Gesù Cristo (*)
Descendit de caelis – discese dal cielo
La parte cristologica del cosiddetto Credo niceno descrive il Signore anzitutto come «Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, generato non creato, della stessa sostanza del Padre: per mezzo di lui tutte le cose sono state create».
Con queste affermazioni il Credo si ferma a ciò che esiste prima della creazione del mondo. Il passaggio alla figura terrena di Gesù viene operato con la proposizione: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo»
Il concetto di ‘discesa’ presenta certamente difficoltà di comprensione per l’uomo d’oggi. Queste si manifestano in due direzioni. Innanzitutto ci si chiede: Dio si rende forse dipendente dall’uomo? Ciò che è casuale può costituire il fondamento dell’Eterno? Il fondamento per Dio e il suo agire non può, forse, essere sempre null’altro che Dio stesso? Può Dio agire diversamente che per Dio? Oppure, è possibile che Dio agisca in modo divino, per Dio, proprio quando egli agisce per l’uomo?
Un’altra difficoltà, non così grave, è ancor più evidente: non si presuppone qui, forse, quel mondo a tre piani che appartiene al mito? Non ci si immagina, forse, un Dio che abita in alto, sopra le nubi, mentre gli uomini vivono sotto e la terra sia il suolo della creazione, sul quale Dio deve scendere per ripristinare l’ordine dell’universo?
Sullo sfondo, però, si pone anche tutta una serie di interrogativi che vanno ben oltre quelli che abbiamo appena formulati e che, al tempo stesso, per alcuni aspetti, li risolvono: non ci piace l’idea che qualcuno si ‘abbassi’ verso un altro. Noi non vogliamo una ‘condiscendenza’, ma uguaglianza.
Al «descendit de caelis» preferiamo la parola della Scrittura «deposuit potentes de se-de» (depose i potenti dai loro troni), anche se esiste uno stretto legame fra le due proposizioni, poiché quel Dio che discende è colui che sbalza i potenti dal trono, per innalzare a primi coloro che finora venivano considerati ultimi. Noi preferiamo, però, che la detronizzazione dei potenti avvenga per opera nostra, senza presupporre la discesa di Dio. L’immagine di un mondo che non conosce più un ‘sopra’ e un ‘sotto’, un mondo omogeneo privo di punti di riferimento, non è qualcosa di puramente esteriore, risponde anche a un nuovo modo di accostarsi alla realtà, dove l’idea di ‘sopra’ e ‘sotto’ è considerata una illusione e ogni ‘sopra’ va eliminato a favore dell’uguaglianza, della libertà e della dignità dell’uomo.
Concludendo, potremo dire che se Dio è disceso, se ora egli è sotto, allora anche il ‘sotto’ è diventato un ‘sopra’. Allora è crollata l’antica separazione di ‘sopra’ e ‘sotto’. Allora è cambiata l’immagine del mondo, ma anche l’immagine dell’uomo. È cambiata, però, proprio a opera del Dio che è disceso.
Resta dunque il fatto incontrovertibile e insostituibile che Dio è disceso. Ciò, a sua volta, significa che c’è l’altezza, la gloria, la signoria di Dio e di Gesù Cristo: l’elevatezza assoluta della sua parola, del suo amore, della sua potenza. C’è il ‘sopra’ – Dio: il secondo articolo di fede non elimina il primo. Anche nella discesa, nell’abbassamento e nascondimento estremi, Dio rimane il vero ‘sopra’.
Prima di affrontare il problema della storia di salvezza bisogna professare energicamente la fede: «Dio è». Prima di ogni altra riflessione bisogna richiamare alla memoria la sublimità inviolabile di Colui dal quale tutto proviene. Se questo non è chiaro, anche la discesa di Dio perde le sue reali dimensioni e sfocia nella generica monotonia del ritorno senza scopo di ciò che è eternamente uguale. Ma in que¬to caso non è soltanto il dramma della storia, il dramma dell’essere uomo a perdere ogni sua tensione e senso, ma l’uomo stesso si rimpicciolisce, egli non è allora più il ‘sopra’ nel mondo, ma viene a coincidere con i capricci con cui il mondo sperimenta le sue possibilità, l’«animale non ancora stabilizzato» (Nietzsche).
Se si vuol capire la discesa, bisogna prima aver capito il mistero dell’altezza, che qui viene indicato con la parola ‘cielo’. All’inizio sta il mistero del roveto ardente, la potenza che ci impone rispetto e stabilisce i criteri. Ma il fuoco del roveto ardente non è il fuoco universale della filosofia stoica: da esso esce una voce, da esso si manifesta Dio che ha ascoltato il gemito delle creature asservite, il grido di aiuto d’Israele.
Questo fuoco è già al tempo stesso la discesa di Dio, che sta presso i perduti. Come primo risultato delle nostre riflessioni potremo allora dire che non si tratta di una discesa ‘geografica’ da un piano superiore del mondo a uno inferiore. Qui si tratta di qualcosa di ben più profondo, che può essere simboleggiato mediante un’immagine cosmica: il movimento dall’essere di Dio all’essere umano, e più ancora il movimento dalla gloria alla croce, il movimento verso gli ultimi che, proprio grazie a esso, diventano i primi.
Certamente riusciremo a capire la profondità di ciò che si intende con la parola ‘discesa’, solo se seguiremo la lunga evoluzione che essa ha conosciuto negli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento, dove inizia come un rigagnolo, che poi si rigonfia in un torrente dai molti affluenti. Nel racconto della Torre di Babele incontriamo per la prima volta la ‘discesa’ di Dio, una discesa adirata, alla quale si affianca, nel racconto del roveto, una nuova discesa ispirata alla compassione e all’amore.
In questa meditazione vorrei scegliere, soltanto a titolo di esempio, un testo dall’Antico e uno dal Nuovo Testamento, dai quali traspare con particolare chiarezza il significato storico della ‘discesa’ di Dio, benché entrambi non utilizzino il termine.
Analizziamoli.
- Le fiere e il Figlio dell’Uomo in Dan.7
Possiamo ragionevolmente datare il libro di Daniele, nella forma in cui oggi si presenta, negli anni compresi fra il 167 e 163 a.C, quindi nel periodo della più dura persecuzione che la fede israelitica ha subito a opera del re ellenistico Antioco IV Epifane. Nella tribolazione estrema in cui la fede del popolo di Dio, la sua speranza storica, sembra essere condotta definitivamente all’assurdo, il veggente si forma una nuova visione della storia nel suo complesso. Dopo l’esilio Israele non vede soddisfatte le sue aspettative. E’ rimasto un popolo dipendente, miserabile; non è riuscito a ottenere la propria autonomia, né a ricostruire il tempio splendido che Ezechiele aveva predetto: al suo posto ha potuto a fatica costruire solamente un povero sostituto, che è ben lontano dalla magnificenza del primo tempio. Del pellegrinaggio dei popoli verso Israele non c’è traccia, anzi è Israele stesso, spinto dalla miseria, a disperdersi fra i popoli. La vittoria di Alessandro Magno e il dominio dei Diadochi ellenistici hanno fatto svanire definitivamente ogni speranza di miglioramento. Nel popolo serpeggia lo scetticismo. Se Giobbe aveva osato confrontarsi drammaticamente con Dio, Qohelet si presenta ormai stanco e rassegnato: tutto è vano e non rimane altro che prendere dalla vita ciò che essa offre. Alla fine l’illuminismo greco si impone in un vuoto che si sta aprendo alla razionalità di questa cultura universale e che può vantare la legittimazione del potere, del successo ottenuto. Delle opportunità vengono offerte soltanto a chi accetta l’apertura mentale e la libertà spirituale dell’Eliade; la via del progresso, che scorre lungo la storia, è ormai chiara. La circoncisione non viene praticata più, anzi è considerata un ripugnante rito pagano. Si costruiscono i ginnasi, che diventano i nuovi centri di cultura umanistica. Sempre più decisamente gli dèi illuminati della Grecia si sostituiscono a YHWH.
In questa situazione, per i pochi credenti rimasti in Israele, per un’esigua minoranza che non ha capito il progresso, Antioco IV Epifane diventa il simbolo soprattutto delle potenze della storia nemiche di Dio. Daniele chiama questo personaggio «piccolo corno» (7,8), che però fa dei discorsi mirabolanti. È un ridicolo re provinciale, ma ciò che irrita è appunto il fatto che questo ‘piccolo corno’ possa dileggiare il Dio d’Israele, calpestare la fede di Israele. Il veggente osserva la tribolazione del momento presente nell’intero decorso del processo storico: questo corno appartiene al quarto regno; la storia del mondo viene, di volta in volta, dominata da quattro fiere che emergono dal mare.
Ma alla fine la terra verrà consegnata a colui che viene dall’alto e che è «come un Figlio di uomo». Ciò che è decisivo è il contrasto: le potenze che hanno finora dominato la terra sono animali che vengono dal basso, dal mare, il simbolo di tutto ciò che è inquietante, pericoloso e malvagio. Di fronte a esse si pone l’Uomo, Israele; l’Uomo viene dall’alto, dallo spazio di Dio. Per il veggente la storia ripete così, sotto un certo aspetto, lo svolgersi della creazione del mondo, come lo rappresenta il racconto della creazione: all’inizio sono le fiere a popolare la terra, ma alla fine, quando Dio avrà domato la potenza del caos, avrà imposto al mare i suoi confini, sarà l’uomo a esercitare la sua signoria sul mondo.
Nelle tribolazioni del momento la promessa di Daniele suona dunque: non abbiate paura, perché se ora dominano le fiere, alla fine la storia porterà a compimento le promesse della creazione.
L’immagine del Figlio dell’Uomo nel libro di Daniele, nella quale l’Israele afflitto manifesta la speranza che un giorno il potere blasfemo dei Diadochi ellenistici, di queste fiere che vengono dal profondo, verrà sconfitto, ha costituito un presupposto fondamentale per la professione di fede nella discesa di Dio nel Figlio dell’Uomo Gesù Cristo.
La ritroviamo così sullo sfondo della proposizione del nostro Credo: a ciò che viene dal basso, al potere bestiale che con la sua brutalità devasta il mondo, si oppone l’ “Uomo” che viene dall’alto. Questa antitesi è tale che include allo stesso tempo sia la sua impotenza, sia la sua vittoria. La sua impotenza deriva dal fatto che l’Uomo non è una fiera, non è munito di fauci voraci, di denti di ferro, di artigli di bronzo e di corna, che producono un forte rumore. Al contrario, egli si presenta come individuo indifeso, perduto. Ma in questa immagine si esprime anche la sua vittoria: alla fine l’uomo dominerà le fiere, le domerà con la potenza diversa e misteriosa dello spirito e del cuore, che gli è stata data. Alla fine il potere apparterrà a lui, ma in questo modo il ‘potere’ verrà al tempo stesso trasformato.
Gesù, il Figlio di Dio, è venuto, in quanto uomo, tra le fiere. Nella debolezza dell’uomo egli ripristina la sovranità di Dio. Proprio nel segno della debolezza, che si contrappone alla brutalità, egli incarna la superiorità di Dio. Viene tra le fiere senza diventare una fiera, senza assumerne i metodi. Verrà divorato, ma proprio così le vincerà. Proprio la sconfitta accettata rappresenta la vittoria del diverso: non esiste soltanto l’animalesco, ma anche l’«amore sino alla fine» (Gv.13,1). In questo l’uomo viene ripristinato. Egli cammina tra le fiere in figura di uomo. Ciò significa che egli cerca quelli che sono con lui, che si pongono dalla sua parte, che si fidano del potere dell’ “Uomo dall’alto” e si lasciano così redimere.
- L’autore della lettera agli Ebrei riprende dapprima il concetto di fondo, che cioè i sacrifici animali non sono adatti a stabilire un corretto rapporto fra Dio e l’uomo. Prosegue poi dicendo: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, ma un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Sal.39,7-9/Eb.10,5-7).
Citando un detto del Salmo 39, che viene posto sulle labbra di Gesù quando fa il suo ingresso nel mondo, la lettera ci propone una teologia corretta dell’incarnazione, dove non è rimasta più traccia dei ‘piani’ cosmici. ‘Discendere’, ‘entrare’ vengono intesi piuttosto come un evento di preghiera. La preghiera è qui concepita come un vero processo che coinvolge l’intera esistenza e la inserisce in un movimento che la trascende. Qui l’ingresso di Cristo nel cosmo viene compreso come un avvenimento di volontà e di parola, come la realizzazione effettiva di quell’orientamento del pensiero e della fede che riscontriamo nella spiritualità di molti salmi.
Cerchiamo ora di analizzare meglio il testo del salmo e la trasformazione che ha subito nel Nuovo Testamento. Che cosa ci dice questo salmo? È il ringraziamento di colui che Dio ha risuscitato dai morti . Ma l’orante, a partire dalla sua concezione religiosa, non ringrazia Dio offrendogli, per esempio, un sacrificio animale. Egli si muove sulla linea della tradizione profetica e dice: Tu non gradisci sacrifici e offerte, ma mi hai aperto gli orecchi.
Ciò significa che Dio non vuole cose, ma l’ascolto da parte dell’uomo, la sua obbedienza, quindi la sua stessa persona. È questo il ringraziamento vero, a Dio adeguato: l’entrare dentro la volontà divina.
Per la lettera agli Ebrei queste parole del salmo illustrano quel dialogo fra Padre e Figlio che l’incarnazione è. Attraverso di esse l’incarnazione le appare come un processo intratrinitario, spirituale. Alla luce dell’adempimento, la lettera agli Ebrei cambia soltanto una parola: al posto degli orecchi, dell’ascolto, ora è subentrato il corpo: mi hai preparato un corpo. Per ‘corpo’ qui si intende l’essere umano, l’essere con la natura umana. L’obbedienza si incarna. Il suo supremo adempimento non si esaurisce più nel puro ascolto, ma è ‘incarnazione’. La teologia della Parola diventa teologia dell’Incarnazione.
La dedizione del Figlio al Padre è frutto di un dialogo intradivino: diventa accettazione e così offerta della creazione riassunta nell’uomo. Questo corpo, o meglio l’essere uomo di Gesù, è il prodotto dell’obbedienza, il frutto dell’amore del Figlio che risponde al Padre. È, per così dire, una preghiera divenuta concreta. In questo senso l’essere-uomo di Gesù è già un contenuto interamente spirituale, di origine ‘divina’.
Riflettendo meglio, ci si accorge allora che l’abbassamento dell’incarnazione, anzi, la umiliazione della croce, risponde profondamente al mistero stesso dell’essere-figlio: figlio, secondo la sua natura, è il dono e la restituzione di se stesso, appunto ciò costituisce il suo essere-figlio. Figlio, trasposto nella creazione, significa: «Fattosi obbediente fino alla morte di croce». Il testo, però, scende poi dalla sublimità del mistero, per rivolgersi direttamente alla nostra realtà: noi diventiamo Dio non ponendoci in modo autarchico, non cercando l’autonomia senza limiti del totalmente emancipato. Simili tentativi sono destinati a fallire per la loro stessa contraddizione interna, per la loro profonda falsità. Noi diventiamo Dio seguendo l’esempio del Figlio, diventiamo Dio divenendo ‘figli’. Lo diventiamo, dunque, inserendoci nel dialogo che Gesù intrattiene con il Padre, e inserendo questo dialogo con il Padre nella carne della nostra vita quotidiana: «Un corpo mi hai preparato…».
La nostra salvezza consiste nel diventare ‘corpo di Cristo’, come Cristo stesso: nell’accettazione quotidiana di noi stessi, per amore di lui; nel quotidiano restituire; nell’offrire quotidianamente il nostro corpo come luogo della Parola. Lo diventiamo ponendoci alla sua sequela, scendendo e salendo. E questo è appunto il contenuto della parola: descendit de caelis. Essa parla di Cristo, ma anche di noi. Questa professione di fede non può esaurirsi nel dire, ma dalla parola rimanda al corpo: risulterà verace soltanto all’interno del movimento dalla parola al corpo e dal corpo alla parola.
«… e si è fatto uomo»
L’affermazione che riguarda l’Incarnazione di Dio è la proposizione centrale del Credo cristiano. Attorno a essa ruota la riflessione dei teologi di tutti i secoli, i quali hanno cercato di cogliere in essa, come in uno specchio, qualcosa del mistero di Dio e dell’uomo. Non è questo il luogo in cui sollevare le grandi e profonde questioni che si pongono.
Vogliamo piuttosto cercare di individuare solo un sentiero teologico che, a partire da ciò che è vicino e semplice, ci permetta di cogliere quello che è grande e lontano in ciò che tocca la nostra vita. A questo riguardo ci lasceremo guidare dalla seguente idea: è possibile considerare l’essere-uomo alla luce delle sue componenti fondamentali, spirito e corpo, Creatore e creazione, il singolo e la comunità, la storia come lo spazio della nostra esistenza. Ma è possibile tener conto, oltre che di queste grandi e complesse strutture che inseriscono il singolo in un tutto, anche del fatto che la persona singola non possiede mai la propria vita perfettamente e interamente nell’istante: anche nell’individuo singolo la vita si dilata nel tempo, e ‘quest’uomo’ in definitiva è soltanto la totalità di questa struttura temporale.
In questa temporalità della singola persona si sviluppa anche il nesso tipicamente umano tra la sfera biologica e quella spirituale: il tempo dell’uomo è caratterizzato dallo sviluppo biologico dall’infanzia, alla maturità, alla vecchiaia, fino alla morte. In queste fasi biologiche si struttura la sua vita. La religiosità del Medioevo e della prima età moderna, nel suo riflettere sull’essere-uomo di Gesù, ha rivolto prevalentemente l’attenzione proprio a questo contenuto; parlava dei ‘misteri della vita di Gesù’, che intendeva come le singole fasi dell’itinerario storico-terreno di Gesù.
La preghiera contemplativa, cui seguì la pittura meditativa, si immergeva con entusiasmo in queste ‘acque’ della vita di Gesù, al fine di sperimentare il più possibile da vicino quella realtà incommensurabile che noi professiamo quando diciamo che «il Figlio di Dio si è fatto uomo».
Sarebbe proprio impossibile ripercorrere questo cammino? Qui cercheremo di muovere solo qualche passo, riflettendo soprattutto su che cosa significhi che Gesù ha vissuto l’essere-uomo nelle fasi dell’infanzia, maturità e morte.
– continua
Altri capitoli del libro:
– Il Dio di Gesù Cristo Meditazioni sul Dio Uno e Trino
– Il Dio di Gesù Cristo Dio il Creatore
– Il Dio di Gesù Cristo La questione di Giobbe
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* Titolo originale:
Der Gott]esu Christi. (Il Dio di Gesù Cristo) Betrachlungen uber den Dreieinigen Gali © 1976,2005 by Kòsel-Verlag GmbH & Co, Munchen © 1978,2005 2 by Editrice Queriniana, Brescia via E. Ferri, 75-25123 Brescia (Italia/UE) tei. 030 2306925 – fax 030 2306932 internet: http://www.queriniana.it e-mail; direzione@queriniana.it
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