Dal 20 dicembre al 1° gennaio
20 dicembre — L’icona natalizia della Chiesa ortodossa ha ricevuto la sua configurazione sostanziale già nel IV secolo, e in essa è abbracciato tutto il mistero del Natale. Essa raffigura la profonda correlazione che esiste tra Natale e Pasqua, tra mangiatoia e croce, l’accordo tra Antico e Nuovo Testamento e il convenire di cielo e terra nella lode degli angeli e nel servizio dei pastori. Su di essa, ogni figura acquista un suo profondo e riposto significato, che si dischiude solo alla forza di penetrazione dello sguardo contemplativo. È del tutto caratteristica in quest’icona la collocazione e la funzione assegnata a san Giuseppe. Egli siede in disparte, immerso in una profonda meditazione. Davanti a lui, in abiti da pastore, sta il Tentatore che gli rivolge la parola dicendo, secondo i testi della liturgia: «Come il tuo bastone non può mettere foglie, come un vecchio non può più diventar padre, così anche una vergine non può partorire». La liturgia aggiunge: nel cuore di Giuseppe infuriava una tempesta di pensieri, egli era confuso in sé, ma, illuminato dallo Spirito Santo, Giuseppe canta: «Alleluja». Nella figura di san Giuseppe l’icona rappresenta così un dramma che sempre ritorna, il nostro dramma. È sempre la stessa questione. Sempre da capo il Tentatore ci dice: esiste solo il mondo visibile, non si dà affatto alcuna incarnazione di Dio e nemmeno alcuna nascita verginale. Questa è la negazione del fatto che Dio ci conosca, ci ami e sia capace di agire davvero nel mondo: in fondo in fondo, è la negazione della gloria di Dio. Ed è la tentazione del nostro tempo, e si fa avanti con tante motivazioni assennate e all’apparenza del tutto moderne, da sembrarci irresistibile. E tuttavia è sempre la solita antica tentazione. Preghiamo dunque il buon Dio che mandi anche nei nostri cuori la luce dello Spirito Santo. Preghiamolo che doni anche a noi di uscire dall’ostinazione dei nostri sensi, di vedere la sua luce piena di gioia e di cantare «Alleluja! Cristo è veramente nato, Dio si è fatto uomo». Preghiamolo affinché si avveri anche in noi la parola della liturgia ortodossa: «Noi ti offriamo una Madre Vergine. E ti offriamo anche noi stessi, più che un dono in denaro: la ricchezza della vera fede, a te, che sei Dio e il Salvatore delle nostre anime ». Così sia. (Lob der Weihnacht, p. 45)
21 dicembre — «Gioite nel Signore sempre! Di nuovo ve lo dico: gioite! ». Quello della gioia è un concetto fondamentale del cristianesimo in quanto tale, che è, e vuole essere, per sua essenza, «vangelo», lieta novella. Eppure, il mondo ha perso la fiducia nel vangelo, in Cristo, e abbandona la Chiesa in nome di quella medesima gioia che sarebbe sottratta all’uomo dal cristianesimo stesso, a opera di tutte le sue innumerevoli prescrizioni e divieti. E certo questo è vero: la gioia di Cristo non è così facile da trovare come il banale piacere che deriva da un qualsiasi diletto. Sarebbe sbagliato, tuttavia, interpretare le parole «Gioite nel Signore», come se volessero intendere «Gioite, ma nel Signore», quasi che nella proposizione coordinata fosse in realtà revocato quanto è affermato nella principale. Invece si dice semplicemente: «Gioite nel Signore», poiché l’apostolo crede evidentemente che ogni gioia vera è racchiusa nel Signore e che al di fuori di lui non esista gioia vera. Ed è altrettanto vero che, in effetti, ogni gioia che si verifica al di fuori o contro di lui, non soddisfa, ma spinge continuamente l’uomo in un vortice, di cui egli finisce per non potersi più rallegrare. Così, quell’espressione vuole sottolineare che solamente con Cristo è apparsa la gioia vera; e che, nella nostra vita, non importa altro che imparare a vedere e a comprendere Cristo, il Dio della grazia, la luce e la gioia del mondo. La nostra gioia sarà vera, infatti, solo se non si fonda più sulle cose, che ci possono essere tolte e rovinarsi, ma se getta le radici nella più intima profondità della nostra esistenza, quella profondità che nessuna potenza del mondo può sottrarci. Così, anche ogni perdita esteriore dovrebbe per noi trasformarsi in un’introduzione a questa dimensione interiore e al suo cuore; e renderci in questo modo più maturi per la nostra vita vera.
(Dogma e predicazione, pp. 309s)
22 dicembre — C’è qualcosa che non può non colpirci in questa nascita della luce, in quest’ingresso del bene nel mondo, e che ci riempie di un’inquieta domanda: il grande evento del Natale è davvero accaduto là, nella stalla di Betlemme? Il sole è grande, magnifico, potente; nessuno può far finta di non vedere il suo corso, la sua marcia trionfale nel cielo e del ciclo annuale del cosmo. Ma il suo Creatore, non dovrebbe essere ancora più potente e abbagliante nella sua venuta? La nascita di Dio, il sorgere del sole della storia, non dovrebbe inondare il volto della terra di un indicibile splendore? E invece… Quanto è misero tutto ciò di cui ci parla il vangelo! O forse non dovranno essere proprio questa povertà e l’insignificanza per il mondo il segno con cui il Creatore manifesta la sua presenza? A prima vista, questa sembra un’idea inconcepibile. Eppure, chi approfondisce il mistero del governo divino delle cose vedrà sempre più chiaramente che si dà manifestamente un duplice segno di Dio: in primo luogo il segno della creazione; ma, accanto a esso, e con sempre maggiore rilevanza, il segno di ciò che è insignificante per il mondo.
In esso, i veri e supremi valori si presentano esattamente sotto l’insegna dell’umiltà e della piccolezza, del nascondimento, del silenzio. Ciò che è essenzialmente grande nel mondo, ciò da cui dipende il suo destino e la sua storia, è quello che appare piccolo ai nostri occhi. A Betlemme, Dio — che aveva scelto come suo popolo il piccolo e dimenticato popolo di Israele — ha posto definitivamente il segno della piccolezza come distintivo essenziale della sua presenza in questo mondo. Ecco la decisione della Notte santa, la fede: noi accogliamo Dio in questo segno, e ci fidiamo di lui senza mormorare. Accoglierlo significa: porre se stessi sotto questo segno, sotto la verità e l’amore, che sono i valori più alti e più simili a Dio e, al tempo stesso, i più dimenticati e i più silenziosi. (Dogma e predicazione, pp. 322s)
23 dicembre — Il Natale ci chiama a penetrare nella quiete e nel silenzio di Dio; e il suo mistero resta celato a così tante persone, perché queste non sanno scoprire quella dimensione di silenzio nella quale Dio agisce. Come possiamo attingerla? Il puro tacere, di per sé, non la dischiude ancora. Un uomo, infatti, può ben star zitto esteriormente, e tuttavia essere completamente dilacerato dall’andare e venire di tutte le cose che lo affollano. Si può tacere con le labbra e tuttavia essere terribilmente rumorosi dentro. Fare silenzio significa trovare un nuovo ordine e una nuova disposizione interiori; significa non mirare esclusivamente alle cose che si è capaci di rappresentare e di mostrare; e vuol dire non rivolgere lo sguardo soltanto a ciò che ha valore tra gli uomini e possiede per loro un qualche prezzo. Far silenzio dunque significa sviluppare i sensi interiori, il senso della coscienza, il senso di ciò che è eterno in noi, la capacità di ascoltare Dio. Si dice dei dinosauri che essi si siano estinti perché si erano sviluppati in una maniera sbagliata: molta corazza e poco cervello, molti muscoli ma poco intelletto. Non ci stiamo per caso sviluppando anche noi in una direzione erronea: molta tecnica, ma poca anima? Una spessa corazza di possibilità materiali, ma un cuore sempre più vuoto? Un più o meno lento spegnersi della capacità di percepire in noi la voce di Dio, di cogliere e di riconoscere il bene, il bello, il vero? Non è assolutamente tempo di una correzione di rotta della nostra «evoluzione»? Questa correzione di rotta non può, né deve consistere in una stolta rinuncia al lavoro umano e all’edificazione della società e del mondo, quanto piuttosto nel recupero del posto che spetta al senso morale e al senso religioso nella vita dell’uomo e nel suo rapporto con le cose. La calma e il silenzio che la fede esige consistono nell’evitare che l’uomo venga completamente assorbito dai meccanismi della civilizzazione tecnica ed economica e reso strumentale a essi. Dobbiamo di nuovo imparare a riconoscere che tra scienza e superstizione c’è ancora qualcosa d’altro: quel più profondo discernimento morale e religioso che, solo, bandisce la superstizione e rende umano l’uomo, custodendolo sotto la luce di Dio. (Lob der Weihnacht, pp. 30s)
24 dicembre — Buon Natale a tutti — Il Verbo si è fatto carne. Accanto a questa verità giovannea, deve stare anche l’altra, quella mariana, questa volta proclamata da Luca: Dio si è incarnato. Si tratta non soltanto di un evento incommensurabilmente grande e lontano, ma anche di qualcosa di molto vicino e umano: Dio è diventato un bimbo, che ha avuto bisogno d’una madre. Egli si è fatto bambino: un essere che viene al mondo in lacrime, la cui prima parola è un vagito di pianto, che chiama aiuto, che come primo gesto protende le mani cercando protezione. Dio è diventato bambino. Oggi noi sentiamo dire, all’opposto, che ciò sarebbe solo sentimentalismo che sarebbe preferibile lasciare da parte. Ma il Nuovo Testamento la pensa diversamente. Per la fede della Bibbia e della Chiesa è importante che Dio abbia voluto divenire una simile creatura, che dipende da sua madre e che è affidata all’amore e alla protezione degli uomini. Egli ha voluto diventare un essere che dipende da altri, per risvegliare in noi quell’amore che ci purifica e ci redime. Dio si è fatto bambino, e il bambino è un essere che dipende. Così questo tratto originale del Natale — il fatto di cercar rifugio perché non se ne può prescindere — è anche un tratto che contraddistingue la fisionomia essenziale della stessa infanzia. E quante variazioni ha conosciuto nelle epoche della storia! Oggi ne sperimentiamo una nuova e molto problematica. Il Bambino bussa alla porta di questo nostro mondo. Il Bambino bussa. Questa ricerca di rifugio e protezione si spinge in profondità. Non c’è solo un ambiente esteriore ostile all’infanzia, bensì già prima è intervenuta un’opzione per la quale al Bambino vengono chiuse per principio le porte di questo mondo, che asserisce di non avere più alcun posto per lui. Il Bambino bussa. Se lo accettassimo, dovremmo rivedere interamente il nostro personale rapporto con la vita. Qui è in gioco qualcosa di molto profondo, cioè come concepiamo, in ultima analisi, Tesser uomini: come uno sconfinato egoismo o come una libertà fiduciosa, che si sa chiamata alla comunione dell’amore e alla libertà della condivisione. (Munchener Katholische Kirchenzeitung, 14 gennaio 1979)
25 dicembre — Nella grotta di Greccio, la notte di Natale, stavano — secondo quanto disposto da san Francesco — un bue e un asino. Egli aveva infatti detto al nobile messer Giovanni: vorrei vedere il Bambino con i miei occhi corporali, come fu, deposto in una mangiatoia e dormire sulla paglia, tra un bue e un asino (1 Col 30, 84). Da allora in poi, il bue e l’asino hanno il loro posto fisso in ogni presepe. Ma da dove ha propriamente origine tutto ciò? Se approfondiamo la questione, ci imbatteremo in una realtà di fatto che è importante per tutte le usanze natalizie, anzi ancora di più per l’intera devozione natalizia e pasquale della Chiesa, tanto nella liturgia quanto egualmente per gli usi e i costumi popolari. Bue e asino non sono la semplice trovata di una fantasia devota; per il tramite della fede della Chiesa nell’unità di Antico e Nuovo Testamento, essi sono diventati accompagnatori dell’avvenimento del Natale. In Isaia 1,3 risuona l’affermazione: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone. Israele invece non comprende, il mio popolo non ha senno». I Padri della Chiesa videro in queste parole un annuncio profetico, che faceva riferimento al nuovo popolo di Dio, la Chiesa formata da giudei e da pagani. Davanti a Dio, tutti gli uomini — giudei e pagani — erano come l’asino e il bue, senza senno e cognizione. Ma il Bimbo nella mangiatoia ha loro aperto gli occhi, così che ora essi riconoscono la voce del loro proprietario, la voce del loro Signore. Nelle raffigurazioni natalizie medievali, colpisce sempre il fatto che entrambe le bestie presentano fattezze quasi umane e un volto molto simile a quello dell’uomo, quasi immaginando che esse stiano consapevoli e adoranti dinanzi al mistero del bambino. Ciò è del tutto logico, poiché tutti e due gli animali presi insieme valevano come simbolo profetico, dietro il quale si celava il mistero della Chiesa — il nostro mistero, di noi che di fronte all’eterno siamo asini e buoi — asini e buoi ai quali, nella notte santa, si aprono gli occhi così da riconoscere nella greppia il loro Signore. (Licht, das uns leuchtet, pp. 32ss)
26 dicembre — Riconosciamo Dio fatto Bambino — Chi non lo riconobbe fu innanzi tutto Erode, che non comprese neppure nel momento in cui gli fu raccontato del bambino, bensì rimase ancora più accecato dal suo orgoglio e dalla conseguente deliberazione omicida (Mt 2,3). Chi non lo riconobbe, poi, fu « tutta Gerusalemme insieme a lui » (Mt 2,3). Chi non lo riconobbe furono gli uomini, vestiti di morbide vesti, i raffinati di allora (Mt 11, 8 ). Chi non lo riconobbe furono i dotti, gli esperti conoscitori della Bibbia, gli specialisti dell’esegesi, che certo sapevano individuare esattamente i giusti riferimenti scritturistici, ma tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6). Chi lo riconobbe furono — paragonati a questa gente eccelsa — « asini e buoi »: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva essere diversamente? Nella stalla in cui egli si trova non ci sono persone raffinate, solo asino e bue stanno di casa. E noi? Siamo tanto distanti dalla stalla, perché siamo fin troppo raffinati e intelligenti per essa? Non ci complichiamo anche le cose con dotte disquisizioni sulla Bibbia e con le dimostrazioni di questa o quella tesi storica o filologica, a tal punto da imbrogliarci, da diventare ciechi dinanzi al Bambino e da non percepire nulla al suo riguardo? Non siamo anche noi fin troppo di casa in « Gerusalemme », nei palazzi del potere, rinchiusi in noi stessi, nella nostra autosufficienza, nella nostra mania di persecuzione, per poter udire di notte la voce degli angeli, per poterci metterci in cammino e prostrarci ad adorare? In questa notte, così, i volti del bue e dell’asino ci guardano e ci interpellano: «”Il mio popolo è senza senno”, intendi tu la voce del tuo Signore?». Disponendo le statuine tanto familiari del bue e dell’asino nel presepe, dovremmo pregare Dio che dia anche a noi quella semplicità di cuore che, nel bimbo, scopre il Signore, come è stato per Francesco a Greccio. Allora potrebbe anche accadere a ciascuno di noi di tornarsene a casa, pieno di gioia. (Licht, das uns leuchtet, pp. 35ss)
27 dicembre — Dio si è fatto uomo. Egli è diventato un bambino. Si compie così la grande e misteriosa promessa che egli sarebbe diventato Emmanuele, il Dio con noi: egli non è più irraggiungibile per nessuno. Dio è l’Emmanuele: egli ci dà del tu, diventando un bimbo. Ciò mi fa tornare alla memoria un racconto rabbinico, trascritto da Elie Wiesel. Narra di Jehel, un giovinetto che si precipitò — piangendo, le guance solcate dai lacrimoni — nella stanza del nonno, Baruch, famoso rabbino. Jehel si lamentava: «Il mio amico mi ha lasciato tutto solo. È stato ingiusto e sleale con me». «Davvero? Puoi spiegarti meglio?», gli chiede il maestro. «Sì, — gli risponde il giovane — abbiamo giocato a nascondino, e io mi sono nascosto così bene che l’altro non riusciva a trovarmi. Ma allora egli ha semplicemente smesso di cercare, e se n’è andato via. Questo non è sleale?». Il nascondiglio più bello ha perduto la sua bellezza, perché il nostro partner ha spezzato il gioco. Allora il maestro gli accarezza il viso, anche a lui vengono le lacrime agli occhi, e gli dice: «Hai ragione, tutto ciò è davvero sleale. E vedi, con Dio succede la stessa cosa. Egli si è nascosto, e noi neanche lo cerchiamo più. Pensa solo a questo: Dio si nasconde, e noi uomini non lo cerchiamo semplicemente più». In questo breve apologo, un cristiano può trovare dispiegato tutto il mistero del Natale. Dio si nasconde e aspetta che la creatura si metta a cercarlo, che essa pronunci un nuovo e libero « sì » nei suoi confronti, e che l’evento dell’amore di nuovo si accenda nella creazione. Egli aspetta l’uomo. (Omelia inedita, 24 dicembre 1980)
28 dicembre — La sollecitudine per la bellezza della casa di Dio e la sollecitudine per i poveri di Dio sono inseparabili tra loro. L’uomo non ha bisogno soltanto di ciò che è utile, ma anche di ciò che è bello; non solo di una propria casa, ma anche della vicinanza di Dio e dei segni che l’attestano. Là dove Dio viene onorato, anche il nostro cuore è rischiarato. Oggi, noi siamo diventati tutti un poco puritani: non si sarebbe piuttosto dovuto vendere tutti questi tesori, e il ricavato darlo ai poveri? Ponendoci simile domanda, noi ci dimentichiamo che la bellezza offerta in dono al Signore è l’unica e reale proprietà comune diffusa nel mondo. Quale contrasto tra residenze signorili e chiese, tra musei e cattedrali! Quale differenza, tra l’affaticarsi ad attraversare la folla nelle sale del Louvre, degli Uffizi, del British Museum e l’immedesimarsi, pregando, con il canto di lode delle pietre in una chiesa viva! La bellezza, della quale è stato circondato il Bimbo di Betlemme, è destinata a tutti gli uomini ed è necessaria a noi tanto quanto il pane. Chi sottrae qualcosa di bello al Bambino, per convertirla in qualcosa di utile, costui non arreca vantaggio, ma provoca danno; spegne quella luce, via la quale anche qualsiasi calcolo o stima diventano futili e freddi. Certo, se vogliamo unirci al pellegrinaggio dei secoli che vuole offrire le cose più belle di questo mondo al Re appena nato, non dobbiamo però anche dimenticare che egli vive ancora in stalle, nelle prigioni e nelle favelas, e che noi non lo onoriamo davvero, se ci rifiutiamo di andare a cercarlo in quei luoghi. Ma questa consapevolezza non deve obbligarci a finire tra le braccia di una «dittatura dell’utile», che disprezzi la gioia e dogmatizzi una serietà opprimente. (Gottes Angesichts suchen, p. 12)
29 dicembre — Il primo canto natalizio della storia — quello con cui fu fissata per sempre l’intrinseca tonalità della celebrazione natalizia della nostra tradizione — non è fiorito dalle labbra degli uomini. San Luca ci tramanda che sia stato invece il canto degli angeli, i primi evangelisti della notte santa: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace agli uomini sulla terra, agli uomini che sono oggetto della sua grazia, agli uomini di buona volontà». Questo canto stabilisce un ordine di grandezza: e ci aiuta a comprendere che cosa è in gioco nel Natale. Contempla in sé una parola, che proprio in questa nostra epoca commuove gli uomini quasi come nessun’altra: la parola «pace». Il termine biblico shalom, che noi traduciamo così, dice molto di più che la pura e semplice assenza di guerra: esso intende l’autentica condizione, il retto ordinamento delle cose umane, cioè la salvezza, un mondo in cui regnano la fiducia e la fraternità e non esistono paura, né penuria, né perfidia, né menzogna. Pace in terra: ecco il senso del Natale. Ma il canto degli angeli fa precedere un’altra cosa, che viene prima e senza la quale la pace non può durare a lungo: la gloria di Dio. La dottrina della pace di Betlemme dice: la pace degli uomini proviene dalla gloria di Dio. Chi voglia veramente interessarsi degli uomini e della loro salvezza, deve prima d’ogni altra cosa darsi cura della gloria di Dio. Dar gloria a Dio non è un affare privato, di cui ciascuno possa disporre come meglio crede, bensì una questione che riguarda tutti. È un bene comune: e là dove Dio non è onorato fra gli uomini, nemmeno l’uomo può essere rispettato a lungo nella sua dignità. Il Natale ha perciò a che fare con la pace degli uomini, perché in esso la gloria di Dio è stata di nuovo proclamata e restaurata tra gli uomini. (Lob der Weihnacht, pp. 36s)
30 dicembre — A Natale, noi non festeggiamo un compleanno qualsiasi di un uomo importante, come ce ne sono tanti. E neppure celebriamo semplicemente il mistero dell’infanzia. Certamente, la freschezza ancora intatta, la trasparenza e l’apertura del bambino ci fanno ben sperare. Ci incoraggiano a contare su nuove possibilità dell’uomo. Ma se ci soffermiamo troppo su questo solo aspetto, sul nuovo inizio della vita in un bambino, alla fine potrebbe restarci in mano nient’altro che tristezza: anche questa novità andrà logorandosi. Anche il bambino entrerà nel campo degli antagonismi della vita, avrà parte ai suoi compromessi e alle sue umiliazioni, da ultimo cadrà preda della morte come tutti noi. Se non avessimo altro da celebrare che l’idillio della nascita e dell’infanzia, da ultimo non resterebbe più idillio alcuno: non rimarrebbe altro che l’eterno morire e divenire, e verrebbe da chiedersi se già non sia veramente triste nascere, visto che conduce solo a morire. Per questo è così importante il fatto che nel Natale è accaduto qualcosa di più: il Verbo si è fatto carne. «Questo bambino è il Figlio di Dio», dice uno dei più belli e antichi canti natalizi tedeschi. Qui è accaduto qualcosa di straordinario, l’umanamente impensabile e tuttavia pur sempre atteso, anzi necessario: Dio è venuto in mezzo a noi. Egli si è unito così inseparabilmente all’uomo che quest’uomo — che è veramente Dio da Dio, Luce da Luce — è pur sempre anche vero uomo, a tutti gli effetti. Ciò che costituisce il senso del mondo è venuto a noi in una maniera così reale che si può vederlo e toccarlo (cfr. Gv 1). Ciò che Giovanni chiama il «Verbo», in greco significa contemporaneamente anche il senso. Pertanto potremmo anche tradurre semplicemente: il senso di tutta quanta la realtà, il senso di tutto si è fatto uomo. Questo senso non resta però soltanto un’idea astratta o generale come ce ne sono dappertutto. Esso è una realtà che si rivolge a noi: è una parola, una voce che ci interpella. Colui che è il senso di tutto ci conosce, ci chiama, ci guida. Il senso non è una legge universale, nella quale è assegnata anche a noi una qualche funzione; piuttosto, è qualcosa che viene pensato in relazione a ciascuno, ed è perciò una verità totalmente personale, cioè per la nostra persona. È egli stesso persona: il Figlio del Dio vivente, nato nella capanna di Betlemme. (Licht, das uns leuchtet, pp. 43s)
1° gennaio — Buon Anno a tutti — Sullo sfondo di quest’espressione del salmo — «È Dio la parte della mia eredità e mio calice: sei tu che sostieni la mia sorte» (Sai 16 [15],5) — si staglia la più antica raffigurazione del calice con dentro il destino dell’uomo, che Dio regge tra le sue mani. In essa però si scontrano anche due diverse concezioni del tempo e del modo in cui l’uomo può attraversarlo, concezioni che anche oggi danno la loro impronta a tutto il nostro affaticarci e lottare per il futuro. Anche la visione pagana del mondo conosceva l’immagine del destino, ma l’intendeva in tutt’altro modo: il mondo è una grande roulette in cui domina la sola legge del caso. Cieco, il tempo vomita i destini umani, diversi l’uno dall’altro… La Bibbia ha trasformato in radice quest’immagine inquietante. Certo, resta sempre il calice dei destini umani, di quelli felici e di quelli perdenti; ma questo calice è «nelle tue mani»: nelle mani di Colui che è l’eterna ragione e l’eterno amore. Questo è il presupposto dal quale non è possibile prescindere e in base al quale soltanto può darsi in assoluto una speranza per gli uomini. Poiché il calice è nelle sue mani, l’unico destino tragico potrà consistere soltanto nel non voler vivere riponendo la nostra consistenza nelle sue mani e nella sua volontà. La versione latina della Bibbia ha conferito a quest’inesauribile versetto del salmo una nuova profondità ancora. Essa recita: « Nelle tue mani è la mia vita »; e l’enunciato, da un punto di vista strettamente letterale e grammaticale, può anche esser tradotto così: « Nelle tue mani riposano i miei sonni ». Ne viene fuori un’altra immagine: quella di noi che appoggiamo il capo, che ci addormentiamo fra le braccia amorose di Dio. E si fa visibile che il tempo dell’uomo non è semplicemente il tempo del ciclo cosmico del sole o delle rotazioni della terra e della luna. No, con l’uomo si costituisce un nuovo centro del mondo e si configura una nuova unità di misura: il battito del cuore, che qui è misura del suo essere, nuova misura dell’essere in assoluto, e ancora il centro del mondo. Quest’espressione del salmo, dunque, ci invita a vivere sulla base di questo tempo nuovo, a comprendere che esso è il tempo vero della nostra esistenza, e a dar forma al mondo a partire dalla sua misura e dal suo ordine di grandezza. Il tempo del cuore acquista senso per il fatto che il nostro cuore non batte a vuoto. Il nostro cuore, che segna il passo anche al nostro cervello e al nostro spirito, trova la sua giusta cadenza quando si affida nelle mani di Colui che ha in mano anche il nostro tempo: di Colui che è l’eterna ragione e l’eterno amore, e perciò anche la nostra vera speranza. Disponiamo dunque questo nuovo anno che sta per incominciare, il tempo che verrà e il nostro futuro nelle mani di Dio: Signore, donaci il tuo abbraccio e la tua benedizione. (Bollettino diocesano, 4 gennaio 1979, n. 1)