Dottrina della Fede nel documento del 1994 li esorta «ad approfondire il valore della comunione spirituale», a pregare, a educare i figli nella fede cristiana, a impegnarsi in opere di carità.

Segnali di speranza

Non ci sono dubbi: un cattolico sincero, trovandosi nella condizione di divorziato risposato, vive nella sua coscienza una sofferenza molto profonda. Le motivazioni umane che lo hanno spinto verso certe decisioni, la forza coinvolgente degli affetti umani, le conseguenze talvolta irrimediabili degli errori, lo avviluppano da ogni parte. È proprio in questa dura prova che il divorziato risposato dovrà resistere ad alcune tentazioni: ribellarsi alla Chiesa; abbandonare la vita cristiana; perdere ogni speranza. Per quanto grave sia la nostra colpa, per quanto ardua sia la strada da percorrere, con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Realmente tutto.

MARIO PALMARO


Né comunione né scomunica

Monsignor Luigi Negri spiega: il primo dovere della Chiesa è difendere i diritti di Dio, mentre non esiste per nessuno un “diritto ai sacramenti”. I divorziati risposati esclusi dalla vita cristiana? È una menzogna frutto della mentalità laicista e terroristica.

I giornali lo cercano spesso perché, in genere, le sue parole sono piuttosto lontane dalle maniere moderate e clericali tipiche di tanti altri suoi colleghi e – dunque – «fanno notizia». In effetti a volte le dichiarazioni di monsignor Luigi Negri – teologo e vescovo di San Marino Montefeltro – risultano spigolose, persino rudi; ma di sicuro hanno il pregio di una chiarezza quasi didascalica. E riservano quasi sempre qualche sorpresa anche agli habitués.

Monsignor Negri, cominciamo subito dall’obiezione più comune, fors’anche qualunquista ma con una certa presa pure tra i cattolici: perché tanta intransigenza della Chiesa verso i divorziati non sposati, tanto da essere ritenuta più severa nei loro riguardi che verso altre categorie di peccatori, per esempio i ladri o i disonesti?

Dato e non concesso che sia vera la seconda parte della domanda, e cioè che la Chiesa non usi una bilancia corretta per la gravità dei peccati, non si tratta tanto di intransigenza verso i divorziati, quanto di un dovere nei confronti di Dio. La prima difesa che la Chiesa deve mettere in pratica è infatti quella dei diritti di Dio. La fedeltà e l’unità degli sposi si radicano nella fedeltà di Dio, il matrimonio è un sacramento di Cristo e la Chiesa deve rispettare quanto le è affidato non perché venga manipolato, ma perché si resti il più possibile fedeli al messaggio originario. Bisogna poi dire una cosa molto chiara: sostenere che i divorziati risposati sono esclusi dalla vita cristiana è sbagliato, è il frutto di una mentalità laicista e terroristica; ogni fedele vive nella Chiesa secondo la sua capacità e non è detto che la partecipazione alla vita ecclesiale si debba livellare sulla pratica dell’eucaristia: c’è tutta una gradualità di posizioni, che rispondono a casi in cui ci si può trovare anche per propria volontà. Non possiamo dunque ragionare solo nell’ottica delle condizioni individuali, in quanto c’è pure un coinvolgimento della libertà personale nella scelta di mettersi in una certa situazione; e ognuno deve assumersi le responsabilità delle decisioni che prende. Verso i divorziati che non passano a nuove nozze, difatti, la Chiesa si è ben guardata dal praticare una cosiddetta intransigenza.

Altra accusa ricorrente: il processo di annullamento dei matrimoni cattolici costa molto, è lungo, ottiene esito positivo solo per chi ha conoscenze altolocate e in fondo è solo un “trucchetto” per concedere il divorzio ai soliti privilegiati … Come smentire?

Queste affermazioni fanno parte di una classica “leggenda nera” che va decisamente smontata. La Chiesa è estremamente garantista, conduce processi in cui tutti i fattori vengono tenuti presenti, senza pregiudizio verso nessuna parte. La questione economica poi non si pone proprio: addirittura, a volte è la diocesi che offre il patrocinio d’ufficio e si può fare tutto senza spendere praticamente niente. Il problema è semmai un altro: anche a detta dei due ultimi Papi, nei loro discorsi ai tribunali ecclesiastici, si verifica una certa disinvoltura nella concessione delle nullità matrimoniali. Credo in effetti che ci sia il pericolo che la Chiesa ceda qualche volta con una certa facilità a pressioni massmediatiche o alla mentalità comune. Ma questo va esattamente in senso opposto all’obiezione da cui siamo partiti.

A proposito del divieto di comunicarsi per i divorziati risposati, lei ha scritto: «I sacramenti non sono un diritto acquisito. Nella mentalità di tanti cristiani, a volte, si insinua invece un’idea di rivendicazione sindacale». Certo, si può vivere ed essere cristiani anche senza avere l’eucaristia; però è bello che si aspiri al massimo della comunione, no?

È vero che l’eucaristia è il culmine della vita cristiana. Ma, se mi sono messo consapevolmente e liberamente nelle condizioni di non arrivare su tale vetta, non posso pretendere di farlo a tutti i costi… Nessuno ha diritto a nessun sacramento, tutti sono frutto della grazia di Cristo. E la privazione della pratica sacramentale non è come ad esempio la scomunica latae sententiae per chi fa l’aborto: non esclude la possibilità di fare un’esperienza di Chiesa, pur senza giungere al vertice. D’altra parte nessuno ha costretto questi fratelli a divorziare, tanto meno la Chiesa. E arrivare al punto massimo della liturgia non è un assoluto. Bisogna saper tradurre questo desiderio in preghiera e in sacrificio: la comunione di desiderio, come si diceva una volta.

Dunque per i divorziati risposati non c’è, diciamo così, alcuna scorciatoia.

Devono rimuovere la condizione di irregolarità in cui si sono messi: la nuova situazione affettiva, la cosiddetta nuova famiglia, il matrimonio civile che rende impossibile la partecipazione piena alla vita alla Chiesa; ma non da oggi: da sempre! E dunque la verità è che, in ogni caso, si deve mettere in conto un sacrificio. Per il resto, ribadisco che nella vita della Chiesa esiste una bellissima articolazione di carismi e di possibilità: chi impedisce, per esempio, ai divorziati risposati di vivere in ogni caso un’intensa vita di carità o di preghiera?

ROBERTO BERETTA


Un divieto benedetto

La Chiesa è “costretta” a escludere i divorziati risposati dalla Comunione e a negare loro l’assoluzione. Lo impongono ragioni teologiche, ma anche pastorali: la “nostalgia” per l’Eucarestia è una spinta potente alla conversione di vita.

L’attacco mediatico contro la Chiesa cattolica ci appare di questi tempi particolarmente feroce, mentre cavalca strumentalmente la “questione pedofilia”. Ma non si tratta certo di un fatto nuovo: il Magistero della Chiesa è sempre sotto attacco, e in special modo sui temi della sessualità, della famiglia, della vita.

La Chiesa discrimina?

Uno dei temi ricorrenti che, dagli anni Settanta in poi, ad intervalli regolari viene riesumato come segno inequivocabile dell’arretratezza culturale della Chiesa e dell’indole discriminatoria della sua morale, è la questione dei divorziati risposati, a cui la Chiesa nega l’assoluzione sacramentale e la Comunione eucaristica. La posizione affermata dai cattolici (quelli veri, naturalmente, cioè quelli che prendono sul serio il Vangelo e il Papa) appare insostenibile ai nostri contemporanei: ad essa, infatti, si ribella sia il “politicamente corretto” sia l’“ecclesiasticamente corretto”. Nella società, infatti, domina una visione culturale pervertita da tre secoli di illuminismo e di positivismo, e una visione politica all’insegna della “statolatria”: in questo contesto è del tutto inconcepibile che una pratica resa legittima da una legge dello Stato possa essere riprovata e fatta oggetto di sanzioni da parte di una qualunque altra realtà, Chiesa compresa. Ma anche all’interno del nostro ambiente non mancano le difficoltà: una buona parte del nostro mondo, infatti, sente il bisogno di archiviare ciò che viene giudicato come intolleranza e rigorismo del passato; ha abbracciato entusiasticamente il nuovo clima di “dialogo” con il mondo, con il rischio tutt’altro che remoto di sciogliersi in esso; e infine concepisce l’ecumenismo come un accantonare tutto ciò che non è condiviso dai “fratelli separati”: è evidente che in quest’ottica non si giustifica il fatto che la dottrina cattolica neghi, in nome del Vangelo, ciò che ortodossi, anglicani e protestanti accettano, cioè la legittimità del divorzio e l’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti: non è forse un’esplicita accusa a tutti costoro di aver tradito il Vangelo? Ecco allora che molti cattolici, chierici e laici, sono diventati, anche su questo, “adulti”, e predicano e praticano tutt’altro rispetto all’insegnamento della Chiesa.

Un insegnamento inevitabile

Ma nonostante l’ostilità che questo produce, la Chiesa non può che continuare a insegnare con serena fermezza che il fedele cattolico, il quale, dopo essersi unito validamente in matrimonio mediante il sacramento nuziale, si separa, di diritto o di fatto, dal proprio legittimo coniuge e contrae un nuovo vincolo stabile, si trova in una condizione oggettiva di peccato e di conseguenza, finché perdura tale condizione, non può ricevere l’assoluzione sacramentale e non può accostarsi alla Comunione eucaristica. La condizione di partenza è quella di un matrimonio validamente celebrato; in questa condizione interviene una separazione di diritto, cioè il divorzio, o di fatto, quando cessano la convivenza e i reciproci obblighi coniugali e familiari; ad essa segue un nuovo rapporto stabile, cioè un matrimonio civile o una convivenza: la sola separazione, infatti, non è di per sé necessariamente impedimento a ricevere i sacramenti. La nuova relazione è uno stato oggettivamente disordinato, cioè difforme dal progetto di Dio sulla sessualità umana e sul matrimonio: chi si trova in tale stato non può ricevere i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, sino a quando non venga rimosso l’impedimento. Ora ci domandiamo: perché questa proibizione? Forse perché la Chiesa non capisce i problemi delle persone che vivono tale situazione? Forse benedetto che essa manca di compassione verso i suoi figli più provati? Quante volte abbiamo sentito queste obiezioni… Ma non è così! I motivi sono invece profondi e gravi, e sono di ordine dottrinale e di ordine pastorale. Anzitutto c’è una fondamentale ragione teologica: colui che vive stabilmente in una condizione moralmente disordinata e in essa persevera non può ricevere l’assoluzione sacramentale, poiché questa suppone il pentimento per i peccati. E il pentimento, per essere vero, deve comprendere il proposito di cambiare vita, proposito che non ci può essere in colui che intende perseverare nella propria condizione peccaminosa. Allo stesso modo, egli non può ricevere il sacramento dell’Eucaristia, poiché la Comunione sacramentale presuppone e comporta la comunione della fede, con Dio e con la Chiesa, cioè l’impegno a conformare il pensiero e la vita a ciò che Dio ci ha rivelato e, mediante la Chiesa, ci fa conoscere, e in particolare, in questo caso, il suo progetto sulla sessualità umana e sul matrimonio. Il credente, infatti, si fida più di Dio che di se stesso, sa che il proprio bene e la propria felicità stanno a cuore più a Dio che a lui stesso, e quindi si impegna a credere e vivere ciò che Dio afferma essere vero, giusto, santo, a preferenza di ciò che può apparire conveniente ai propri occhi. Se colui che si trova in una condizione oggettiva di disordine morale ricevesse l’assoluzione e la Comunione compirebbe un atto in contraddizione con ciò che vive, e non solo non ne avrebbe alcun frutto spirituale, ma la profanazione di questi doni soprannaturali non potrebbe che produrre una esplosione di quella contraddizione che già segna il suo rapporto con Dio, con se stesso e con il prossimo. In secondo luogo, vi è poi una ragione pastorale: proprio la crescente nostalgia per il sacramento del perdono e dell’Eucaristia può essere il più forte stimolo ad imprimere una svolta di conversione e di salvezza ad una vita adagiata in una situazione di peccato. Dunque le esigenze che la Chiesa pone davanti ai suoi figli sono forti e possono apparire dure, ma in realtà sono un atto di verità e di misericordia: di verità, perché esprimono e realizzano la verità del rapporto dell’uomo con Dio, con se stesso e con il prossimo; di misericordia, perché spingendo l’uomo con pazienza e fermezza ad accogliere e vivere il progetto di Dio, con ciò stesso lo incamminano verso il vero bene e la piena felicità, che di quel progetto è lo scopo ultimo: il progetto di Dio, infatti, rispecchia le esigenze intrinseche del vero bene dell’uomo, e solo vivendo tali esigenze l’uomo viene liberato dai surrogati che danno ebbrezza immediata e poi aprono un baratro di inquietudine e disperazione.

Alcune obiezioni da sfatare

A conclusione, non ci resta che affrontare brevemente alcune ricorrenti obiezioni. Perché i divorziati risposati non possono accedere ai sacramenti, mentre lo possono fare coloro che commettono peccati che per la dottrina stessa della Chiesa sono per lo meno altrettanto gravi? Occorre precisare, a partire da ciò che già dicevamo, la differenza essenziale tra un atto peccaminoso e una situazione permanente peccaminosa: l’atto peccaminoso, di cui si sia debitamente pentiti, può essere confessato e assolto, e conseguentemente non essere più di ostacolo per accedere alla Comunione; la situazione peccaminosa invece, come si diceva, è uno stato di vita da cui convertirsi come condizione previa all’accesso ai sacramenti, altrimenti inefficaci. L’impossibilità di ricevere i sacramenti non è forse una punizione ingiusta per quel coniuge che viene senza sua colpa abbandonato, magari ancora giovane, e che quindi desidera “rifarsi una vita”? I sacramenti non sono il premio per i perfetti, altrimenti nessuno li meriterebbe; e di conseguenza la privazione di essi non è in alcun senso una punizione. Semplicemente esistono condizioni oggettive e soggettive, da cui non si deve prescindere, per una loro adeguata e fruttuosa ricezione. La Chiesa afferma di avere particolare sollecitudine per i lontani, ma con questa norma, in una società come la nostra in cui tante sono le famiglie irregolari, non fornisce forse loro il maggior incentivo a restare lontane dalla fede? Ciò che è in questione non è una norma – non stiamo parlando di un divieto di sosta! – ma un’esigenza intrinseca della vita dell’uomo e del suo rapporto con Dio: tutelare la santità di questo rapporto è il migliore servizio al bene e alla felicità dell’uomo, della famiglia e della società. E questa tutela si esplica in una proposta franca ed integrale del Vangelo e delle sue esigenze; al contrario snaturare il Vangelo per “adattarlo” alla mentalità dominante significa privare l’uomo di una proposta che lo guida alla vera libertà e all’unica possibile felicità, per questa vita e per l’eternità.

DON CLAUDIO CRESCIMANNO


Divorzio “ecumenico”

Per gli ortodossi ci si può sposare tre volte; per i protestanti il matrimonio non è un sacramento; per gli anglicani il divorzio non impedisce le nozze religiose. Insomma: fuori dalla Chiesa cattolica, le confessioni cristiane tollerano, benedicono, regolamentano il divorzio. Con il risultato che il matrimonio non c’è più.

Uno sguardo attento extra Ecclesiam mostra chiaramente che, anche a proposito dei divorziati risposati, l’insegnamento cattolico è solidamente unico. Su tale questione, fuori dalla Chiesa di Roma, si riscontrano posizioni molto diverse, alcune decisamente alternative, ma comunque tutte ascrivibili a molteplici gradazioni di uno stesso assunto: che il matrimonio dopo il divorzio è un problema che riguarda solo gli esseri umani. Un problema sicuramente più acuto e connesso alla natura sacramentale tra gli ortodossi; meno, molto meno, fra le migliaia di varianti del protestantesimo.

Nel mondo ortodosso si parla dell’eternità sacramentale del matrimonio, ma poi è permesso, con un rito penitenziale, di sposarsi una seconda e una terza volta. In questi casi, non si tratta di un sacramento vero e proprio, ma di benedizioni, e gli sposi non possono accedere all’eucarestia per due o tre anni, a seconda che si tratti di seconde o di terze nozze, e poi la Comunione è concessa “in economia”, per una misericordia. Questa pratica, sempre più diffusa, è comunque andata a detrimento dell’indissolubilità, vera sacra mentalità del matrimonio.

Per quanto riguarda i protestanti, per i quali il matrimonio non è un sacramento, la situazione è diversa e, a volerla riassumere in breve, bisogna affidarsi alla cronaca un po’ brutale del giornalismo di oggigiorno. «Margot Kaessmann è il nuovo “papa” della chiesa evangelica tedesca. È la prima volta nella storia del Paese che una donna ricopre questo incarico» hanno titolato recentemente i giornali. E poi, persino i più laici, hanno aggiunto con un certo stupore che «la nuova leader religiosa ha alle spalle un divorzio: il che non ha impedito la sua elezione, perché i protestanti consentono la separazione». Dal canto suo, la signora Kaessmann, a proposito del suo divorzio, ha spiegato: «Il dono del matrimonio mi è stato tolto dopo 26 anni, e ho divorziato. Non volevo mantenere un matrimonio di facciata, ma vivere in modo sincero». Inevitabile conseguenza del principio secondo cui le nozze sono, prima di tutto, una scelta personale dei due sposi che viene sancita dal matrimonio civile al quale il pastore, per così dire, aggiunge una benedizione.

A proposito degli anglicani, bisogna fare zapping tra libri di storia e tabloid. In seguito al divorzio dalla legittima moglie Caterina per sposare Anna Bolena, il sovrano inglese Enrico VIII fu scomunicato dal Papa e, nel 1534, reagì facendo approvare al Parlamento un atto che nominava lui e i suoi successori capi religiosi del loro popolo: nasceva la confessione anglicana, mentre la Chiesa cattolica si arricchiva di due santi, Tommaso Moro e John Fisher, che, in ossequio e in obbedienza al Papa, si opposero fino al martirio al volere del re. Date le premesse, nel mondo anglicano si andarono affermando una concezione e una pratica del matrimonio e del divorzio sempre più simile a quella protestante. Tanto che l’attuale erede al trono del Regno Unito, il principe di Galles, conosciuto dalle cronache come Carlo d’Inghilterra, ha sposato in seconde nozze, con cerimonia civile e religiosa, la divorziata duchessa Camilla di Cornovaglia.

La conclusione che si trae da tutto questo è che intra Ecclesiam si crede, si pensa e si agisce in maniera radicalmente diversa da quanto si faccia extra Ecclesiam. La Chiesa cattolica può solo continuare a insegnare che ritenere di poter accedere all’eucarestia anche da divorziati risposati corrisponde a negare il sacramento del matrimonio. Ma questo lo può dire solo chi non subordini la realtà e l’efficacia del sacramento al permanere di elementi che dipendono dal giudizio degli uomini. Come sempre, la dottrina cattolica ha saputo trovare e difendere il corretto rapporto tra Grazia e natura, tra il disegno amoroso del Creatore e la vita delle creature, che si traduce nel bene naturale e in quello soprannaturale dell’uomo. E non pare proprio che là dove si agita il vessillo della misericordia contro una pretesa intransigenza romana gli uomini siano più felici. Anzi.

ALESSANDRO GNOCCHI