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Diversamente Francesco. Diversamente papa.
(ppgg. 29-33) — Diversamente Francesco, si diceva dunque, a riguardo di Papa Bergoglio, perché della simplicitas di cui si parlava all’inizio, fresca, casta e umile in Francesco d’Assisi, come l’acqua sorgiva da lui così sacralmente cantata, nel Francesco di Buenos Aires non c’è che una forzatura legnosa, artificiale, uno spot pubblicitario: nel nuovo Francesco la simplicitas la chiamerei piuttosto un “linguaggio di legno”, quel linguaggio artefatto e studiato di cui parlo nel mio Il domani terribile e radioso del dogma, per tutto il libro, a proposito del linguaggio inventato col Vaticano II.
Altri poi (v. Un messaggio allo stato liquido, di Pietro De Marco, raccolto nel blog di Sandro Magister Settimo Cielo) evidenziano la “liquidità” del linguaggio bergogliano: liquido perché come l’acqua capace di adattarsi alle forme più disparate dei mezzi utilizzati, e il mezzo, spiega McLuhan, è il messaggio, cioè il contenuto: è la liquida adattabilità a farsi significato, così il nuovo Papa annulla ogni distanza, come detto, ed è in mezzo alla gente come ogni altra persona è gente in mezzo alla gente, è quotidiano come ogni altra cosa quotidiana, è dappertutto come dappertutto è l’acqua.
Dunque liquido perché capace come solo l’acqua di infiltrarsi in ogni quotidianità, di cogliere ogni occasione, fin dal primissimo saluto dato dal balcone al centro della facciata di san Pietro, che lo mostrava per la prima volta al mondo come Papa, col suo celebre «Buonasera»: una parola, un Papa.
Questo «Buonasera», che non è il classico, universale e cattolicissimo «Laudetur Jesus Christus», né almeno il «Sia lodato Gesù Cristo», è la cifra di tutto il suo futuro agire, di lutto il suo futuro pontificato. Anche l’occasione più solenne, quale certo è la sua prima presentazione in mondovisione, in un soffio si destruttura e svuota di tutta la sua ufficialità, perde in un attimo il suo costrutto fastoso, e l’autorità, questa gran cosa tutta trinitaria da cui è generato l’Universo, si affloscia nella comunanza, sviene e si banalizza nel rattrappimento della dimensione mediocre di tutù i giorni, la dimensione dei poveracci, perché per Jorge Mario Bergoglio questa ha da essere la papalità: il tu con tutti, il tu in mondo- visione, così che, come notano Gnocchi e Palmaro, il Papa che «gioca con i mass-media a non fare il Papa, alla fine, non si avvicina agli uomini, ma li lascia soli»; ma così facendo, «se si appropria dei gesti che appartengono alla quotidianità dei figli che gli sono stati affidati, non si fa umile, ma protagonista » (Il Foglio, 16-10-2013). Un Papa esibizionista? Non sarebbe il primo.
Mai un Papa si presentò così chiaramente al mondo con un saluto che fosse subito accolto a sintesi simbolica ed esemplare di ciò che si riprometteva fosse poi il suo pontificato. «Buonasera», e la verticalità del rapporto con Dio fu tagliata di netto, subito, alla base. Che Papa sarà, allora? Come lo vuole il Liberalismo, monsieur. il primo Papa borghese.
Papa Bergoglio, tralasciata la saggezza del popolare adagio «Troppa confidenza, poca riverenza», si presenta ed è diversamente francescano proprio perché il suo pare essere un rapporto tutto umano, borghese: Dio, in quanto Essere in Sé sussistente (Esse in se ipsum subsistens) è tagliato fuori: «La verità è una relazione», dirà (lettera a Scalfari, in SCALFARI 2013, p. 42), ossia Dio (la verità) non sarebbe un assoluto. Se però non è un assoluto, ma una relazione come le cose, Dio-verità è immanente come le cose, cioè non è più Dio.
Dio è anche una relazione, questo lo si può dire, essendo Egli Trinità (v. TOMMASO D’ÀQUINO, S. Th., 1,29,4). Ma non si può dire ciò in assoluto, specie se si parla di verità, senza affiancargli il fatto, in sé primario e precedente ogni altra predicazione di verità, che la verità, in sé, è un assoluto.
Che poi Dio-verità sia tagliato fuori proprio da quel Pontifex, che ha per mestiere di includerlo (pontifex, da pontem facere, ‘unire due sponde’ divise da un incolmabile iato: la natura soprannaturale di Dio e quella crea turale dell’uomo), è in effetti un problema.
Ora, se il Sommo Pontefice, che costituisce la relazione tra Dio e gli uomini, o, che è uguale, tra gli uomini e la verità, sostiene che la verità, cioè Dio, è una relazione, lasciando cadere la sua assolutezza, perde il vertice della triangolazione di cui è ponte. Perde il verace dell’autorità di Dio che Egli porta sulla terra, ossia di cui Egli è Pontifex.
La riverenza, come con proprietà Giovanni Turco chiama l’adorazione, è una delle conseguenze più significative della presenza di quella cosa che noi chiamiamo autorità. Senza Dio non ci sarebbe riverenza — non ci sarebbe neanche, su altro piano, il magnetismo terrestre —, insomma: se pur ci potesse essere qualcosa, sarebbe un regime neanche entropico.
La riverenza riservata ai Pontefici nella storia, penso ai flabelli egizi, alla sedia gestatoria, al colonnato del Bernini, alle tombe monumentali, al cerimoniale, al triregno, era una riverenza riservata prima di tutto alla gloria di Dio, al Logos, all’Ostia divina, delle quali superiori realtà il mondo vedeva precisamente nel Papa il Primo Portatore.
Se fai il francescano, però, tutto ciò lo abbatti. Perché frate Francesco coadiuvò Papa Innocenzo III a risollevare la Chiesa, ma ciò fece proprio perché lui era e rimase frate Francesco, e il Papa era e faceva la Chiesa.
Sta il fatto che alla Porziuncola si vedeva bene che il moto del cuore del Serafico — di un fraticello cioè bruciato d’amore come il più bruciato dei Serafini — correva a Dio come un amante corre al primo oggetto del suo amore, e un tomista direbbe che questo rovente sentimento verso Dio fu la causa formale di ogni altro moto di quel cuore incendiato, ossia la causa di tutti quei suoi tanti altri grandi gesti caritativi per noi uomini suoi fratelli (e per tutta la creazione).
Il Serafico, in altre parole, aveva messo in pratica il preciso, inalterabile e immodificabile assetto con cui Dio dispone tra loro i due comandi d’amore che dà all’uomo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti». Punto, a capo, lettera maiuscola: «E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come le stesso» (Mi 22,37-9): dunque prima Dio, e, attraverso Dio, per Dio e in Dio, in secondo, il prossimo. Insomma, non credo proprio che san Francesco abbia mai salutato nessuno con un naturalistico «Buonasera». Caso mai col dolce e sublime “Pace e bene”.
Qui non si sta dicendo che il Papa non insegni ciò che deve insegnare: Dio, Gesù Cristo, la ss. Trinità e via dicendo. Ma lo insegna tutto? non ne “dimentica” dei pezzi? Dimenticandone dei pezzi, facilmente si alterano i rimanenti.
Avvicinando i suoi atti, così platealmente diversamente francescani, a quelli del Serafico, li si può giudicare — con una certa preoccupazione e anche con un certo vivo disappunto — percorsi da un moto orizzontale, e non verticale, ossia percorsi da un moto in cui il tomista rileverebbe che la sua causa formale è la visibilità mediatica, è il consenso delle folle, non l’amore prima di tutto per Dio: Papa Bergoglio, al contrario del santo di cui per la prima volta nella storia dei Papi ha voluto prendere il nome, agli occhi dell’osservatore si pone non come soggetto di una dedizione totale alla Divinità, così come comandato da Cristo stesso, ma come oggetto disponibile alla finzione compiuta dai media con la mondializzazione elettronica, e permette però che così con lui si realizzi ciò che ancora il duo Gnocchi-Palmaro, raccolta una seconda grande intuizione del McLuhan, registra con preoccupazione come cortocircuito mediatico più anticattolico che cattolico: «Gli ambienti dell’informazione elettronica, completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Ciò sembra un ragionevole facsimile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo» (Il Foglio, 9-10-2013).
Tv, stampa, internet, social network, possono presentare, oltre a un aspetto imprescindibile e primariamente positivo di fattori ineludibili di conoscenza, dunque di vita, di futuro, che è a dire di bellezza e di verità, e vorrei rimarcare che tutti questi sono valori di per sé discendenti dal Logos divino come è discendente dal Logos divino la conoscenza stessa, anche la loro schiena, per così dire, e non si scopre l’acqua calda denunciando però che tale “schiena della conoscenza” è carica di innominabili perversità, è appesantita da sacche, borse e valige di terribili e mostruose incentivazioni a conoscere il male, e con ciò ad apprezzarlo, desiderarlo, amarlo, goderne, approfittando delle mille possibilità di segretezza dei nuovi mezzi di comunicazione della conoscenza per rovinare le anime. E rovinare, con le altrui, pure la propria.
Ma oltre a ciò, non si scandalizza nessuno nel segnalare anche quel qualcosa di meno palpabile, di meno plateale, che è il tentativo di assimilare tutta questa che possiamo chiamare la mediasfera, o semiosfera (il mondo della comunicazione di contenuti nel suo complesso) a un surrogato culturale — ma in qualche modo, e ancor più, spirituale, religioso — del Corpo Mistico di Cristo. Questa l’intuizione di McLuhan, che Gnocchi-Palmaro hanno voluto evidenziare a proposito della sovraesposizione di Papa Francesco al Moloch mediatico. E se qualcuno vi legge una qualche vena di vanitas, il Papa argentino non sarebbe certo il primo dei Papi a cadervi (v. Intervista a Scalfari, OR, 2-10-2013, qui al § 50).
Per non dire infine che «sarà pure “povera per i poveri” — come segnala Sandro Magister su Settimo cielo — la Chiesa sognala da Papa Francesco. Intanto però sta diventando il Paese di Bengodi delle più pregiate e costose fabbriche al mondo di sistemi organizzativi e finanziari» (L’Espresso, n. 3, 2014). E giù un profluvio di “grandi firme” americane di fama internazionale e di costosi apparati privati — sempre provenienti dal super-laico mondo che ruota intorno a Wall Street, ad affiancare i paludati e stantii carrozzoni burocratici vaticani, gli addetti stampa, lo Ior, l’Apsa, l’Uffìcio rischi eccetera, in una studiata e tutta bergogliana duplicazione che, come si vedrà per l’appunto ora, non è affatto affidata al caso, e che di certo contribuisce non solo a non riflettere in nulla lo spirito “francescano” del Poverello d’Assisi, ma a divergerne sul piano pratico dei fatti più ancora di quanto sforbici, diciamo così, ideologicamente.
Un pontificato di “pancia”
(ppgg. 40-42) — In una delle sue quotidiane “omelie di Santa Marta” (4-6-13), il Papa ha sollecitato a «pregare […] con la carne: che la nostra carne preghi. Non con le idee», perché «fa preghiera sempre arriva alla gloria di Dio, sempre, quando è preghiera dal cuore»; al contrario, mai arriva quando «è un gioco intellettuale».
Chiarissimo: bisogna pregare con fervore, con sentimento. Cristo stesso ha sudato sangue, pregando, e pianto.
Ma si provi a inserire questa santa esortazione nel generale contesto che si diceva, di enfatica presa di distanza dal mondo del logos (di quello minuscolo di sicuro, ma in una certa misura, certo inconsapevole, avventata, non voluta, pure del maiuscolo), delle idee, della dottrina, della ragione, e uniamola ad altre parole “di santa Marta”: «Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia — qui, per esempio, il Papa afferma il 16-10-13 —, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero […]. E per questo Gesù dice loro: “Voi avete portato via la chiave delta conoscenza”, la conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni».
Ma cosa c’è dietro queste parole, così “sudamericane” per la loro apparente e ricercata imprecisione: «conoscenza ideologica», «conoscenza moralistica»? Esse alludono alla dottrina e alla legge morale senza nominarle, e, se consideriamo chi si nasconde dietro il «discepolo dell’ideologia», capiamo che il fondo di sprezzo che le sottende ha un’origine estesa, di “visione antropologica”, di “impostazione culturale” ad imis.
Il «discepolo dell’ideologia», per il Papa venuto «dalla fine del mondo», ovvero da un mondo non lambito più di tanto da quella (che egli considera) “sovrastruttura ideologica”, la civiltà di marca occidentale, specie la greca, che è poi l’aristotelico-tomista, è il seguace di quegli orpelli cervellotici chiamati leggi, il sottile inventore e poi pedestre esecutore di ammassi di regolamenti artificiali non a caso chiamati qui «farisaici», che altro non farebbero, dal punto di vista “empatico-naturalistico” del Papa “de-ellenizzato”, che allontanare dal cuore le vere, fondamentali e profonde necessità dei fratelli, che sarebbero tutti sempre e solo miserabili e bisognosi all’estremo di ogni sostentamento più che altro materiale, e questo allontanamento dal proprio cuore sarebbe realizzato con la costruzione banalmente “culturale” di griglie di potere, di leggi inutili, di norme irreali, con cui la vera vita di preghiera e la vera relazione d’amore sarebbero strappate dal loro senso primitivo e profondo, e sarebbero invischiate così in artifici anti-misericordiosi, tali da uccidere la vera vocazione di carità e d’amore cui sono chiamati i cristiani.
Allora quell’esortazione forse va presa con più attenzione, simbolo e traccia di un percorso più ampio, strategicamente mirato e a lunga scadenza: un rivolgimento culturale, anzi antropologico, al quale allora però potrebbe non essere del tutto estraneo quel monito dell’Apostolo che ci ricorda: «Chi semina nella carne, dalla carne raccoglierà corruzione, chi semina nello spirito, dallo spirito raccoglierà vita eterna» (Gal 6,8).
Infatti, tutt’al contrario, “domenicanalmente” invece che “francescanamente”: che verrebbe a significare un Papa che esortasse a pregare un po’ meno con la carne, o sentimentalmente, e invece, piuttosto, con un po’ più di testa, ossia più spiritualmente? non avrebbe ragione anch’egli? Anzi, cattolicamente parlando, non avrebbe forse egli ancor più ragione?
Perché mai ancor più accentare una spinta già di per sé sfrenata a snervare i valori della dottrina, a sminuire l’importanza della riflessione intellettuale, a “dimidiare” — direbbe Romano Amerio — il ruolo imprescindibile delle regole, delle norme, delle leggi, in un mondo che è già da parecchio, per tutti questi aspetti, tutto sottosopra come non mai?
Le caratteristiche strategiche del magistero di Francesco
(ppgg. 49-52) — La percezione dei fedeli si avvale, prima che delle parole, dello stile, dei gesti, del modo con cui sono porte loro le parole. E anzi le parole, per la maggioranza dei fedeli, perdono di significato, o comunque assumono nuovi significati, aureolati dal contesto, specie perché la massima parte dei fedeli (e in genere della gente che riceve quei “messaggi” gestuali) riceve immagini e parole dalla tv, e dunque li riceve sotto il regime con cui si trasmettono i messaggi tv, dove le parole non valgono niente e l’atteggiamento tutto.
Papa Francesco — “Francesco” e basta — è un Papa-tv, nel senso che è un Papa che sa benissimo tutto questo, e impronta tutto il suo agire, o stile di comunicazione magisteriale, su questa struttura narrativa immaginifica, globalistica, ipodogmatica, superveloce, ad alto tasso ili empatia carismatica, “tipicamente” tv.
Torniamo allora qui a quella fondamentale asserzione che si diceva di Marshall McLuahn: «Il mezzo è il messaggio».
Essa va applicata al magistero di Francesco ravvisando il mezzo in un insieme unitario – lo stile – di cinque componenti strategiche: la condotta (apparentemente) “francescana”; la serrata velocità infracomunicazionale; la bonomia “ingenua” e “contadina”; il sistematico spiazzamento dell’interlocutore; la programmata intenzionalità innovativa.
L’insieme delle cinque componenti, che in sintesi disegnano lo “stile Bergoglio”, tal messaggio più delle parole del messaggio; lo stile con cui sono espressi i lògoi fa più dei lògoi, li contestualizza in una cornice di luce tipicamente “bergogliana” la cui radiazione influisce in modo determinante a dare al significato che avrebbero intrinsecamente le parole, i lògoi, la loro ‘Vera” valenza: una valenza metalinguistica, collettiva, sentimentalistica e prefilosofica. Siamo ancora alla carne contro lo spirito. Al flauto di Pan contro la cetra di Apollo.
Il che però, teologicamente parlando, è molto di più: è l’accentazione di un cristianesimo “di pancia” contro un cristianesimo “di testa”, è la spinta a un cristianesimo empirico entusiastico più che dottrinario, empatico più che dogmatico, sognante più che realistico, carnale più che spirituale. Lo vedremo nella Evangelii gaudium, dove la spinta al fervore bruciante dell’evangelizzazione viene di pagina in pagina contrapposta con retorica e sottile astuzia a una supposta seriosità dottrinale indisponente, “monolitica”, persino “funerea”, e l’entusiasmo evangelico della gioia dell’annuncio e della missione nelle periferie della terra, nerbo portante e manifesto di tutto il documento, esaltato su un’eventuale Chiesa di funzionari doganali, di tristi e inquisitoriali professionisti del terrore nel confessionale, come lì leggeremo.
Come si vede, la valenza “vera” e immaginifica travalica e in parte anche senz’altro corregge il significato intrinseco delle parole di Papa Bergoglio, pur se questo, di per sé, resta fermo e solido come tutti i significati di parole: significati primari, questi, peraltro, al cui specifico rigore e alla cui indicazione non c’è cornice modale, o stile, o atmosfera, che possano in alcun modo e in nessuna misura sottrarli, e infatti li si analizzerà in sé, per quel che sono, come meritano.
A questo punto si può fissare cosa esprime questa valenza, o cornice, o “stile strategico bersagliano”, una volta raccolti i valori semantici offerti dalle sue cinque componenti:
Primo: “Grandiosa, Felice e Totale Riforma della Chiesa…”.
— “Grandiosa”, o anche “totalizzante”, “universale”, è la qualità che nasce dall’affermazione della volontà di Papa Francesco di compiere un cambio di governo senza limiti, ossia che tocca ogni ambito possibile della Chiesa; deciso, poi, ossia compiuto con energia monarchica, fattuale, senza tentennamenti o perplessità; forte, infine, ovvero senza mezze misure, senza chiaroscuri, ma con decisa evidenza;
— “Felice” è la qualità che nasce dal sorriso catturante, dall’amabilità travolgente dell’augusto Soggetto, ma pure dall’implicita “promessa di novità” che emerge dal suo contegno generale: il pubblico – compresa la minoranza di fedeli o “credenti” propriamente detti — coglie favorevolmente, almeno per ora, la “promessa di novità” del Papa, e ciò perché nella sua “promessa di novità” c’è pathos, c’è passione della novità, vero motivo per promuovere e garantire la felicità;
— “Totale Riforme” (o dovrebbe dirsi “Rivoluzione”?) è la qualità che nasce sia dallo spiazzamento sistematico che si diceva dell’interlocutore, raccolto dal peronismo che Bergoglio conosce direttamente, sia dalla ben manifestata intenzione innovativa a tutto campo vista sopra, sia dallo stile rivoluzionario, inconsueto (per quanto l’inconsuetudine sia delineata sottotono, in stile “francescano”) con cui il Papa cura nei dettagli ogni suo contegno.
Secondo: “…a Conclusiva e Fedele Attuazione del Concilio Vaticano II”.
E qui ci si chiede: a che servono le tre prerogative suddette, alla cui attuazione è tanto impegnato in ogni suo gesto, iniziativa, parola, Papa Bergoglio? “Grandiosa”, “Felice”, “Riforma totale” sono le tre grandi direttrici per operare la Svolta epocale della Chiesa, che la Chiesa in questi cinquant’anni ha preparato alternando momenti di corsa in avanti e di potente accelerazione a pause di (apparente) ristagno e, a qualcuno è parso, di sedimentazione. Persino, secondo i più avventati, di ripensamento, ma ciò è escluso: certo, Papa Ratzinger non è Papa Bergoglio, e tra i due stili di magistero non si potrebbe rilevare maggiore opposizione.
La Chiesa come «ospedale da campo dopo una battaglia»?
(ppgg. 176-188) — Ma perché «ospedale da campo», per giunta «dopo una battaglia»? Perché, risponde l’augusto Intervistato, «dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo» (p. 463).
Intanto bisogna dire che già il fatto di sentire l’esigenza di «predicare il Vangelo su ogni strada» significherebbe, per il Papa, aver presente che la Chiesa deve saper affrontare con la stessa audacia e insieme prudenza realtà anche ben diverse e persino opposte tra loro, come sapevano bene forse più di tutti proprio i gesuiti, che nei secoli seppero magnificamente adattarsi alle più disparate esigenze economiche e culturali; ma le insistite opzioni di Papa Francesco per una certa esclusività verso “gli ultimi della terra” (v. p. es. EG 21, 48, e 197-201) non farebbero sperare ciò come cosa cui credere realisticamente.
Allora sarà utile fare con Amerio alcune considerazioni su questo grande Ordine della Chiesa che sono i Gesuiti:
La Compagnia di Gesù — così in AMERIO 2009/a, p. 457 – fu per secoli, sin quasi all’odierno scadimento, riguardata, e da cattolici e da avversari del cattolicismo, come una delle interpretazioni più autentiche del cattolicismo e quasi il destrocherio della Chiesa Romana. […] In realtà i Gesuiti infusero nella Chiesa una potente vitalità, proponendosi di organizzare tutto il genere umano e dirigere tutta la terra al cielo, anzi sottomettere, con tale intento, tutte le parti dell’enciclopedia e tutti i rami della convivenza sociale.
La mira geotropica predominò nell’opera, ma nel ricercare l’armonia dialettica tra i due mondi, che è sempre difficile, i Gesuiti inclinarono talora a rendere la religione più amica dell’umana natura (in quanto questa è buona e da Dio) che non a contrapporgliela (in quanto questa è corrotta e renitente).
Ecco, fermiamoci su questo punto: l’inclinazione gesuitica a «rendere talora la religione più amica dell’umana natura».
Tutto il magistero di Papa Francesco — basta leggere le “omelie di Santa Marta” — è teso a evidenziare in tutti i modi questa specifica inclinazione gesuidca.
Essa è proprio quella tale intenzione previa alla benignità amicale che, se mossa a sua volta dal proposito di non ferire il soggetto, e di non ferirlo anche per carpirne la benignità e comunque per non irritarlo così da doverne poi soffrire, è divenuta da tempo invece un’inclinazione machiavellica, e questo del machiavellismo è precisamente il valico scovato da Antonio Livi come quel pessimo strumento per passare da una sana teologia, se non persino da una dottrina, a un’insana filosofia religiosa, che non è la “filosofia della religione”, che per Livi è «stabilire in modo rigoroso l’essenza della religione» (Livi 2012, p. 38), ma “il pensiero di un cattolico sulla propria religione, piegato però da un fine soggettivo” (v. Livi, p. 118).
Mai ferire il peccatore, oggi si dice nella Chiesa, giacché i peccatori di oggi, facendo di mestiere i liberali, e avendo col tempo preso in mano le leve di controllo culturale (e spirituale) delle coscienze, sono divenuti i veri Superpastori del mondo, capaci di far sentire la loro voce — in nome non più della verità, ma della libertà — più autorevolmente persino di quella della Chiesa, e di farla sentire alla stessa Chiesa, sì da intimorirla e assoggettarla tanto da non permetterle più di ferirlo, lui, il potente liberale non più umile peccatore, mentre invece a volte bisogna proprio ferirlo, il peccatore, potente liberale o meno che sia, se ciò vuol dire fargli prendere coscienza di come stanno le cose, di cosa ha fatto, di come è lo sguardo di Dio su di lui, di cosa lo attende se presto non si corregge, come Natan corresse Re David dopo il suo peccato di adulterio e omicidio (v. II Re 11): lì si vede davvero quanto è capace di severità la misericordia del Signore nel condurre il peccatore davanti alla propria coscienza, come mostrò anche il Re nella parabola del banchetto (v. Mi 22,11 -4), allorché questi nota l’uomo entrato nella sala senza «l’abito da nuziale», ossia senza essersi purificato dal peccato.
Il che significa che dunque un pertinente e attento lavorio di bisturi sarebbe a volte l’unico modo per riportare il peccatore alla sanità, come sanno tutti i medici, ma pure tutti i malati, i feriti e i moribondi, che si rendono ben conto che non basta un po’ di cipria per sfuggire alla morte.
Questa sconvenienza di parlare chiaramente al peccatore, a partire dal dirgli che è peccatore (ovvio: come un pastore santo lo sa dire alla pecorella smarrita), si è infiltrata nella Chiesa da cinquant’anni avvelenandole da cinquant’anni la purezza di magistero perché da cinquant’anni la Chiesa, come a volte, nei secoli, ebbe timore del prepotente imperatore, ora ha timore del mondo, ha timore del peccatore, del suo giudizio, e di passare essa per retrograda, per ossessionata, per non rispettosa della dignità dell’uomo, che sarebbe la dignità del peccatore: difficile mettersi oggi dinanzi al quadro dei «feriti sociali» e da lì vederne colori e soggetto con la limpidezza di sguardo e la castità di mente necessari a porlo nell’adamantina cornice salvifica delineata da Cristo.
Ma è corretta questa nuova immagine: «feriti sociali»? chi sono i «feriti sociali»? Lo si è appena letto: sono — e si sapeva! — le «persone omosessuali»; sono poi — e ancora si sapeva! — le persone incarcerate in matrimoni falliti o ingabbiate in scelte “contro la vita”, cioè in aborti; e in altri casi così. Queste persone, sotto l’ottica delle ripercussioni sociali causate dalle loro azioni, sarebbero «feriti sociali».
Ma questa definizione sposta la loro corretta identificazione dalle cause delle loro azioni — assolutamente trascurate tanto quanto invece decisive per la corretta identificazione della realtà che rappresentano — ai loro effetti, i quali, come tutti gli effetti, possono essere sanati o riparati solo a partire dalla corretta identificazione delle cause.
In realtà, questi «feriti sociali» dovrebbero essere detti, come tutti i peccatori, “feriti individuali”, anzi, come tutti i peccatori, siano essi gli ormai tanti apostati dalla fede, poi i ladri e i corrotti, gli iracondi c gli omicidi, i lussuriosi e i gelosi, gli avari e i gretti, gli invidiosi e i golosi di ogni ghiottoneria, ma pure i famelici di viaggi e di divertimenti di ogni tipo, i bugiardi e gli accidiosi, gli infrigiditi di cuore eccetera, ecco: come tutti questi piccoli e grandi peccatori, dovrebbero essere definiti semplicemente, e molto più correttamente, “feriti autolesionisti”, ossia uomini che da se stessi causano alle proprie anime martoriate malattie, infermità e lacerazioni di ogni genere, procurando spesso anche alla propria anima — sempre da se stessi –, la sua morte.
Evocare però una figura di vittime come «feriti sociali» suscita ben più consenso che non invitare a un severo esame di coscienza. Se infatti costoro fossero — e si riconoscessero — «feriti sociali», cioè quelle vittime dipinte da Papa Bergoglio, non dovrebbero mostrarsi allora pure, come quei veri feriti sociali che sono gli emarginati, i poveri, i clochard, i sans papier, umili e silenti, prostrati al fondo della chiesa, battendosi il petto come il contrito pubblicano di LC 18,9-14?
Bisognerebbe dire che invece, piuttosto, essi, più che «feriti sociali» o povere vittime, sono in realtà “oppressori sociali”, e questa è la loro vera identità, perché la loro condotta peccaminosa lede con sempre maggior virulenza, sfacciataggine e prepotenza la società e la famiglia che ne è il nucleo fondativo e inalienabile, addirittura pretendendo che le leggi civili, cioè promulgate per incivilire e dunque sempre più migliorare la società, siano piegate ai loro peccati.
Bisogna dire che la condotta di tutti i peccatori, anche dei più nascosti nel segreto del cuore, ha sempre ferito la naturale inclinazione alla sanità e alla santità della società, dunque tutti i peccatori sono di per sé “oppressori sociali”, ma tanto più lo sono coloro che, come sta avvenendo, ostentano e impongono alla società tutta ciò che andrebbe non solo velato, ma anche, umili e pentiti, da essi stessi vomitato.
C’è da aggiungere poi una seconda considerazione: l’augusto Intervistato dice che quelle «persone omosessuali, […] sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati». Dunque il loro stato di feriti dipenderebbe dalla Chiesa: è la Chiesa che li ha feriti. Non loro si sono da sé feriti, ma la Chiesa li ha feriti con la sua condanna.
Perché mai, ci si chiede, la Chiesa non dovrebbe condannarli? Ma innanzitutto: non è vero che la Chiesa condanni il peccatore, perché condanna il peccato. Sarà poi Cristo, giusto Giudice, che dirà: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41). Ma la Chiesa, di suo, condanna il peccato, condanna i sette vizi capitali: e se vengono elencate le categorie dei peccatori, come p. es. le si è sommariamente elencate sopra, è solo per compiere quell’individuazione — come nella società civile — dell’ambito in cui si è mostrata più perspicua una certa cattiva inclinazione di un tale o di un talaltro: quello è un iracondo, quell’altro un goloso, in quanto il primo è inclinato in specie all’ira, l’altro alla golosità.
In letteratura, come sui giornali, Tizio è l’omicida, Caio il ladro, Sempronio l’avaro, essendo noto ciascuno di essi per aver compiuto un omicidio, una ruberia, un’omissione (o uno sperpero, v. lnf, VII). E così pure, allo stesso titolo, Tizio è il lussurioso e Caio il divorziato per esser conosciuti il primo per atti impuri e il secondo per un peccato di divorzio.
La problematica nasce allorché l’uomo, riguardo a quello specifico peccato della carne, o impuro, che nelle Scritture è indicato come «atto contro natura» (Rm 1,26-7), e che è particolarmente odioso perché fa violenza sulla realtà come pochi altri (è uno dei quattro peccati che gridano vendetta davanti a Dio), sostiene che l’atto che compie è dovuto non a una scelta, passibile di censura se cattiva, ma a una conformazione naturale, psichica o fisica che sia, o di entrambe, dunque non assoggettabile a censura. Oppure sì: quell’azione è dovuta a una scelta, rivendicata dalla “libertà ontologica” di scegliere di caso in caso la propria “identità di genere”, mai determinata dalla natura (e men che meno da Dio).
Questa non è la sede per entrare come si vorrebbe in argomento, ma, ricordando che la vita dell’uomo è fatta per dare maiorem Dei gloriam, in vista cioè di quell’adorazione che è il suo fine più genuino e insieme più aureo e totalizzante (v. il motto del libro), questo comunque si può dire: che la violenza che tali azioni compiono sulla realtà è evidente almeno per il fatto che esse forzano quella che sul piano strettamente fisico-biologico, nella somma sapienza di Dio, è stata pensata unicamente come una delicatissima “soglia” — meglio: come una delicatissima “valvola” –, atta a espellere tutta quella materia organica nociva per il corpo umano e da lui stesso prodotta, e che favorisce tale flusso sempre e solo in direzione in-out, mai viceversa. Tale soglia valvolare (che in stato di riposo è sigillata e che non deve essere forzata in questa sua fisiologica inerzia), lavora nell’ambito di un’armonia non solo strutturale, biologica, ma antropologica, ossia culturale e spirituale. Essa permette sempre e solo tale moto assolutamente incapace di violenta, direi di più: inadatto alla violenta, come è nella natura delle cose create.
Si dice: non è vero: la natura è piena di atti di violenza, anche feroci e cruenti. Ma altro è la violenza di natura, come i cataclismi, lo sbranamento delle carni da parte delle fiere, o, nel santo matrimonio, nell’ambito cioè di una relazione di amore donativo, la rottura dell’imene, altro quella contro natura. Ripeto: non è la sede per il delicatissimo tema, che qui si tocca solo perché rappresenta uno dei motivi apicali della svolta magisteriale bergogliana non solo a favore di quello che parrebbe verosimilmente un tentativo di liquefazione a fuoco lento della morale cattolica, ma, da qui, a una giravolta totale della società, però questo almeno va detto: che la natura, di suo, è tutta proiettata comunque alla generazione, e in ultimo a dare figli a Dio; il contro natura è invece proiettato alla sterilità, a negare figli a Dio, ma anche negarli alla società. (Notare: essendo la forma di Dio dovuta alla generazione ab aeterno del Figlio dal Padre, col negare un figlio a Dio si offende particolarmente Dio proprio nella sua più profonda e formale essenza, che è di per sé generativa).
Inoltre, in queste azioni contro natura si parla di “unioni”, ma, come benissimo e con encomiabile costanza dice e ridice Camillo Langone, tali non possono dirsi quelle che non sono che sterili, artefatte e violente “penetrazioni” (il suddetto, per il loro effetto destabilizzante su famiglia e su società, consiglia chiamarle “unioni incivili”, che vuol dire “unioni de-socializzanti”, “unioni de-incivilenti”): una vera “unione”, o congiungimento, o relazione, o amplesso, non si contenta di approfittare surrettiziamente e indecorosamente di generiche concavità e convessità di carni la cui fisiologia è peraltro assegnata a tutt’altre funzioni, ma si realizza allorché l’elemento offerente maschile trova in quello ricettivo femminile un’accoglienza attiva, feconda, viva, felice e sorridente, capace cioè di rispondere all’offerta unitiva con un atto, a sua volta, egualmente in tutto vivo, e non affatto inerte come inerte — sterile — è l’imitazione contro natura tra uomo e uomo (o donna e donna): l’atto maschile deve trovare cioè, per dirsi “unione”, un corrispettivo atto femminile, o moto, ad esso adeguato, la cui risposta potrebbe dar luogo — sempre che non si interpongano ostacoli naturali non voluti — alla procreazione di un altrettanto vivo frutto, di una terza persona viva, sorridente e felice o atta alla felicità, come persone vive, sorridenti e felici sono l’uomo e la donna che hanno dato luogo all’amorevole e santo amplesso: non è questione dunque di ricettacoli fisici, di banali conformazioni carnali per una qualche estrapolata similitudine materiale, ma della realizzazione di un’unione personale e spirituale feconda e infuturente attraverso due persone tese a compiere così un’opera che le trascenda — “dare un figlio a Dio” le trascende —, e con ciò trascendere se stesse, i propri spiriti, e darsi a Dio pur attraverso l’ambito meno spirituale di sé.
Offerta e accoglienza debbono essere poi non sterilizzate artificialmente, sempre per non cadere nell’irrealtà egoriferata, ma libere di esprimersi naturalmente con lo slancio pacifico e altruistico proprio dell’amore di donazione di sé.
Ora, quando si ricorda che, per dar maggior gloria a Dio, bisogna rispettare il creato — l’ateo dice “l’ambiente” , si deve parure da se stessi, dal proprio piccolo creato che noi stessi si è, e rispettare la sanità e l’armonia in noi costituite, laddove sono costituite; e curarle e infonderle allorché dovessero in qualche misura mancare, laddove mancano, come è nella natura delle cose caduche e perimenti.
Sul piano eziologico poi, che è piano ancor più gravido di conseguenze, il peccato contro natura è ancora violenza sulla realtà per ancor più forzare esso quella che da Dio non è stata pensata mai, in alcun modo, sotto alcun aspetto, altro che un’unione che potesse fruttificare una prole di uomini che poi lo amino e gli rendano la lode che solo a Lui conviene e per la quale è stato crealo l’universo.
Sotto tale aspetto, la pretesa di questi ambienti, adottare bambini per supplire artificiosamente alla propria sterilità, è da considerare particolarmente odiosa, ossia ancor più «contro natura» antropologicamente, psicologicamente, socialmente e spiritualmente parlando, picchiando direttamente contro la volontà di Dio, che nella sua provvidenza ha fatto nascere nell’universo l’amore tra uomo e donna, e la famiglia, affinché generazioni e generazioni di uomini Lui amassero e a Lui levassero le più alte e felici lodi in eterno.
Non assecondare l’armonico e vivo sviluppo della famiglia come Dio l’ha voluta, facendo violenza alla realtà da Lui pensata, sterilizzando, dissacrando e mimando colpevolmente un atto sponsale delicato e nobile come quello dell’unione di certo infuturente tra uomo e donna, porta solo allo sterminio delle famiglie e poi delle nazioni, lentamente magari, e magari anche incruento, e magari pure compiuto attraverso crisi economiche, sociali, finanziarie, che sono in realtà vere e proprie guerre alla famiglia, come d’altronde le crisi pedagogiche e morali, ma sempre sterminio.
La Chiesa considera peccato, prima ancora di entrare nel merito delle circostanze specifiche con cui si è compiuto un certo atto, ogni azione che abbia come fine la soddisfazione della carne, che essa sia compiuta nel matrimonio o fuori.
Le circostanze poi — determinate da gravità di materia (per l’impurità però essa è sempre grave), pienezza di coscienza e deliberazione del consenso — possono aggravare o alleggerire la posizione, come in qualsiasi processo, ma l’atto carnale finalizzato egoisticamente al proprio piacere, e non in vista di dare un nuovo figlio a Dio, ossia una nuova anima che Lui ami e Lui lodi, è atto carnale impuro, è peccato d’impurità, sia in un rapporto matrimoniale che non.
“Processo”. Ecco l’odiosa parola da cui i Pastori della Chiesa d’oggi stanno tentando in tutti i modi di liberarsi: «Il confessionale — chiosa infatti Papa Francesco poco più avanti (come poi anche in FG 44) — non è una sala di tortura, ma il luogo di misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo». Appunto: “meglio che possiamo”, sì, ma senza nascondersi niente, giacché Egli sa che noi vogliamo nascondergli qualcosa per nasconderla a noi più che a Lui: il confessionale è il luogo del giudizio, istituito per misericordia dal Signore, affinché noi si confessi a noi e a Lui, che ci ascolta attraverso il sacerdote, alter Christus, cioè che ci ascolta come fosse quel Cristo flagellato e coronato di spine che ha sofferto ed è morto per espiare su di Sé i nostri peccati, la nostra condizione reale, e ciò avviene perché la religione cattolica è la religione della realtà, è l’unica religione della realtà, è la religione che ci insegna a essere realisti per prepararci a entrare definitivamente nella Realtà vera e indistruttibile che Egli stesso è; oppure condannarci per sempre al verme che noi stessi abbiamo infilato nella nostra ragione con quegli atti di indipendenza sopra visti, se noi abbiamo preferito, pur di ribellarci e liberarci di Lui, baloccarci con la fantasia, nasconderci nell’errore, compiacerci del nostro Io, svuotarci della realtà che ci porterebbe a Lui e riempirci di miti, di falsità e di favole con cui cullare il nostro Io.
La Chiesa rifugge oggi dal giudizio, spalanca porte e finestre, salvo poi, con la politica già vista del doppio binario, richiuderle con interventi sempre più contestati dai suoi stessi più alti esponenti, come successo sulla questione della comunione ai divorziati col confronto a distanza tra il Prefetto Müller (indisponibile a ogni riconsiderazione della cosa) e i vescovi tedeschi (fin troppo favorevoli a cercare una nuova disciplina), ben sapendo di giocare col fuoco.
Quell’espressione del Papa sull’aereo che lo riportava in Italia dopo i fasti di Copacabana — «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?», v. p. 121, è paradigmatica per indicare la via per sfuggire dal duro giudizio da emettere, ma anche per sfuggire al duro giudizio che, come spada di Damocle, è sempre pronto a essere emesso su di essa Chiesa dal mondo intero.
Ed è questo il vero e doppio giudizio che i Pastori odierni della Chiesa stanno equivocamente da cinquant’anni sfuggendo e scansando in tutti i modi, perché vogliono mostrarsi in tutto e per tutto amici del mondo, concordi col mondo, fratelli del mondo, “in ascolto del mondo”, come dicono, il che non è altro che “accodarsi al mondo”, nei medesimi ideali di bontà, di benignità, di serenità e di pace del mondo.
I quali però non sono gli ideali della Chiesa, pur se oggi, al solito, anche qui si gioca all’equivoco: l’importante è mostrarsi uniti. Proni entrambi — Chiesa e mondo — al medesimo ideale di “dignità dell’uomo”, dimenticando però la Chiesa che il suo concetto di “dignità dell’uomo” è antropologicamente opposto a quello del mondo: obbediente e dipendente invece che imperante e indipendente, ed è detto tutto, con buona pace di Papa Paolo VI, del suo discorso all’ONU dell’ottobre 1965 e della sottoscrizione che di quel discorso fecero tutti i Papi suoi successori da allora a oggi. Ma tale unità, tale fraternità – questo il punto – è in tutta verità una subalternità. la subalternità della Chiesa al mondo come ieri con l’impero, perché in questa ideale e impossibile diarchia mondo-Chiesa, la Chiesa, prima conducente il mondo, ora è condotta dal mondo, prima Maestra, ora ne è diligente discepola, e ciò per quel sempre più radicato timor hominis di cui dissi ai §§ 33-5.
Per ritornare alle parole del Papa sull’aereo, non importa se poi tutti i giornali del mondo le sintetizzano nella maniera giornalisticamente parlando più ovvia: «Chi sono io per giudicare un gay?», sfigurata sintesi che cambia tutto il senso della frase: da “problematica e frenata nel giudizio davanti a un molto ipotetico percorso di ascesi in un impegnato e sofferto distacco dall’impurità per santificarsi”, a chiaro “rifiuto di responsabilità giudiziale”, proprio lui che è il supremo Giudice cui è demandato nei secoli ogni giudizio: «Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei Cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei Cieli» (Mt 16,19), (col sottinteso che per “giudicare un gay” si intende solo “l’atto di un gay”).
Parole formalmente impeccabili diventano gravemente discutibili, «pietra tombale» di ogni difesa della fu morale cattolica: “L’ha detto il Papa, e tu, che non sei nessuno, stai zitto!”. Se la morale cattolica è così annientata (di nascosto) dal Papa, Dio pure è annientato (di nascosto) dal Papa.
Il Papa-tv queste translitterazioni semantiche le conosce benissimo, e sa che le sue parole sono inattaccabili se prese alla lettera, ma aprono di fatto le finestre per le più impetuose folate di novità se prese a senso, così raggiungendo il risultato voluto: il mondo lo vede come il liberatore (ora è anche sulla copertina di Time: “Uomo dell’anno” 2013), e nel contempo l’ortodossia — di cui è il consapevole depositario ultimo — è al sicuro. (Parentesi: ma, a proposito dell’uso del termine sproloquiale “gay”: posso qui per favore citare Pietrangelo Buttafuoco, che cita Paolo Isotta? Lo cito: «Gay è parola pezzente. Come dice Paolo Isotta, “gay è una caricatura. Peggio, è un eufemismo: “Un eufemismo piccolo-borghese da mezzacalzetta” (Il Foglio, 1-7-13). Basta, basta “gay”!).
E il metodo “finestre aperte”: la donna di cui, tornando a Civiltà Cattolica, il Papa parla poco dopo, quella con «alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito», ma ora è «risposata e serena con cinque figli», gli permette di aprire una finestra che più spalancata di così non si può: «Che cosa fa – chiede Papa Francesco a tutti noi — il confessore». Il Papa, che fino a oggi, nei secoli, più che domandare, rispondeva, pone oggi la domanda. Risponderanno, i confessori?
Perché l’aborto, pur atto tristissimo, esecrabile: un omicidio, può essere perdonato e dimenticato da Dio una volta ricevuta dalla penitente la confessione in piena contrizione e il fermo proposito di non più cadere. Ma la rottura del matrimonio precedente fa problema, visto che ora la donna ha contratto nuove nozze civili che hanno portato pure abbondante prole, e finalmente — sosterrebbe il Papa — serenità.
Ma quello in cui la donna ora si trova è comunque uno stato permanente di peccato mortale — sarebbe, tecnicamente, concubinato —, dopo aver consumato la rottura di un sacramento, altro peccato. «Che cosa fa — chiede il Papa a questo punto invece di rispondere — il confessore?».
Qui si vuole solo mettere in evidenza che con questa intervista il Santo Padre sembra compiere esattamente quell’opera di forzatura degli animi, inconcepibile da parte di un Papa solo fino a cinque decadi fa, allorché chi era rivestito di tale altissima funzione riteneva suo assoluto dovere indicare con mano ferma la strada da percorrere per superare con serenità, pace e soprannaturale giustizia le sempre nuove difficoltà messe di traverso dal mondo, mentre qui il Papa “diversamente Papa” e “diversamente Francesco” pare perseguire l’esatto contrario: spingere gli uomini più lontani e riottosi al dogma — alti ecclesiastici o minimi fedeli che siano — a coltivare false e fantasiose speranze di rinnovamenti degli ordinamenti e delle leggi morali della Chiesa, tali da permettere l’ingresso di quelle novità che da decenni premono con sempre più insistente potenza alle sue porte, in nome di quella cosiddetta “dignità della persona” di tutta laicissima invenzione, vera zeppa per entrare con tutti i carismi nel sancta sanctorum dogmatico della Chiesa sull’onda lunga dei diritti dell’uomo, che è tutto il contrario dei diritti di Dio e della tutta sua e solo sua legge di vero e forte amore.
Il Katéchon è il papato
(ppgg. 287-290) — Lo scontro sarà ben violento, lo è già. Tuttavia, né più né meno che come a Costanza, o a Nicea, cioè come fu lo scontro intra Ecclesiam ogni volta che essa doveva difendere la sua purezza, ossia il dogma, il Katéchon, dagli assalti dell’impurità dottrinale e/o morale, e che sia violento lo si vedrà dai due Sinodi sulla famiglia del ’14 e del ’15, il terreno è già infiammato al massimo: le scuole novatrici, che sono la larga maggioranza e che hanno dalla loro il Trono più alto, nascoste dietro la “teologia della Persona” stanno lavorando alacremente per arrivare dove non era mai arrivato nessuno; con la stessa tecnica in uso da cinquant’anni per scardinare il dogma senza scardinarlo, ossia raggirandolo col metodo di tenersi al livello pastorale che poi pastorale non è – il Papa ha ribadito più volte di non voler cambiare nulla della dottrina –, anche allorché vengono proposte teologie la cui veridicità andrebbe verificata esaminandole a livello dogmatico, come avvenne con le novità dottrinali del Vaticano II, e cosi pure, analogamente, ai due Sinodi sulla famiglia: scardinare la morale cattolica, per dirla in termini crudi, facendo finta di non scardinarla, ossia aggirandone la fissità dogmatica con il sotterfugio dell’interpretazione, tenendola però a livello squisitamente pastorale, e ciò facendo con il potentissimo e indispensabile fiancheggiamento mediatico del solito mondo liberaloide, vero maestro di tutta l’operazione.
Dice infatti il cardinale Maradiaga al cardinale Muller “Fratello mio, tu sei tedesco, e ragioni con le paratie stagne dei tedeschi, e vedi solo le leggi del vero e del falso e non sai vedere altro. Ma le leggi, fratello, vanno interpretate. È l’ermeneutica della prassi, bellezza”. Ed è con l’asfaltizzazione e il declassamento della teoretica al livello pratico che si realizza finalmente il Vaticano II in un absconditus (cioè solo virtuale, mai formalizzato), strisciante e pastoralissimo Vaticano III: “Le leggi vanno interpretate”.
E in gioco la famiglia, epicentro teoretico e pratico di tutto il sistema spirituale cattolico, della società cattolica e dell’antropologia cattolica. Nella loro folle cecità, i liberal non vogliono ammettere che però, con il cattolico, è in gioco il sistema spirituale dell’intera società, anzi: della civiltà.
Ma non vedete tutti che dalla ricchezza della prole e della famiglia dipende la sopravvivenza della stessa società? I governanti non si avvedono che l’Italia, sterilizzate le proprie donne con gli anticoncezionali, sta da cinquant’anni serenamente suicidandosi, snervando il proprio stesso élan vital, la propria stessa voglia di vivere, la tutta sua e solo sua pulchritudo, cose che sono sempre, anche la pulchritudo, in proporzione diretta col numero e la qualità della prole e della voglia di averla, con lo spirito di responsabilità che ne nasce, con l’economia che la coadiuva, con la cultura che con la voglia di sapere ne nasce: infuturirsi bisogna, e infuturirsi bisogna nella bellezza, e la prole è la benedizione di futuro elargita da Dio, che non a caso è prima di tutto Padre e Figlio, e che benedice chi appunto nelle generazioni dei padri nei figli si modella a tali due Esempi altissimi di vita.
Con la distruzione della famiglia la cultura laicista, pur di fermare i propri falsissimi diritti e così vincere la Chiesa e tutto ciò che essa rappresenta (l’eroico «non ti è lecito» del Batosta al libertino Erode Antipa di Mt 14,4), si sta in realtà autodistruggendo, e vuole trascinare nella sua autodistruzione della Chiesa. Tutte le sue istanze ruotano intorno alla famiglia solo per svuotarla, soffocarla, isterilirla, senza rendersi conto che così facendo è a sé che procura la morte, asfissiandosi: 1), le famigerate teorie di gender che stanno invadendo il mondo con la feroce dittatura – “democratica” dittatura, ma dittatura — della più irrazionale, innaturale e proterva istanza che si dice “culturale”, ma neanche culturale è (non hanno neppure un filosofo che sia uno che ne faccia la teorie»), sulla schietta e umile istanza naturale del maschio e della femmina, del padre e della madre, solo dai quali il mondo riceve figli; 2), l’omosessualismo che ne è l’altrettanto artificiale, legnoso e ancor più protervo mandante; 3), la cultura abortista – altro artificio, oltretutto crudelmente omicida —; 4), la liberalizzazione di ogni sorta di unione non-matrimoniale e specialmente non-sacramentale, che si tenta di far entrare nella Chiesa, ultima roccaforte della natura e della ragione contro la dittatura, l’artificio e l’irrazionalità, allorché essa dovesse liberalizzare — non lo farà mai – il sacramento dell’Eucaristia a persone pseudo-legate fuori della purezza del matrimonio cattolico, ecco: tutte queste istanze artefatte, innaturali, sommamente immorali, fortemente tiranniche e totalitariste, sono solo altrettante picconate al bene naturale e inalienabile del sacro istituto della famiglia.
La Chiesa, in tutto ciò, sembra confusa al massimo, divisa in un marasma di spinte contrapposte, dove i novatori cercheranno di far passare la linea (peraltro vincente già ai tempi del primo post-concilio) del divide et impera: che ogni Chiesa nazionale, o ogni vescovo, faccia come crede, caso per caso, e risolva sul piano pratico e particolare ciò che la legge, ossia il teoretico e l’universale, non permetterebbe.
Questo è ciò che molto probabilmente intende il Papa per «attuatone del Vaticano II»: portare tutto sul piano della prassi, della pastorale, perché su tale piano, che cinquant’anni fa fu la genialata del marchio novatore, l’ingegnosa invetio di quella sciagurata assise, si risolve ogni cosa, anche le difficoltà imposte dal katéchon: si, la legge c’è, parrebbe dire l’odierno e conclamato “Realizzatore ultimo” del concilio, il Papa “diversamente papa” Bergoglio, ma poi, senza lasciarsi «ossessionare» dai suoi lacci, bisogna saperla interpretare. È ciò che [Roberto] de Mattei individua come la nuova «ermeneutica dei fatti» (Il Foglio, 26-11-2013), che si butta alle spalle ogni cavillosa ermeneutica teoretica del passato, roba da doganieri: oggi la dottrina non è neanche un problema sentito, ci dicono dall’America — ma potrebbero dirlo dall’Italia come dalle Filippine —, che è a dire che oggi il dogma non c’è più: il katéchon, se non si vede e non si sente, neppure c’è.
Ma la Chiesa deve scegliere: «Dio non ci ha chiamati all’impurità — ammonisce l’Apostolo —, ma alla santificatone. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito [di discernimento]» (1 Ts 4,7-8).
E se la Chiesa deve scegliere, è il Papa che deve scegliere, perché la Chiesa è il Papa.