Il messaggio natalizio nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma (*)
“Le feste Cristiane in compagnia di Benedetto XVI”
Ogni volta che, provenendo dalle rumorose strade di Roma, entro nella basilica di Santa Maria Maggiore, sento tornarmi alla mente l’invito del salmista: «Fermatevi e vedete» (Sal.46,11). Quando non accade che schiere di turisti estivi attraversino in gran fretta la chiesa, trasformandola in una sorta di strada, dalla misteriosa penombra di questo luogo arriva un invito al silenzio, al raccoglimento e alla contemplazione, che riesce a togliere importanza ai rumori quotidiani.
È come se la preghiera dei secoli fosse rimasta presente, per prendere anche noi e portarci con sé. Gli spazi più silenziosi dell’anima, che di solito sono come travolti e risucchiati dalle preoccupazioni e dagli affanni di tutti i giorni, ritornano liberi quando ci abbandoniamo al ritmo di questa dimora di Dio e del suo messaggio.
Ma che cos’è questo messaggio? Chi pone la domanda in questo modo corre già il rischio di sottrarsi alla particolare chiamata che potrebbe giungergli in questo luogo. Non si può trasporre quel che esso vuole dirci in una facile e veloce risposta da dizionario. Questo messaggio esige che si esca dal fuoco incrociato degli interrogatori e ci chiama, invece, a una sosta, in cui si destino le capacità del cuore di ascoltare e vedere; una sosta che ci porti finalmente al di fuori di ciò che si afferra rapidamente e altrettanto rapidamente si getta via.
Per questo, anziché darvi una risposta fatta di formule e di concetti, desidero invitarvi a guardare con me due immagini di questa chiesa e a lasciare che siano esse a dirci in una pausa di riflessione quel che io solo in parte posso cercare di tradurre in parole.
Qui c’è anzitutto qualcosa di davvero mirabile. Questa chiesa è dedicata alla Natività.
Come edificio, essa si propone di ripetere anche a noi quello stesso invito che l’angelo aveva dapprima rivolto ai pastori: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo. Oggi è nato per voi un salvatore, che è Cristo, il Signore…» (Lc.2,10s). Nel contempo, però, questa dimora di Dio vuole renderci partecipi della risposta dei pastori: «Andiamo e vediamo quanto qui è avvenuto e che il Signore ci ha annunciato» (Lc.2,15). Ci si aspetterebbe quindi di trovare l’immagine della Santa Notte al centro di questo luogo e del proprio percorso. In effetti così è, ma, ad un tempo, non è così.
I mosaici lungo ambedue i lati della navata maggiore interpretano tutta la storia come una processione dell’umanità verso il Redentore. Al centro, sopra l’arco trionfale, proprio nel punto dove si conclude il cammino e dove ci si aspetta di vedere rappresentata la nascita di Cristo, troviamo invece un trono vuoto e su di esso una corona, un mantello regale e la croce; sullo sgabello, ai suoi piedi, si trova, come un cuscino, il fascio della storia, tenuto assieme da sette nastri rossi.
Il trono vuoto, la croce e la storia ai suoi piedi: è questa l’immagine natalizia di questa chiesa, che voleva e vuole essere la Betlemme di Roma. Ma perché proprio questa immagine? Se vogliamo comprendere ciò che questa immagine vuole dire, dobbiamo anzitutto ricordarci che l’arco trionfale si trova proprio sopra la cripta, che originariamente era stata costruita come imitazione della grotta di Betlemme in cui Cristo è venuto al mondo. Qui veniva e viene ancora venerata la reliquia ritenuta dalla tradizione la mangiatoia di Betlemme. Ed è proprio qui sotto che viene trascinata l’intera processione della storia: nella grotta, nella stalla; le immagini precipitano nella realtà.
Il trono è vuoto, perché il Signore è sceso giù nella stalla. Il mosaico centrale, cui tutto si dirige, è a sua volta solo la mano che ci viene tesa per trovare il salto dalle immagini alla realtà. Il ritmo del luogo ci travolge in un repentino cambiamento, facendoci bruscamente passare dalle sublimi altezze dell’arte antica dei mosaici alle profondità della grotta, della stalla. È il passaggio dall’estetica religiosa all’atto di fede, a cui quel , ritmo vuole condurci.
Il silenzio che si crea in questa costruzione dei secoli, l’essere coinvolti dalla bellezza e dalla grandezza di ciò che si contempla in essa, il presago contatto con la grandezza, con il totalmente altro, con l’Eterno, è questo il primo dono che ci deriva dall’incontro con questa chiesa, ed è qualcosa di sublime e di nobile, di cui noi oggi abbiamo proprio bisogno. Ma non è tutto. Resterebbe un bel sogno, un sentimento passeggero, che non riesce a creare legami e che proprio per questo rimane privo di forza, se non ci lasciassimo trasportare al passo successivo, al sì della fede. Solo allora diventa evidente che la grotta non è vuota.
Il suo vero contenuto non è la reliquia conservata come la mangiatoia di Betlemme. Il suo vero contenuto è la Messa di mezzanotte per la nascita di Cristo. Solo qui avviene in maniera definitiva il passaggio alla realtà. Solo qui siamo giunti all’immagine natalizia, che non è più solo un’immagine. Solamente se ci lasciamo trasportare fino a qui dal messaggio di questo spazio, torna a rinnovarsi per noi quell’oggi: «Oggi è nato per voi il Salvatore». Sì, proprio oggi.
Con tali pensieri possiamo ora volgerci all’altra immagine di Santa Maria Maggiore che desidero presentarvi brevemente, l’antichissima immagine mariana conservata nella Cappella Borghese con il titolo Salus populi Romani.
Per comprendere quel che essa vuole dire al visitatore, a noi, dobbiamo ritornare ancora una volta all’idea posta all’origine di questa chiesa. Essa è una chiesa dedicata alla Natività – come abbiamo già detto -, costruita come una sorta di guscio intorno alla stalla di Betlemme, che qui, a sua volta, è intesa come immagine del mondo e della Chiesa di Dio, ma che nel contempo esige il pieno superamento di tutte le immagini e di tutto ciò che è puramente estetico.
Ora, qualcuno potrebbe obiettare che questa non è proprio una chiesa dedicata alla Natività, cioè a Cristo, ma una chiesa dedicata a Maria, anzi la prima chiesa mariana di Roma e dell’Occidente. Una simile contrapposizione mostrerebbe però che chi pone la domanda in questi termini non ha capito l’essenziale tanto della pietà mariana della Chiesa, quanto del mistero del Natale.
Nella struttura interna della fede cristiana il Natale ha infatti un’importanza tutta particolare. Noi non lo celebriamo come facciamo per i compleanni e gli anniversari di grandi uomini, anche perché il nostro rapporto con Cristo è ben altra cosa dalla venerazione tributata ai grandi uomini. Ciò che interessa di questi ultimi è l’opera: i pensieri che essi hanno elaborato e scritto, i capolavori che hanno realizzato, le istituzioni che ci hanno lasciato. Quest’opera appartiene a loro e non è l’opera delle loro madri, le quali ci interessano solo nella misura in cui da esse è possibile trarre qualche elemento utile a chiarire quelle determinate opere.
Ma Cristo per noi non conta solo per la sua opera, per quello che ha fatto, bensì soprattutto per quello che è stato ed è – nella totalità della Sua Persona. Egli conta per noi in maniera diversa da ogni altra persona, perché Egli non è solo uomo. Egli conta, perché in Lui terra e cielo si toccano e così in Lui anche Dio può essere toccato da noi come uomo.
I Padri della Chiesa hanno chiamato Maria la «santa terra» da cui egli è stato plasmato come uomo, e ciò che è meraviglioso è che Dio in Cristo resta per sempre collegato alla terra. Agostino una volta ha formulato così questo stesso pensiero: Cristo non ha voluto avere un padre umano per mantenere visibile la sua figliolanza da Dio, ma ha voluto una madre umana: «Ha voluto accogliere in sé la condizione maschile e si è degnato di onorare quella femminile in sua madre…
Se Cristo fosse apparso come uomo senza rispettare la condizione femminile, allora le donne dovrebbero disperare di se stesse… Ma egli ha onorato ambedue, ha rispettato ambedue, ha accolto ambedue. Dalla donna egli è nato. Non disperate, uomini: Cristo si è degnato di essere uomo. Non disperate, donne: Cristo si è degnato di nascere dalla donna. Ambedue i sessi cooperano alla salvezza: venga il maschile, venga il femminile – nella fede non c’è più né uomo né donna».
Cerchiamo di esprimerlo anche in un altro modo: nel dramma della salvezza Maria non doveva ricoprire una parte per poi ritirarsi, come qualcuno il cui ruolo è finito. L’Incarnazione dalla donna non è una parte, un ruolo, che dopo poco tempo è esaurito, ma è il permanente stare di Dio con la terra, con l’uomo, con noi che siamo terra. Per questo la festa di Natale è una festa mariana e insieme anche una festa cristologica; per questo una chiesa dedicata alla Natività deve anche essere una chiesa dedicata a Maria.
Con questa idea dovremmo guardare l’antica, misteriosissima immagine che i romani chiamano Salus Populi Romani. Secondo la tradizione è questa l’immagine che Gregorio Magno ha portato in processione per le vie di Roma nell’anno 590, quando la peste tormentava la città. Al termine della processione l’epidemia cessò, Roma era tornata di nuovo sana. Il nome dell’immagine vuole comunicarci proprio questo: da qui Roma, da qui gli uomini possono sempre ritrovare la salute. Da questa immagine, insieme giovane e veneranda, dai suoi occhi sapienti e benevoli, ci guarda la bontà materna di Dio.
«Voglio consolarvi, come consola una madre», ci dice Dio con le parole del profeta Isaia (66,13). Questa consolazione materna Dio la compie di preferenza attraverso la madre, attraverso sua madre, e chi potrebbe meravigliarsene? Davanti a questa immagine cade la nostra pretesa di autogiustificarci; si sciolgono i blocchi del nostro orgoglio, la paura del sentimento e tutto quello che ci rende interiormente malati. Depressione e disperazione dipendono dal fatto che l’equilibrio dei sentimenti viene a trovarsi in disordine o crolla del tutto.
Non vediamo più nel mondo ciò che può scaldare e consolare, ciò che è buono e fonte di salvezza, tutto ciò che possiamo recepire solamente con il cuore. Nel gelo di una conoscenza che è stata recisa dalle sue radici, il mondo diventa disperazione. Per questo accogliere questa immagine restituisce la salute. Ci ridona la terra della fede e dell’essere uomini, quando accogliamo interiormente quel che essa ci dice, quando non ci chiudiamo di fronte a lei.
Come abbiamo detto, la vicinanza dell’arco trionfale alla grotta ci insegna il passaggio dall’estetica alla fede. L’immagine della Salus Populi Romani, invece, può portarci un passo più avanti. Ci aiuta a liberare la fede dall’affanno della volontà e della ragione e a ricondurla nella profondità di tutto il nostro essere. Ci ridona l’estetica rinnovata e più grande: se abbiamo seguito la chiamata del Redentore, possiamo riguadagnare anche il linguaggio della terra che lui stesso ha fatto suo.
Possiamo aprirci alla vicinanza della madre, senza paura di falsi sentimentalismi e senza paura di precipitare nel mitico. Tutto questo diventa mitico e malato solo quando lo strappiamo dal grandioso contesto del mistero di Cristo. Allora quanto è stato da noi rimosso torna in forme esoteriche, in immagini confuse, le cui promesse sono vuote e ingannevoli. Nell’immagine della Madre del Redentore appare la vera consolazione: Dio ci è vicino fino a toccarci, anche oggi. Se, fermandoci in atteggiamento di contemplazione in questa chiesa, ci accorgiamo di questa consolazione, allora il suo messaggio si è fatto strada in noi, guarendoci e cambiandoci.
Grazie.
________________
(*) serie di omelie, o interventi, dell’allora cardinale Ratzinger raccolti nel libro: “Immagini di speranza – Le feste cristiane in compagnia del Papa” – Ed. Paoline 2005 – cliccare qui per l’acquisto del libro. Questo testo è del 1996.
– In questo link troverete l’indice degli interventi di Benedetto XVI