Premessa
“Non stiamo disertando il Sinodo e non invitiamo alcuno a porsi CONTRO qualcuno… vogliamo solo che sia chiaro che un Sinodo è uno strumento attraverso il quale o passa LA VERITA’ o non passa nulla di buono, tertium non datur, non esiste un’altra via o una via di mezzo, il compromesso perché, come afferma sant’Ireneo proprio contro le eresie: Si tratti di un grande oratore o di un misero parlatore, tutti insegnano la medesima verità. Nessuno sminuisce il contenuto della tradizione. Unica e identica è la fede. Perciò né il facondo può arricchirla, né il balbuziente impoverirla”...”
Cari Amici, da tempo non facciamo altro che sentire parlare di “sinodalità“, persino il Messaggio per la Quaresima 2023 del Pontefice Papa Francesco ha avuto come cuore del discorso non la conversione a Cristo o il pentimento dei propri peccati, ma alla sinodalità… convertirsi alla sinodalità!
In questa Quaresima anziché sentire parlare di penitenza, conversione al Cristo, pentimento dei propri peccati, tutto è rivolto all’attenzione al Sinodo di ottobre prossimo a tal punto che persino molti Esercizi spirituali di questo Tempo, hanno avuto come tema la sinodalità…
Premesso che il “Sinodo” è un evento ed uno strumento legittimo nella Chiesa che, in questi duemila anni, ha sempre avuto lo scopo di riunire i Vescovi, ascoltare i vari problemi ecclesiali e risolverli dottrinalmente; altra cosa è il concetto che da anni si vuole esprimere ed imporre, come un mantra, con il termine di “sinodalità”…
Dicevamo, dunque, che il Sinodo c’è sempre stato nella Chiesa, vale allora la pena di domandarci e capire perché Paolo VI sentì la necessità di “fondare” una nuova “istituzione” di Sinodo?
Fu, infatti, papa Paolo VI che lo istituì il 15 settembre 1965 in risposta al desiderio dei padri del Concilio Vaticano II per mantenere viva, si diceva, l’esperienza dello stesso Concilio. Il documento con cui fu istituito questo “nuovo” Sinodo è la lettera apostolica in forma di Motu proprio Apostolica sollicitudo.
In questo documento, inoltre, il Pontefice sottolinea che «il Sinodo dei Vescovi, per il quale vescovi scelti nelle varie parti del mondo apportano al supremo pastore della Chiesa un aiuto più efficace, viene costituito in maniera tale che sia: una istituzione ecclesiastica centrale; rappresentante tutto l’Episcopato cattolico; perpetua per sua natura; quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo ed occasionale».
Il primo Sinodo dei Vescovi, tenutosi nel 1967, è stato incentrato sul tema “La preservazione e il rafforzamento della fede cattolica, la sua integrità, il suo vigore, il suo sviluppo, la sua coerenza dottrinale e storica”.
Se il Concilio fu una sorta di Cavallo di Troia – vedi qui se volete davvero capire ed approfondire – attraverso il quale teologi modernisti imposero le loro ideologie, bisogna anche dire che lo stesso sta accadendo per lo strumento del Sinodo.
Infatti fin da subito si manifestò chiaramente di voler usare i vari sinodi per modificare la dottrina della Chiesa, contrariamente al monito fatto dallo stesso Paolo VI. A dirlo non siamo noi, ma fu una sua denuncia chiara che – il 24 agosto 1968 – ebbe a lamentarsi di questa situazione grave interna, con i Vescovi dell’America Latina, con queste parole:
“…siamo tentati di storicismo, di relativismo, di soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero della Chiesa e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico, un cristianesimo nuovo, su misura d’uomo, e non su misura dell’autentica parola di Dio“…
e non è forse vero che – con la scusa dei nuovi approcci pastorali – si cercano anche nuove IDEE perché, si dice, le sfide sono cambiate e perciò la dottrina non serve più??
Quella che invece non è cambiata affatto è la tentazione di cui parlava Paolo VI con profetica lungimiranza, ossia la pretesa di:
“modellare un cristianesimo a misura d’uomo anziché a misura dell’autentica parola di Dio“, rafforzando piuttosto la fede cattolica, la sua integrità con la sua coerenza dottrinale e storica, come ebbe a dirsi nel primo sinodo sopra citato.
Che poi, a ben vedere, è la stessa tentazione che soggiaceva (e anche qui la musica non è cambiata ma è peggiorata) alle dispute ecclesiologiche degli anni ’70 e ’80, dove s’impose come un mantra la nuova parola d’ordine: inculturazione, dialogo a tutti i costi, aperture, fino all’accompagnamento. Accompagnare sta bene, ma per condurre dove?
Infine occorre sottolineare che il Sinodo – seppur aperto anche ai Laici a motivo però delle proprie competenze in campo ecclesiale, a seconda delle opportunità che si valutano di volta in volta – non è un organo “operativo” … ma è un organo consultivo che si conclude con un elenco di proposte e riflessioni consegnate dai padri sinodali al Papa al quale spetta il Documento finale che diventa “magistero ordinario”. Tutti i testi dalle consultazioni o di lavoro (Instrumentum laboris), sia a livello diocesano quanto dei decanati o comunitari-parrocchiali, tutti i testi che ne derivano restano fermi solo a livello di consultazione o materia di discussione, nessuno può imporre cambiamenti specialmente poi a livello dottrinale attraverso questi testi… l’ultima parola spetta al Pontefice attraverso il Documento finale.
Va anche sottolineato come sia Paolo VI, quanto Giovanni Paolo II e lo stesso Benedetto XVI, tutti loro avevano compreso il rischio di una strumentalizzazione del Sinodo e – bisogna dirlo per onestà della ragione – entrambi si opposero a certe deviazioni ponendo sempre, con i loro propri Documenti finali, una chiave di lettura dottrinale che metteva così la parola “fine” ad ogni tentativo malsano di corruzione della dottrina stessa. Non per nulla Giovanni Paolo II con l’allora cardinale Ratzinger, compresero l’urgenza del Catechismo – vedi qui – non per adattarlo ai tempi ma strutturato per le esigenze di questi tempi e proprio in difesa della dottrina.
L’idea di ristabilire i Sinodi, come nella Chiesa antica, era già sorta nella fase preparatoria del Concilio Vaticano II. Il cardinale Silvio Oddi, allora nunzio apostolico nella Repubblica Araba Unita (Egitto), presentò una proposta il 15 novembre 1959 per istituire un organo di governo centrale della Chiesa, o, per usare le sue parole, un organo consultivo. Diceva: «Da molte parti del mondo giungono lamentele perché la Chiesa non ha un organo consultivo permanente, a parte le congregazioni romane. Pertanto dovrebbe essere istituito una sorta di “Concilio in miniatura” che includa persone provenienti dalla Chiesa di tutto il mondo, che s’incontrino periodicamente, anche una volta all’anno, per discutere le questioni più importanti e per suggerire nuove possibili vie nell’operato della Chiesa. Un organo insomma che si estenda a tutta la Chiesa come le Conferenze Episcopali riuniscono tutta o parte della Gerarchia di un Paese, come altri organi, per es. C.E.L.A.M. (la Conferenza Episcopale dell’America Latina) estendono la propria attività a beneficio di tutto un continente».
“Lamentele” inopportune, perché fanno parte di una serie di iniziative moderniste, ammantate di “servizio alla Chiesa”, delle quali abbiamo già discusso e che semmai specificheremo in un altro articolo.
Durante i suoi 26 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha presieduto 13 Sinodi dei Vescovi. Il secondo dei tre Sinodi Straordinari ebbe luogo nel 1985, per il 20.mo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II. Sotto il suo pontificato iniziarono i Sinodi Speciali dedicati a specifiche aree geografiche. Sinodi che furono seguiti da un’Esortazione apostolica post-sinodale.
Papa Benedetto XVI, nei suoi 8 anni, ha presieduto 5 Sinodi, di cui 2 Assemblee Speciali. Anche lui ha contribuito al ricco patrimonio dottrinale della Chiesa pubblicando Esortazioni apostoliche dopo ogni Sinodo.
Oggi, da dieci anni, le cose sono cambiate – in peggio – da quel primo sinodo di questo pontificato che era sulla Famiglia, dal quale scaturì il confuso e ambiguo documento di Papa Francesco chiamato “Amoris laetitia” il quale – a causa delle tante ambiguità contenute, appunto, vedi qui – spinse 4 Cardinali a dover intervenire con i famosi “Dubia” ai quali, ovviamente, papa Francesco non solo non ha mai risposto ma, senza pronunciarsi fa sempre più intendere di essere contro quei Dubia… vedi qui l’intervista al cardinale Caffarra, uno dei firmatari dei Dubia. Qui l’intervista al cardinale R.Burke.
Lo scopo del Sinodo, dunque, era chiaro: offrire all’episcopato cattolico lo strumento per prestare al Papa “una più efficace collaborazione” nel governo della Chiesa universale, una cooperazione stabile e continuata. Oggi – e fu questa la vera novità fondamentale voluta da Palo VI nell’istituzione del Sinodo – l’aiuto che l’episcopato dà al Papa non è più un fatto occasionale, perché vi provvede un organismo stabile…
Ma, come dicevamo sopra: un conto è il Sinodo attraverso il quale I VESCOVI si riuniscono per cooperare con il Papa al quale, per altro, spetta sempre l’ultima parola alla conclusione dei lavori; altra cosa è LA SINODALITA’… e questa no che non era prevista da Paolo VI, come neppure da Giovanni Paolo II e neppure da Benedetto XVI.
Se il termine “Sinodo” etimologicamente significa “convegno, riunione” e, nel nostro caso sono i Vescovi che si riuniscono, appunto, per chiarire i vari problemi da risolvere con e aiutando il Papa, il termine “sinodalità”, invece, significa “camminare insieme” e indica il cammino del popolo di Dio, al quale vi si è aggiunto quel “suo radunarsi in assemblea in ascolto reciproco e dello Spirito Santo o intorno all’Eucaristia”…. Nulla a che vedere con il “Sinodo” sia quello usato dai Vescovi in duemila anni di storia, sia quello istituito da Paolo VI.
A qualcuno potrebbe sembrare una cosa da nulla, lana caprina direbbe, e invece no, è molto importante capire cosa sta accadendo, si legga anche qui per capire meglio.
Per Papa Francesco il Sinodo e la sinodalità sono diventati sinonimo… non si tratta più di eventi nella Chiesa, ma di processi di cambiamento della Chiesa … ossia: vescovi, clero, religiosi e laici, tutti devono “CAMMINARE INSIEME”, insieme anche ai non cattolici si badi bene, è un cammino di discernimento spirituale, di discernimento ecclesiale, che si fa nell’adorazione (quando?), nella preghiera (quando e quale?), a contatto con la Parola di Dio (di quale interpretazione parliamo se il Catechismo è stato bandito dalle parrocchie e dalle comunità ecclesiali?)… un cammino che dovrebbe aprirci al discernimento, illuminandolo.
Salvaguardando tutte le buone intenzioni di Papa Francesco, i conti non tornano. Diceva a ragione il grande cardinale Caffarra: “Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante”, leggete qui… così è per tutta questa enfasi che viene data alla sinodalità che, senza più un minimo accenno alla dottrina da insegnare, creerà di fatto, future comunità veramente ignoranti!!
Sempre il grande Caffarra proprio da quelle ambiguità sorte dal sinodo per la Famiglia e dal documento Amoris laetitia, diceva senza mezze misure: «E quando sentite qualche discorso (…) anche se fatto da sacerdoti, vescovi, cardinali, e verificate che non è conforme al Catechismo, non ascoltateli. Sono ciechi che conducono altri ciechi».
«Newman – ricorda Caffarra – dice che “se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero significato della parola, ossia essa deve essere “retta”, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi”. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale (che è verità divina, non una opinione umana). Non dire mai a una persona: “Segui sempre la tua coscienza”, senza aggiungere sempre e subito: “Ama e cerca la verità circa il vero ed unico bene”. Gli metteresti nelle mani l’arma più distruttiva della sua umanità».
Non stiamo quindi disertando il Sinodo e non invitiamo alcuno a porsi CONTRO qualcuno… vogliamo solo che sia chiaro che un Sinodo è uno strumento attraverso il quale o passa LA VERITA’ o non passa nulla di buono, tertium non datur, non esiste un’altra via o una via di mezzo, il compromesso.
E se è vero che un cammino sinodale potrebbe certamente essere un mezzo efficace per affrontare i tanti problemi che oggi ci soffocano e ci sovrastano, si deve dire senza mezze misure che questo “cammino sinodale” per come lo si sta attuando, non solo non c’entra nulla con il vero Sinodo, ma non è neppure un cammino onesto. Basti pensare al “cammino” sinodale generato nella chiesa in Germania e un po’ in varie diocesi del mondo, come ora anche in Italia… sembrano cammini di gente fotocopia della rivoluzione Sessantottina… tutti a rivendicare presunti ed inesistenti diritti, mentre scompaiono proprio i diritti di Dio l’Unico, anzi, che può esigere dei diritti. Le donne che nella Chiesa VOGLIONO, pretendono con superbia ruoli che non gli appartengono; laici che si sentono parte della Gerarchia; sacerdoti che non sanno più chi sono e quale è, cosa è la loro identità sacerdotale; Vescovi sempre più impotenti, inermi, incapaci di reagire, e chi più ne ha più ne metta che tanto non sbaglia!
Per comprendere quanto abbiamo meditato leggiamo anche da un editoriale interessante tratto da “infovaticana.com” (sito in spagnolo) e riportato dall’Osservatorio Cardinale Van Thuan il quale, non a caso, sta avviando una serie di incontri – vedi qui – dedicati al magistero della Dottrina sociale di Benedetto XVI che ha per titolo “Il posto di Dio nel mondo”…
Infovaticana fa giustamente osservare che: Non è la verità che deve essere sinodale. È la sinodalità che deve essere vera.
Si fa notare che Gesù disse a Tommaso nel Vangelo: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non per mezzo di me».. – «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv.6,15) dirà Gesù a Pietro quando gli fa notare che molti discepoli se ne stavano andando a causa delle sue parole sull’Eucaristia… Il Signore, perciò, non parla in nessun momento di mettere alla prova la Verità di volta in volta in modo che sia più comodo per i suoi seguaci seguirlo, mettersi a tavolino e cercare un compromesso che vada bene a tutti. Il compito di conoscere e vivere nella Verità è un compito arduo per tutti i cristiani, ma è questa la missione della Chiesa. È quindi un invito a rinnegare noi stessi, a portare la nostra croce e a seguirlo da vicino, cioè nella sua Chiesa con la sua dottrina.
“Convertitevi: il regno dei cieli è vicino!” (Mt.3,1-12); “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc.1,15) – “Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, Giovanni disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione…» (Mt.3,7-9) Conoscere Dio, perciò, non è un fatto astratto, spirituale, personale, sentimentale: se io lo conosco le mie opere DEVONO manifestarlo e solo allora porterò luce, preparerò la via del Signore e la percorrerò secondo il suo progetto e non secondo le mie vanità, senza paura, come Giovanni non solo ha insegnato, ma ha testimoniato con la propria vita. A questo servono i Sinodi, a questo deve portare la sinodalità affinché, questi frutti, siano DEGNI DELLA CONVERSIONE al Cristo… Molti padri sinodali, purtroppo, e strenui difensori del movimento sinodale hanno invece dimenticato che la Verità è una e inamovibile ed è nel Vangelo.
Purtroppo, è sempre più frequente trovare, quasi quotidianamente, affermazioni e proposte di alti vertici ecclesiastici che si scontrano con la tradizione, la morale o la dottrina cattolica. Insomma, sono contrari alla verità contenuta nel Vangelo – vedi anche qui la lectio di Padre Serafino Maria Lanzetta –
La via sinodale, non solo in Germania, viene utilizzata per cercare di riformulare alcuni aspetti del cattolicesimo. Tutti conoscono l’ossessione imperante in certi ambienti ecclesiali di modificare la morale sessuale della Chiesa, la posizione sull’omosessualità, il celibato sacerdotale o fin anche l’apertura del diaconato e del sacerdozio alle donne.
È inutile negarlo: «Si cela un ambizioso progetto di riforma della Chiesa universale, col rischio di scardinarla dalle fondamenta, o di reinventarla su basi diverse da quelle volute da Nostro Signore» (Diego Benedetto Panetta, Il cammino sinodale tedesco e il progetto di una nuova Chiesa, pubblicato da Tradizione Famiglia Proprietà).
I promotori di questi cambiamenti radicali all’interno della Chiesa trattano la Sposa di Cristo come se fosse un partito politico che organizza un “congresso” (democratico-liberale) per riformulare alcuni suoi postulati al fine di allargare la sua base elettorale anche a costo di rompere con i principi fondanti della Chiesa stessa. Come si dice colloquialmente, “in politica tutto va bene; o che il fine giustifica i mezzi”, ma non si tratta di fare politica. Si tratta di salvaguardare la fede e la Verità ereditata in 2000 anni di tradizione che ci è stata consegnata, per continuare a conservarla per essere trasmessa intatta.
Ricordava il Venerabile Pio XII:
“(san Bernardo) quando combatte gli errori di Abelardo…; quando della grazia, sa di Pelagio; quando della persona di Cristo, sa di Nestorio… egli non discute le sottili, contorte e ingannevoli fallacie e cavilli, li dissolve e li confuta, ma scrive altresì al Nostro predecessore d’immortale memoria Innocenzo II per simile motivo queste gravi parole: «Occorre riferire alla vostra autorità apostolica ogni pericolo… quelli soprattutto che riguardano la fede. Penso esser giusto che ivi soprattutto si riparino i danni della fede, dove la fede non può venir meno. E questa è la prerogativa di tale sede… È tempo, Padre amatissimo, che voi riconosciate la vostra potestà… In questo fate veramente le veci di Pietro, del quale occupate la sede, se con i vostri moniti confermate gli animi incerti nella fede, se con la vostra autorità sterminate i corruttori della fede»…” (Venerabile Pio XII Enciclica “Doctor Mellifluus” per l’VIII Centenario della morte di San Bernardo, 24.5.1953)
E sì, va conservata TUTTA intatta perché la Verità non varia secondo le esigenze sociali né si conforma al mondo. La missione principale della Chiesa e quindi del Pontefice e dei Vescovi – e quindi dei Sinodi – è attrarre il mondo alla Verità “Radicati nella Fede” (cfrCol.2,7) non nella sinodalità, e in nessun caso offuscarla, camuffarla o modificarla con il falso pretesto di renderla “più gentile”, o adattarla alle mode per renderla più attraente.
Così si esprimeva ancor prima dal trattato «Contro le eresie» sant`Ireneo, vescovo (Lib. 1, 10, 1-3; PG 7, 550-554)
«Avendo ricevuto tale messaggio e tale fede, la Chiesa li custodisce con estrema cura, tutta compatta come abitasse in un’unica casa, benché ovunque disseminata. Vi aderisce unanimemente quasi avesse una sola anima e un solo cuore. Li proclama, li insegna e li trasmette all’unisono, come possedesse un’unica bocca. Benché infatti nel mondo diverse siano le lingue, unica e identica è la forza della tradizione. Per cui le chiese fondate in Germania non credono o trasmettono una dottrina diversa da quelle che si trovano in Spagna o nelle terre dei Celti o in Oriente o in Egitto o in Libia o al centro del mondo. Come il sole, creatura di Dio, è unico in tutto l’universo, così la predicazione della verità brilla ovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità. E così tra coloro che presiedono le chiese nessuno annunzia una dottrina diversa da questa, perché nessuno è al di sopra del suo maestro. Si tratti di un grande oratore o di un misero parlatore, tutti insegnano la medesima verità. Nessuno sminuisce il contenuto della tradizione. Unica e identica è la fede. Perciò né il facondo può arricchirla, né il balbuziente impoverirla»…
Come non inserire nel cuore del dovere di un sinodo o della sinodalità le parole di san Paolo? Egli ci rammenta: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero.” (2Tim.4,1-6)
.. e come dimenticare il monito del profeta Ezechiele? “Così dice il Signore Dio: «Se il malvagio si allontana da tutti i peccati che ha commesso e osserva tutte le mie leggi e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà più ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticato. Forse che io ho piacere della morte del malvagio – oracolo del Signore – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? Ma se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male, imitando tutte le azioni abominevoli che l’empio commette, potrà egli vivere? Tutte le opere giuste da lui fatte saranno dimenticate; a causa della prevaricazione in cui è caduto e del peccato che ha commesso, egli morirà. Voi dite: Non è retto il modo di agire del Signore. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».” (Ez.18,21-28)
Qualcosa del genere non sta forse accadendo da anni nella Chiesa, sfruttando e strumentalizzando il tema prima del Concilio ed oggi della sinodalità? Osserviamo come l’invito fatto dal sinodalismo sia quello di adattare la Verità rivelata all’uomo assonnato del nostro tempo, pigro e lento quando si tratta di acquisire virtù e di convertirsi ripudiando il proprio peccato. Non si tratta di riempire le chiese di persone per calmare in qualche modo le coscienze e far sembrare che si stia svolgendo un compito di evangelizzazione della società parlando, spropositatamente, di “frutti”…
La Santa Madre Chiesa non ha motivazione più grande che quella di condurre le anime verso la salvezza. Per questo è necessario denunciare ed indicare con nomi e cognomi coloro che, dovendo svolgere questo compito si dedicano, invece, a confondere le anime sulla base della prostituzione, ossia del tradimento e della mercificazione del corpo stesso della Chiesa, giungendo a plasmare la Verità ai desideri individuali, come si fa rilevare in questa raccolta di articoli dal mondo, del sito di Corrispondenza Romana. Ecco perché il protestantesimo esiste già… non dobbiamo inventarlo noi, oggi.
Per concludere, visto che abbiamo iniziato con Paolo VI, con lui ricordiamo: nell’Udienza generale del 19 gennaio 1972, egli torna a ribadire questo concetto: Saldo e intangibile il «depositum fidei», lamentandosi delle gravi derive dottrinali interne alla Chiesa. Citando proprio la Pascendi di san Pio X afferma: “Così è, Figli carissimi; e così affermando, la nostra dottrina si stacca da errori che hanno circolato e tuttora affiorano nella cultura del nostro tempo, e che potrebbero rovinare totalmente la nostra concezione cristiana della vita e della storia. Il modernismo rappresentò l’espressione caratteristica di questi errori, e sotto altri nomi è ancora d’attualità..”…
e mirabilmente denuncia e conferma con queste gravi e sublimi espressioni:
“Noi possiamo allora comprendere perché la Chiesa cattolica, ieri ed oggi, dia tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la dottrina della fede; l’ortodossia è la sua prima preoccupazione; il magistero pastorale la sua funzione primaria e provvidenziale; l’insegnamento apostolico fissa infatti i canoni della sua predicazione; e la consegna dell’Apostolo Paolo: Depositum custodi (1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14) costituisce per essa un tale impegno, che sarebbe tradimento violare. La Chiesa maestra non inventa la sua dottrina; ella è teste, è custode, è interprete, è tramite; e, per quanto riguarda le verità proprie del messaggio cristiano, essa si può dire conservatrice, intransigente; ed a chi la sollecita di rendere più facile, più relativa ai gusti della mutevole mentalità dei tempi la sua fede, risponde con gli Apostoli: Non possumus, non possiamo (Act. 4, 20).”
Se dunque, al Sinodo e in nome della sinodalità, vorranno imporci nuove dottrine seguendo le mode del mondo, siamo autorizzati a rispondere con le parole stesse di Paolo VI e di tutta la Chiesa, in modo caritatevole ma “intransigente”: Non possumus, non possiamo…
Per chi volesse può scaricare qui il testo in pdf
(dal sito CooperatoresVeritatis, Ester e Dorotea)
AGGIORNAMENTO da Corrispondenza Romana sul Sinodo e sinodalità del 15 marzo 2023
Il “sinodalismo”, compimento del pontificato di papa Francesco
(di Roberto de Mattei)
Dopo dieci anni di pontificato il punto di arrivo del regno di papa Francesco sembra essere il sinodo dei vescovi dell’ottobre 2023 sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Per comprendere il pasticcio semantico di un sinodo sulla sinodalità, bisogna innanzitutto distinguere tra i due termini. Il sinodo è un evento storico delimitato, la sinodalità è un “cammino”, un “processo” che, nell’orizzonte ideologico di papa Francesco, corrisponde al primato della prassi sulla dottrina.
Il termine sinodo, che deriva dal greco σύνοδος, analogo al latino concilium, significa infatti “assemblea” o “riunione” e fa parte della Tradizione della Chiesa, mentre la parola “sinodalità” è un neologismo indefinito, che tollera diverse interpretazioni e letture. Alle origini del termine sinodalità c’è quello di “collegialità”, introdotto nel linguaggio teologico dal padre Yves-Marie Congar, come equivalente dell’idea di sobornost’, coniata dai teologi ortodossi russi nell’Ottocento (Le peuple fidèle et la fonction prophétique de l’Eglise, in “Irenikon”, n. 24 (1951), pp. 440-466). Sobor in slavo significa assemblea o consiglio. Sobornost esprime la realtà di una chiesa universale fondata su sinodi, o concili, presieduti non da un’autorità comune, ma dallo Spirito Santo. Congar fece del concetto di sobornost il cardine di una riforma della Chiesa che aveva come suo avversario diretto il Primato romano, difeso dalla scuola teologica “ultramontana”.
Negli anni del Concilio Vaticano II, il dogma del Primato romano costituiva la principale pietra di inciampo nel dialogo ecumenico e, per favorire tale dialogo, occorreva mettere in luce la dimensione “collegiale” del governo della Chiesa. Ciò permetteva una convergenza con la prassi sinodale della chiesa ortodossa e di quella protestante. All’interno della teologia progressista riaffioravano inoltre, le tendenze del conciliarismo del XV secolo, del febronianesimo del XVIII secolo e dell’anti-infallibilismo del XIX secolo, che avevano cercato di limitare, in tempi e modi diversi, l’autorità e l’influenza del Papato. C’era infine una ragione di carattere più politico. Negli ambienti progressisti, il modello della Chiesa come “monarchia assoluta” sembrava stridere con il processo di “modernizzazione” della società. La collegialità, o sinodalità, esprimeva le istanze “democratiche” della società moderna.
La parola d’ordine era quella di liberare la Chiesa dall’involucro giuridico che la soffoca e di trasformarla da struttura di vertice in struttura democratica ed egualitaria. “Per mille anni da noi si è visto e costruito tutto nell’ottica del Papato e non in quella dell’episcopato e della sua collegialità. Ora occorre fare questa storia, questa teologia, questo diritto canonico”, scriveva, il 25 settembre 1964, Congar, che considerava come una “missione” la sua lotta contro la “miserabile ecclesiologia ultramontana” (Diario del Concilio, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2005, vol. II, pp. 136, 20).
Nel 1972 il gesuita tedesco Karl Rahner dedicava a sua volta un esplosivo saggio alla Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance (tr. it. Queriniana, Brescia, 1975), affermando che la chiesa del futuro doveva essere “declericalizzata”, “aperta”, “ecumenica e pluralista”, “democratizzata nel suo governo” e “critica della società”. Su questa linea si è mosso il teologo domenicano Jean-Marie Tillard (Église d’églises. L’ecclésiologie de communion, Cerf, Paris, 1987), discepolo di Congar, che contrappone la sinodalità delle chiese locali al potere verticistico della Chiesa centrale, mentre lo storico gesuita John O’Malley ha cercato di demolire le origini “ultramontane” della Chiesa anteriore al Vaticano II (Vatican I: The Council and the Making of the Ultramontane Church, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2018).
La categoria di “sinodalità” non è nata, dunque, con papa Francesco, ma con lui è divenuta un paradigma ufficiale, che corrisponde al concetto di una “chiesa in uscita”, “con le porte aperte” (Enciclica Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, n. 46). All’immagine della “chiesa piramidale”, Francesco ha sostituito quella della “chiesa poliedrica”. “Il poliedro – ha affermato – è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità. E’ in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo: cerchiamo di far sì che questa diversità sia più armonizzata dallo Spirito Santo e diventi unità” (Discorso ai pentecostali di Caserta del 28 luglio 2014).
Fin dal 2015, nel cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, papa Francesco ha affermato che “il cammino della sinodalità” è “la dimensione costitutiva della Chiesa” (Discorso del 17 ottobre 2015), pur senza chiarire in cosa consista questa dimensione. Ma la strada era aperta e a percorrerla ci ha pensato la Conferenza episcopale tedesca che il 1° dicembre 2019, con una Lettera ai fedeli firmata dal cardinale Reinhard Marx e dal Presidente del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (ZDK), Thomas Sternberg, annunziò di essersi auto-convocata per mettersi alla testa di un “cammino sinodale” che aveva l’obiettivo di estendere alla Chiesa universale le decisioni “vincolanti” del loro “sinodo permanente”. Un recente studio di Diego Benedetto Panetta mostra bene come dietro il “Cammino sinodale tedesco” si cela un progetto di riforma della Chiesa universale destinato a “democratizzare” la Chiesa e a ridefinire il Papato (Il cammino sinodale tedesco e il progetto di una nuova chiesa, Tradizione Famiglia Proprietà, Roma 2020). L’ultima tappa di questo processo è avvenuta lo scorso 11 marzo a Francoforte, con la richiesta, accolta da grandi applausi, di estendere alla chiesa universale l’abolizione del celibato, il diaconato sacramentale delle donne, la comunione per i divorziati e la benedizione delle coppie omosessuali.
Forse la “chiesa sinodale” di papa Francesco non è la stessa auspicata dai vescovi tedeschi, ma è certo che ne accoglie le istanze e che il suo modello è lontano anni luce da quello tradizionale. La “dimensione sinodale della Chiesa” è inoltre un’evidente utopia e, come tutte le utopie, ha una devastante vis distruttiva, ma è totalmente priva di capacità costruttiva. Per tentare di realizzare questo sogno deforme è necessario l’esercizio di un potere autoritario e tirannico. La chiesa sinodale è dunque una chiesa ugualitaria e acefala, che si traduce in realtà attraverso la dittatura della sinodalità. Sarebbe però catastrofico voler combattere gli abusi di potere che abbiamo di fronte, negando o limitando il principio di autorità. Ciò possono farlo con coerenza i cattolici liberali, gallicani o modernisti, non certo coloro che si richiamano alla Tradizione della Chiesa.
La dottrina cattolica afferma che la potestà di giurisdizione compete, iure divino, al Papa e ai vescovi. La pienezza del potere di giurisdizione risiede tuttavia solo nel Papa su cui è fondato tutto l’edificio ecclesiastico. Il Romano Pontefice è l’autorità sovrana di tutta la Chiesa e, in virtù del suo primato di governo universale, ne resta il legislatore supremo. Questa dottrina, già esposta nel Concilio di Firenze del 1439 e nella Professio Fidei tridentina, fu solennemente definita nel Concilio Vaticano I, con la costituzione dogmatica Pastor Aeternus (18 luglio 1870), che riafferma il primato non solo di onore, ma di vera e propria giurisdizione del Romano Pontefice sulla Chiesa universale e la sua infallibilità a determinate condizioni. E’ su questi dogmi, provvidenzialmente promulgati dal beato Pio IX, che i cattolici fedeli devono far leva contro il sinodalismo. E’ solo questa infatti, e nessun’altra, la strada che permetterà alla Chiesa, sempre viva e indefettibile, di rinascere in tutto il suo splendore e la sua potenza.
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
A CONCLUSIONE DELLA II ASSEMBLEA STRAORDINARIA
DEL SINODO DEI VESCOVI – a 20 anni dal Concilio
Sabato, 7 dicembre 1985
Dilettissimi nel Signore,
1. Rendo grazie al Signore per l’avvenuta celebrazione del Sinodo straordinario, venti anni dopo la conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. È veramente giusto elevare a Dio gli animi grati ed esultanti, perché ci ha concesso la felicità di questi giorni, per quanto pochi, ma pieni di intensi lavori, verso i quali tutto il mondo ha rivolto la sua attenzione.
Esprimo poi la mia viva gratitudine a voi tutti, che avete preso parte all’adunanza del secondo Sinodo straordinario dei vescovi; a voi, dilettissimi signori cardinali, arcivescovi, vescovi e sacerdoti, che secondo le attuali norme della Chiesa avete preso parte al Sinodo come membri. Avete concluso bene il Sinodo con fraterna cooperazione, aperta e libera comunicazione, intima comunione. Attraverso voi sono state presentate a questo Sinodo le gioie, le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo. Il mio pensiero va particolarmente a voi, patriarchi e metropoliti, all’Arcivescovo Maggiore e Metropolita, delle tanto care Chiese orientali. A voi penso, presidenti delle Conferenze Episcopali, che siete venuti da tutti i continenti. Penso a voi Cardinali Prefetti dei dicasteri della Curia Romana, miei collaboratori nel ministero universale di Vescovo di Roma. Penso a voi, Superiori Generali degli Ordini e delle Congregazioni Religiose; e non dimentico il Segretario Generale della Commissione Teologica internazionale, e nemmeno il Segretario della Commissione Biblica. Rendo grazie ai Signori Cardinali Presidenti Delegati, Card. Krol, Card. Malula, Card. Willebrands, perché lodevolmente e con sollecitudine hanno compiuto il loro ufficio con viva coscienza e secondo la natura dello stesso Sinodo, ma sempre con fermo consiglio e moderazione.
Rendo particolare grazie al Cardinale Goffredo Danneels. Come relatore hai guidato i lavori del Sinodo osservando il lavoro dei membri, fedelmente comprendendo la patente concordia delle opinioni e la progressiva trattazione delle questioni poste a questa adunanza sinodale; unitamente al Segretario Speciale, il Rev.do Prof. Walter Kasper e ai suoi collaboratori, avete preso parte senza risparmio di fatiche con pronta e generosa cooperazione: per servire veramente l’evento sinodale.
Saluto anche i religiosi, le religiose, i laici e le laiche, che sono intervenuti perché per mezzo loro sono state presenti anche in quest’aula tutti gli ordini e le forze vive della Chiesa.
2. È stata una particolare grazia per tutti la fraterna presenza degli Osservatori-Delegati delle altre Chiese e Comunità di tutto il mondo, con le quali la Chiesa cattolica mantiene un dialogo teologico; e la presenza del Consiglio Mondiale delle Chiese. Avete espresso la vostra opera non solo con la vostra benevola partecipazione attraverso il voto espresso nel Sinodo a nome di tutti, ma specialmente mediante la preghiera. Il rito di preghiera che abbiamo celebrato insieme in quest’aula, è pegno di una continua cooperazione ecumenica.
La vostra presenza richiama alla memoria il provvido atto ecclesiale tra Roma e Costantinopoli, che ebbe luogo venti anni fa dopo la conclusione del Concilio. Con una celebrazione parallela e contemporanea fatta in questa stessa Basilica e nella Chiesa di S. Giorgio al Fanar, fu allora promulgata la dichiarazione comune del pontefice Paolo VI e del patriarca Atenagora I di venerata memoria, con la quale fu decretato che fossero cancellate dalla memoria e dal seno della Chiesa le sentenze di anatemi, inflitti nel 1054, che costituivano un segno di scisma, ed un vero impedimento alla riconciliazione nella carità. Quello fu un atto di fraternità ecclesiale e di somma sollecitudine pastorale. A poco a poco la mente si andò liberando delle tristi memorie del passato, pugnace e contenzioso, la carità si fece più salda, e venne confermato lo spirito di riconciliazione. Per tutti questi motivi, quell’evento rimane emblematico per quanto riguarda la volontà, che deve ispirare tutta la questione dell’unità di tutti i cristiani: cioè il mutuo perdono, che cresce e si esprime nella fraterna carità.
Di là hanno origine tutte le iniziative della ricerca, del dialogo, dell’attività per la restituzione della piena unità. Il ricordo di quell’evento ci spinge a rinnovare lo spirito primitivo perché abbiamo a continuare, amplificare e aumentare il nostro comune sforzo per reintegrare l’unità, per essere fedeli alla volontà del Signore circa la sua Chiesa.
3. Se abbiamo potuto nuovamente ed intensamente riprodurre le condizioni e lo spirito del Concilio Vaticano II, ciò si deve anche alla presenza degli invitati speciali, che a diversi titoli sono stati implicati nel Concilio Vaticano II. La vostra opera nelle discussioni nelle varie sedi e nei diversi modi è stato un visibile vincolo con la stessa natura storica del Concilio. Vi sono grato, perché avete accettato il mio invito ad illustrare la nostra adunanza come “memoria” viva di eventi, ai quali molti non poterono presenziare.
Sono grato in modo speciale al Cardinale Gabriele Maria Garrone per la diligente “relazione storica”.
Né posso dimenticare tutti quelli, che, addetti ai vari uffici, prestarono la loro opera perché il lavoro dei membri del Sinodo potesse attuarsi: specialmente il venerabile fratello Giovanni Schotte, e gli addetti alla Segreteria Generale, i sacerdoti, i seminaristi, gli addetti all’indicazione dei luoghi, gli interpreti, i tecnici, gli addetti stampa: vivo e continuo rapporto con gli strumenti della comunicazione sociale, gli addetti all’Aula Paolo VI, il corpo dei Vigili, della Guardia Svizzera, e tutti quelli che non abbiamo mai visto ma che nel nascondimento per molte ore del giorno e della notte prestarono la loro opera a sostegno del Sinodo. Infine mi rivolgo con animo grato al direttore e ai componenti delle “Scholae Cantorum”, che ci hanno accompagnato nelle nostre preghiere.
4. A venti anni dalla conclusione del Concilio questa comune adunanza appariva necessaria, anzi assolutamente richiesta dopo la grande e copiosa eredità del Concilio Ecumenico Vaticano II. Era necessario che in questo momento manifestassero il loro giudizio sul Vaticano II quelli che prima di tutti erano stati ad esso chiamati, specialmente perché si evitassero interpretazioni divergenti.
Questa adunanza dopo l’eredità del Concilio Vaticano II è stata breve, ma nello stesso tempo, nell’attuale circostanza, sufficiente. Doveva servire – ed è servita – ad esporre almeno in qualche modo l’esperienza degli anni che intercorsero tra il 1962 e il 1965, e in modo particolare ad assumersi l’impegno di attuare più ampiamente il Concilio Vaticano II.
Come avviene attraverso il Sinodo anche questa volta è stata estremamente utile la mutua informazione delle esperienze che è connessa ai lavori sinodali. Per questo motivo la riunione sinodale si dimostra necessaria per quell’analisi e per quella sintesi che sono indispensabili alla Chiesa.
5. Lo scopo del primo Sinodo straordinario del 1968 fu quello di “definire le competenze delle Conferenze Episcopali, i loro rapporti con questa Sede Apostolica e tra loro (cf. Paolo VI, Homilia in Missa ad Synodum Episcoporum operiendum, 11 ottobre 1969: Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 671), nonché quello di trattare il problema della collegialità dei Vescovi”. Lo scopo invece di questo Sinodo straordinario è stato quello di meditare, approfondire e promuovere l’applicazione degli insegnamenti del Vaticano II a venti anni dalla sua conclusione.
Già fin dall’inizio di questo Sinodo è apparso chiaro che quanti ad esso erano stati convocati condividevano pienamente queste finalità.
Il risultato dei vostri lavori – contenuti nel “Messaggio” e nella “Relazione finale” – è la testimonianza della vostra perspicacia e diligente sollecitudine e del vostro spiccato “sensus Ecclesiae”. Mi piace sottolineare altresì un’altra caratteristica di questa assemblea sinodale: la varietà nell’unità. I Padri hanno potuto esprimere liberamente il proprio pensiero. Meritevoli di apprezzamento sono stati gli interventi fatti sia in aula che nei circoli. Questa libertà non è stata di nessun ostacolo alla sostanziale libertà. Avete così manifestato in maniera eccellente lo spirito di collegialità.
Accolgo pertanto dalle vostre mani con gioia e vivissima gratitudine il “Messaggio” e la “Relazione finale”, che dimostrano questo vostro senso di comunione; con il mio consenso questi documenti potranno essere ufficialmente diffusi. Che il Signore voglia far sì che essi arrechino frutti abbondanti.
È ora vostro compito di far penetrare profondamente nella Chiesa universale, nelle vostre Chiese particolari e nelle varie comunità la grande forza e la consapevolezza dell’importanza del Concilio.
In questa assemblea si è manifestata la cattolicità: sono state infatti qui convocate, per questo nobile compito, persone da ogni continente che seguono diverse culture, ma che professano la stessa fede. La Chiesa intera guardava con grande affetto a questo Sinodo e l’accompagnava con le sue preghiere. Con profonda intima soddisfazione ho potuto costatare che i giovani si sono così comportati; a questo riguardo, merita speciale segnalazione la sede presso la Chiesa di San Lorenzo, qui a Roma. Il Sinodo ha svolto i suoi lavori sotto il segno della Croce, che al termine dell’Anno Giubilare della Redenzione io detti ai giovani e che durante l’anno dedicato alla gioventù veniva portata quasi in sacro pellegrinaggio.
Il Sinodo, infine, convocato nel nome del Signore, con lo sguardo sempre fisso al Signore, è stato docile all’azione dello Spirito Santo, che ne è stato il vero protagonista.
6. In modo particolare in questo Sinodo è stata esaminata la natura della Chiesa, in quanto è mistero e comunione, cioè “koinonia”. Dalle risposte date in occasione della preparazione dell’assemblea è innanzi tutto emerso questo argomento: “La Chiesa che celebra i misteri del Cristo alla luce della parola di Dio per la salvezza degli uomini”. In realtà, la Chiesa, Corpo Mistico del Cristo, è al servizio del mondo; non desidera altro che servire, che promuovere la salvezza integrale dell’uomo.
In questo Sinodo è stata di nuovo posta in evidenza la natura collegiale dell’episcopato: i vescovi infatti come dice il Vaticano II, “non soltanto sono stati consacrati per una determinata diocesi, ma per la salvezza del mondo intero” (Ad gentes, 38). “Così l’ufficio episcopale si estende e in qualche modo partecipa maggiormente al ministero della guida della Chiesa universale, in quanto i Vescovi, convocati dal Papa, più strettamente cooperano con lui nell’esercizio del suo ufficio pastorale” (Paolo VI, Allocutio ad sodales Consilii Secretariae Generalis Synodi Episcoporum, 27 ottobre 1972: Insegnamenti di Paolo VI, X [1972] 1096 s.). Da qui emerge la somma importanza di queste assemblee. Per quanto riguarda i preziosi suggerimenti dati in questo Sinodo, voglio sottolinearne alcuni:
– l’auspicio di preparare un compendio o catechismo di tutta la dottrina cattolica, al quale dovranno far riferimento i catechismi o compendi, di questo argomento, di tutte le chiese particolari; questo auspicio corrisponde alla vera necessità sia della Chiesa universale sia delle chiese particolari;
– l’approfondimento inoltre dello studio della natura delle Conferenze Episcopali, le quali, in questi nostri tempi, offrono un prezioso contributo alla vita della Chiesa;
– la pubblicazione infine, in tempi brevi, del Codice di Diritto Canonico per le Chiese Orientali secondo la tradizione delle stesse Chiese e le norme del Vaticano II.
7. Non posso non significare ora la mia soddisfazione e la mia partecipazione della sollecitudine pastorale che questo Sinodo manifesta per i fratelli che soffrono.
In modo del tutto particolare sono stati ricordati quelli che soffrono violenza, in primo luogo i fratelli e le sorelle del Libano.
A questi fratelli così provati da tante contrarietà desidero dire che siamo ad essi vicino. La fede sia la loro forza, la speranza e la carità li sostengano, per non lasciare nulla d’intentato allo scopo di ottenere la pace. Dal profondo del cuore manifestiamo la nostra solidarietà alle Venerabili Chiese dell’Oriente.
Come voi sapete, questo Sinodo è stato preceduto dall’Assemblea Generale del Collegio dei Padri Cardinali; si è trattato di un aspetto di grande importanza della vita della Chiesa, cioè la riforma della Curia Romana; in questo lavoro si è avuto presente quanto l’esperienza aveva insegnato, alla luce del Concilio Vaticano II, dopo la promulgazione della Costituzione Regimini Ecclesiae Universae. Esiste pertanto un nesso tra le due assemblee.
Su questo argomento sono stati consultati anche i Presidenti delle Conferenze Episcopali; poiché la Curia Romana è uno strumento organico del Romano Pontefice nell’esercizio del suo ufficio pastorale, per il bene al servizio della Chiesa cattolica è parso quanto mai opportuno sentire il pensiero e i consigli di coloro che conoscono esaurientemente le necessità e le richieste della Chiesa nelle loro regioni. Tali suggerimenti sono stati soppesati accuratamente nella stessa adunanza dei Padri Cardinali e saranno tenuti in somma considerazione affinché la Curia Romana sia sempre più in grado di adempiere il suo compito ad edificazione della Chiesa.
8. Pertanto sono persuaso che il Sinodo ha svolto un lavoro ben meritevole. A buon diritto si può affermare che il Sinodo ha arrecato grandi benefici al Concilio Vaticano II; perfeziona infatti le norme predisposte da quello. Manifesta l’esperienza acquisita dalla Chiesa universale attraverso i pastori delle Chiese particolari. Esso è anche uno strumento efficace e duttile, tempestivo e pronto per il ministero di tutte le Chiese locali (cf. Giovanni Paolo II, Allocutio ad sodales Consilii Secretariae Generalis Synodi Episcoporum, 2, 30 aprile 1983: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/1 [1983] 1100).
Per questo motivo conviene sommamente che nella Chiesa si celebrino Sinodi ordinari e, all’occorrenza, anche straordinari. Affinché poi essi producano frutti più abbondanti è necessario che questi convegni siano preparati in maniera più impegnata; occorre cioè che nelle Chiese locali si lavori alla loro preparazione con partecipazione di tutti: la fase preparatoria infatti è un tempo particolare per quanto attiene alla pastorale di parrocchie, comunità religiose, diocesi, Sinodo Orientale e Conferenze Episcopali.
Non solo è necessario attuare questa preparazione, ma è altrettanto necessario che i frutti del Sinodo siano portati alle Chiese locali. In tal modo si attuerà un movimento vitale, in grado di servire alla cattolicità e all’unità delle menti e dei cuori.
Si deve sempre provvedere alla revisione anche dei modi e dei metodi di azione per assicurarne una maggiore efficacia. Il che richiede continuo studio e lavoro.
Come si avrà cura di applicare questo Sinodo alla vita concreta della Chiesa? Si chiede a tutti di dedicarsi a questa applicazione con grande amore e senso del dovere, dedicandosi contemporaneamente alla preghiera e alla penitenza, cose insostituibili se vogliamo conseguire veri progressi nello spirito. Spetta poi ai vescovi, in quanto pastori delle anime, affiancati dai loro sacerdoti, di istruire i fedeli sulle cose che il Sinodo ha proposto come salutari e di esortarli ad attingere con rinnovato fervore dai tesori del Concilio incitamento a vivere cristianamente in modo sempre più aderente ai principi della fede.
Come è noto, ognuno dei frutti di questo Sinodo sarà attuato con l’aiuto del Consiglio della Segreteria Generale eletto nel 1983. Sarà compito di questo Consiglio di curare la prossima sessione ordinaria del Sinodo che avverrà nel 1987, e che tratterà dei laici nella Chiesa.
9. Domani 8 dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, ricorre il ventesimo anniversario della conclusione del Concilio. Vi invito a concelebrare con me nella Basilica di San Pietro in Vaticano; ai Vespri poi dimostreremo la nostra venerazione alla Vergine Madre di Dio, Madre della Chiesa e Regina degli Apostoli nella Basilica di Santa Maria Maggiore.
Ho detto: Madre della Chiesa; a Lei infatti particolarmente presente al mistero di Cristo vogliamo raccomandare questa epoca della vita e della missione della Chiesa.
La missione della Chiesa si fonda sulla sua stessa natura, o meglio nello stesso mistero della Chiesa. Poiché infatti la Chiesa è “in Cristo quasi sacramento di intima unione con Dio e di unità di tutta la famiglia umana”, appaiono quindi evidenti le sue relazioni e i rapporti con tutti gli uomini di buona volontà; con quelli che professano le religioni non cristiane, con quelli specialmente una religione monoteistica (come i musulmani) e in special modo con quelli che sono a noi più strettamente congiunti a motivo della divina rivelazione dell’Antico Testamento.
Crediamo che le ricchezze del mistero della creazione si estendano a tutti. Crediamo che tutti sono redenti ad opera di Cristo e possano essere toccati dagli intimi impulsi dello Spirito.
10. La Chiesa, attraverso il Concilio, non ha voluto affatto rinchiudersi in se stessa, riferirsi a se sola (il cosiddetto “centrismo della Chiesa”), ma, al contrario, ha voluto aprirsi più ampiamente. Facciamo continuamente nostro questo voto, che è anzi un nostro dovere; e per attuarlo approfondiamo maggiormente il mistero della Chiesa (cf. Lumen gentium, II); è questa infatti la fonte dell’apertura e della missione (nella missione del Figlio e dello Spirito).
Dal cenacolo della feria quinta “in Cena Domini” ritornano a noi le parole di Cristo: “io pregherò il Padre ed Egli vi manderà un altro Paraclito . . . Spirito di verità . . . Egli mi renderà testimonianza; ma anche voi mi renderete testimonianza . . .” (cf. Gv 14, 16-17.26-27).
Teniamo per certo che il Concilio Vaticano II è stato una testimonianza di tale natura, ben adattato al nostro tempo; una testimonianza dello Spirito Santo insieme con il Collegio Apostolico, il quale vive e opera nei suoi legittimi successori.
È una testimonianza sul Cristo, Verbo incarnato, crocifisso e risuscitato dai morti; sul Cristo, nel quale il Padre “ha amato” il mondo; sul Cristo che ha rivelato all’uomo l’uomo stesso e la sua altissima vocazione (cf. Gaudium et spes); fuori del quale non c’è salvezza.
Questa testimonianza confermata e nuovamente annunziata anche noi vogliamo dare continuando l’opera del Concilio Vaticano II tra i popoli e le nazioni alle quali siamo stati inviati.
In ultimo impartisco a voi, con tutto il cuore, la Benedizione Apostolica, testimonianza del mio affetto, e propongo e domando insieme a voi la Benedizione Collegiale alla Chiesa universale e al mondo.
Sinodo e Chiesa reale. La voce fuori dal coro di un insigne storico e cardinale
(s.m.) Mentre il sinodo sulla sinodalità si trascina stancamente verso una conclusione ancora una volta provvisoria e vaga, da fuori due insigni cardinali ultranovantenni dicono e scrivono cose incomparabilmente più solide e vitali. Entrambi con uno sguardo all’intera storia della Chiesa.
Il primo è il cinese Joseph Zen Zekiun, 92 anni, già vescovo di Hong Kong, con un libro agile e tagliente uscito pochi giorni fa in Italia per i tipi di Ares: “Una, santa, cattolica e apostolica. Dalla Chiesa degli apostoli alla Chiesa sinodale”. Nel quale identifica la storia della Chiesa come una storia di martiri della fede.
Il secondo è il tedesco Walter Brandmüller (nella foto), 95 anni, una vita da studioso e docente di storia, presidente dal 1998 al 2009 del Pontificio comitato di scienze storiche, con il testo qui sotto, che ha scritto e offerto a Settimo Cielo per la pubblicazione.
La sua dotta e avvincente ricostruzione individua l’origine dell’autentica guida collegiale della Chiesa, fin dai primi secoli, nei concili o sinodi che facevano capo al rispettivo vescovo metropolita. Niente a che vedere con le moderne conferenze episcopali, che oggi aspirano a vedersi attribuita anche “qualche autorità dottrinale” (“Evangelii gaudium”, 32), ma in realtà nacquero per ragioni politiche e di rapporti “ad extra” con la società circostante.
Invece la vita della Chiesa “ad intra” è stata, e dovrebbe continuare ad essere, la competenza dei sinodi delle metropolie, in quanto “forma sacrale dell’esercizio del ministero docente e pastorale fondato sull’ordinazione dei vescovi riuniti”.
La dilatazione fuori misura del ruolo delle conferenze episcopali non è, a giudizio diBrandmüller, una semplice disfunzione organizzativa, perché ha aggravato il “processo strisciante di secolarizzazione della Chiesa ai giorni nostri”.
E infatti, l’atto di speranza con cui Brandmüller conclude è che, restituendo il loro ruolo originario e pieno ai concili delle metropolie e limitando le conferenze episcopali al loro ruolo “ad extra”, si compia “un passo importante in direzione dell’obiettivo della de-secolarizzazione e quindi di una rianimazione spirituale della Chiesa, specialmente in Europa”.
Ma ecco il testo del cardinale, qua e là abbreviato col suo consenso.
*
Conferenze episcopali e declino della fede. Come invertire la rotta
di Walter Brandmüller
Nella sua Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo ammonisce i cristiani: “Non conformatevi a questo mondo…”. Indubbiamente il monito si riferisce allo stile di vita di ogni buon cristiano, ma riguarda anche la vita della Chiesa in generale. E non vale solo per i contemporanei dell’apostolo, ma per tutta la Chiesa in ogni tempo, quindi anche oggi. È su questo sfondo che si pone la domanda: la conferenza episcopale è – come spesso affermato – un organo di collegialità episcopale secondo gli insegnamenti del concilio Vaticano II?
Prima di rispondere a tale domanda, occorre rimandare all’organo di collegialità autentico e originario: il concilio provinciale. Quest’ultimo era l’assemblea dei vescovi di una data provincia ecclesiastica al fine dell’esercizio comune del ministero docente e pastorale.
La provincia ecclesiastica, a sua volta, era il risultato di un processo storico: la filiazione. Attraverso l’evangelizzazione, che partiva da una chiesa episcopale, si creavano nuove diocesi, i cui vescovi venivano ordinati dal vescovo della Chiesa madre. Ciò dava origine – e lo fa ancora oggi – alla struttura metropolitana, la provincia ecclesiastica. Pertanto, essa non è il frutto di un atto meramente burocratico-amministrativo, bensì di un processo organico sacramentale-gerarchico. La pratica della filiazione è “traditio in actu”, ovvero tradizione in atto. Oggetto della tradizione non è soltanto l’insegnamento, bensì l’intera realtà Chiesa; essa prende corpo nel sinodo provinciale. Ed è proprio in questo che ha radice la sua autorità docente e pastorale, come anche il carattere vincolante della legislazione sinodale.
La conferenza episcopale, invece, si distingue in modo fondamentale da tutto ciò. Essa è piuttosto l’assemblea dei vescovi le cui diocesi – in genere – si trovano nel territorio di uno stato laico, di una nazione.
Il principio organizzativo della conferenza episcopale, pertanto, non è di natura ecclesiologica bensì politica.
Il fine originale della conferenza episcopale era – e dovrebbe continuare a essere – quello di dibattere e decidere sulle questioni riguardanti la vita della Chiesa proprio in questa cornice politica di riferimento. Dalla storia e dai fini della conferenza episcopale emerge che si tratta prevalentemente della gestione dei rapporti tra la Chiesa e il contesto statale e sociale nel quale essa vive.
A partire dal XX secolo, tuttavia, gli sviluppi concreti hanno portato a far sì che la conferenza episcopale trattasse anche – se non soprattutto – tematiche interne alla Chiesa.
A sostegno di questa pratica si fa riferimento al numero 23 della Costituzione conciliare “Lumen gentium”, dove però viene detto solo a margine che la conferenza episcopale può apportare “un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”.
È proprio da questo testo che il giovane teologo Joseph Ratzinger aveva ritenuto di poter derivare la tesi secondo cui la conferenza episcopale poteva essere considerata la concretizzazione attuale dalla struttura sinodale della Chiesa dei primordi (in: J.C. Hampe, “Ende der Gegenreformation. Das Konzil: Dokumente und Deutung”, Magonza 1964, 161 seg.; titolo: “Konkrete Formen bischöflicher Kollegialität”).
È stata poi l’esperienza degli sviluppi post-conciliari a portarlo, ormai divenuto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a una visione disillusa e più critica della conferenza episcopale. Nel frattempo, infatti, erano state istituite conferenze episcopali ovunque e, specialmente in Europa, avevano sviluppato forme e procedure che davano loro l’apparenza di un’istanza gerarchica intermedia tra la Santa Sede e il singolo vescovo.
Le conseguenze di quel modo di vedere sono state assolutamente negative. Gli apparati burocratici delle conferenze episcopali si sono appropriati sempre più anche delle questioni che riguardavano il singolo vescovo. Così, col pretesto delle regolamentazioni uniformi, sono state – e continuano a essere – lese la libertà e l’autonomia dei singoli vescovi. Ratzinger in questo contesto parla anche di spirito di gruppo, conformismo e irenismo, di adeguamenti, per amore di pace, che possono determinare l’azione delle conferenze episcopali. Egli critica con particolare enfasi la pretesa di autorità docente della conferenza episcopale. […]
Così Ratzinger osserva anche che spesso i vescovi si sono opposti all’istituzione di una conferenza episcopale, ritenendo che avrebbe limitato i loro diritti.
Sta di fatto che l’esautorazione del singolo vescovo per mezzo di un apparato burocratico soffocante è motivo di grande preoccupazione, cosa dalla quale ha subito messo in guardia Giovanni Paolo II con il Motu proprio “Apostolos suos” del 1° maggio 1998. Questa preoccupazione è tanto più grande in quanto il potere pastorale del vescovo è direttamente di diritto divino. […]
A meritare più critiche è però il concetto di conferenza episcopale nazionale, in una Chiesa che è “di tutte le tribù, lingue e nazioni”. […] Non deve sorprendere che i papi non abbiano riconosciuto i concili nazionali in Francia sotto Napoleone I o che abbiano impedito in partenza che se ne tenesse uno in Germania nell’anno della rivoluzione 1848. In particolare, però, è stato per il pericolo che – seguendo l’esempio della “ecclesia gallicana” dell’ancien regime – ci potessero essere vere e proprie Chiese nazionali che, in unione tuttalpiù allentata con la sede di Pietro, vivessero una vita propria regolamentata dallo Stato.
Di fatto, la creazione di un’istanza nazionale costringe all’allentamento, se non allo scioglimento, della “communio” della Chiesa universale, che trova poi espressione in regolamentazioni nazionali speciali. Lo si sperimenta nella maniera più evidente nella liturgia; basti pensare all’introduzione delle lingue nazionali. […]
Allo stesso modo, come è accaduto di recente, costituiscono un grave attacco all’unità di fede nella Chiesa le interpretazioni contraddittorie che diverse conferenze episcopali hanno dato dell’Esortazione apostolica di Papa Francesco “Amoris laetitia” del 19 marzo 2016. […]
Sullo sfondo di questi sviluppi più recenti appare urgente una nuova riflessione sulla natura e sulla funzione della conferenza episcopale. Per prima cosa occorre assolutamente esaminare il contesto in cui l’istituzione conferenza episcopale è nata, nonché i suoi inizi. In quella fase, per la Chiesa si era trattato di orientarsi in un contesto socio-politico radicalmente mutato in seguito alla rivoluzione del 1789. Successivamente, in pieno contrasto con l’ideale rivoluzionario della libertà, fu istituito lo Stato autoritario ideologicamente liberale e al tempo stesso oppressivo della Restaurazione, che vedeva la Chiesa tutt’al più come un organo della “religion gendarme” per mantenere pace e ordine tra il popolo.Difficilmente si poteva parlare di “libertas ecclesiae”, ovvero del libero sviluppo della Chiesa. Per poter comunque creare spazi d’azione e rendere possibile la vita ecclesiastica in quella situazione servivano, di fatto, progetti e azioni comuni da parte dei vescovi, e più precisamente le azioni della Chiesa “ad extra”, ovvero nel contesto politico-sociale. Al fine di creare questa comunione nell’impegno per la libertà della Chiesa, la conferenza episcopale si rivelò una necessità.
Questa permane immutata ed è anzi perfino accresciuta, considerando le condizioni di secolarizzazione sempre più totalitaria degli Stati e delle società moderni.
Quel che però appare opportuno in queste circostanze è concentrare, ovvero limitare, le competenze della conferenza episcopale a quelle questioni che riguardano le relazioni “ad extra” della Chiesa. Queste coincidono largamente con le materie che vengono regolamentate attraverso concordati. A questo genere di finalità dovrebbe poi corrispondere anche il modo di agire della conferenza episcopale, che può senz’altro essere quello delle organizzazioni laiche o delle imprese: quindi, conferenze episcopali come “business meetings”.
Fondamentalmente diverso dalla natura volta “ad extra” della conferenza episcopale era ed è invece il sinodo provinciale, le cui competenze consultorie e decisionali riguardano la vita della Chiesa “ad intra”. Dottrina della fede, sacramenti, liturgia e azione pastorale: sono questi l’oggetto autentico dell’esercizio collegiale del ministero docente e pastorale da parte dei vescovi di un’associazione di Chiese particolari, ossia una provincia ecclesiastica sotto la presidenza del metropolita. La loro autorità di insegnare e guidare insieme scaturisce direttamente dalla loro ordinazione episcopale. Poggia quindi su basi sacramentali.
Proprio da questo risulta che il sinodo provinciale non è un “business meetings”clericale, bensì un evento sacrale: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 20). Ciò vale ancor più per l’assemblea sinodale dei successori degli apostoli. Questa intuizione ha portato a far sì che ben presto si siano sviluppate forme liturgiche per tali assemblee sinodali. Nacque l’”Ordo de celebrando concilio”, del quale sono state tramandate alcune prime forme del VII secolo, probabilmente risalenti a sant’Isidoro di Siviglia. […] Anche la presenza di laici era auspicata. […] I risultati venivano firmati da tutti i vescovi e presentati al popolo per l’approvazione. […]
Pur con alcune varianti, questa procedura è stata seguita per seicento anni. Anche l’ultima edizione, pubblicata nel 1984 con il titolo “De conciliis plenariis vel provincialibus et de synodo diocesano”, contiene disposizioni corrispondenti, che riprendono elementi fondamentali della tradizione. Di fatto, se venisse attuata emergerebbe con efficacia il carattere teologico-liturgico del sinodo.
Questo sinodo o concilio provinciale è, di fatto, già di per se stesso liturgia, essendo una forma sacrale dell’esercizio del ministero docente e pastorale fondato sull’ordinazione dei vescovi riuniti. Ma ai nostri giorni evidentemente la consapevolezza di ciò è largamente venuta meno, per cui da molto tempo il sinodo, il concilio provinciale, ha lasciato largamente il posto alla conferenza episcopale. Questo fatto è sia espressione sia causa di un processo strisciante di secolarizzazione della Chiesa ai giorni nostri.
Per potergli finalmente porre un freno – ed è una questione di sopravvivenza – servirebbero, tra altre cose, anche una chiara separazione delle funzioni e degli ambiti di competenza della conferenza episcopale e del sinodo, nonché il ripristino del sinodo come forma sacrale dell’esercizio della “sacra potestas” episcopale fondata sui sacramenti. A tal fine anche l’attuale “Caeremoniale episcoporum” sarebbe di grande aiuto.
Di fatto, se – “sperando contra spem” – si riuscisse a ravvivare questa forma autentica di azione episcopale collegiale, sarebbe un passo importante in direzione dell’obiettivo della de-secolarizzazione e quindi di una rianimazione spirituale della Chiesa, specialmente in Europa.
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Sandro Magister è stato firma storica del settimanale L’Espresso.
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Cosa intendeva San Giovanni Paolo II per collegialità e sinodalità ?

Città del Vaticano , martedì, 22. ottobre, 2024 9:00 (ACI Stampa).
Quando nel 2001 la Assemblea sinodale guidata da San Giovanni Paolo II mise al centro delle riflessione “Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo” si poteva dire che fosse una tappa del cammino iniziato con il Concilio e proseguito con l’Apostolos suos. Al termine dei lavori nella relazione finale, l’allora cardinale Bergoglio lascia aperto un interrogativo: “Oltre al rapporto giuridico di comunione gerarchica, come si potrà incoraggiare la collegialità affettiva e più ancora il vincolo di comunione fra i vescovi in quanto successori degli apostoli e il Successore di Pietro? Quali iniziative si potranno prendere per rafforzare questi legami di carità e perché tale comunione si manifesti meglio a tutti, credenti e non credenti, in tutto il mondo?”
La risposta arrivava in parte nella Esortazione post sinodale Pastores gregis. Due anni dopo la conclusione del sinodo Giovanni Paolo II scrive sul tema della collegialità episcopale le sue ultime pagine di magistero.
A presentare alla stampa il testo sarà proprio il cardinale argentino che ha sostituito lo statunitense Egan rientrato a New York a metà del sinodo per essere vicino ai suoi fedeli sconvolti dall’attentato alle Torri Gemelle. E’ il 17 ottobre del 2003 la Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Pastores gregis viene presentata alla stampa.
Jorge Bergoglio sceglie di parlare in spagnolo, e riassume il testo con veloci pennellate. Sul tema della collegialità dice: “Notese aquí como la dinamica centro-periferica se resuelve en el “unico centro”: Jesu Cristo. Centro totalizante que incluye todas las periferias.”
Oggi nel giorno della festa liturgica del Santo Papa e nel pieno del dibattito sulla sinodalità, quel tema della collegialità sembra tornare prepotentemente al centro della riflessione. Almeno per chi ricorda alcuni testi di San Giovanni Paolo II.
Uno in particolare ha dei passaggi che andrebbero riproposti ai partecipanti al Sinodo in corso.
Il sinodo dei vescovi è certamente il luogo per eccellenza dell’esercizio della collegialità. E per questo forse uno dei discorsi più belli di Giovanni Paolo II su questo tema è quello tenuto a braccio al termine del sinodo del 1990. Il tema era quasi una seconda tappa sulla teologia del Popolo di Dio, dopo i fedeli laici e prima dei vescovi il sinodo affrontava “La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali”. E si celebravano anche i 25 anni di vita del sinodo stesso.
Al termine dell’agape fraterna dopo la messa conclusiva, Giovanni Paolo II prende la parola.
“Io sono uno che ha vissuto tutto il Concilio e vissuto tutto questo periodo post conciliare che è marcato dai diversi sinodi, ho vissuto e partecipato. E mi ricordo un po’ che all’inizio, anche venti anni fa, c’erano grandi speranze intorno al sinodo e queste speranze si sono mostrate fallite. E c’erano dall’altra parte grandi paure a causa di queste speranze. E anche queste paure si sono mostrate non fondate, non dico che sono fallite, ma non fondate. Per spiegare un po’ queste parole enigmatiche voglio ricordare che all’inizio c’erano ambienti che speravano che il sinodo avrebbe potuto opporsi al Papa. Nel modo degno di una comunità democratica che noi non siamo. Ma dall’altra parte c’erano ambienti, forse anche più vicini al centro, che a causa di queste speranze avevano paura del sinodo! Dopo 25 anni possiamo dire che sia le speranze, che si sono manifestate vane, che le paure, appartengono al passato. Oggi viviamo i sinodi uno dopo l’altro con una grande serenità e sempre una maggiore serenità. Se mi ricordo gli ultimi sinodi, anche con tematiche difficili, questo strumento della collegialità dei vescovi è uno strumento efficace. E poi è uno strumento non tanto nelle mani nostre, è uno strumento nelle mani di Dio dello Spirito Santo. E questo andava crescendo se prendiamo il penultimo sinodo con la grande partecipazione dei laici che hanno molto lavorato per convertirci! (…)
Tutto questo è una prova di come il sinodo sia diventato veramente uno strumento provvidenziale per quella che, si potrebbe dire, autorealizzazione della Chiesa. Una realizzazione guidata dallo Spirito Santo. Ma in quanto è una realizzazione realizzata da noi dalle persone umane, dalle comunità umane, è anche un’autoreliazzazione. Con questo riferimento trinitario o almeno pneumatologico.
Allora si vede come questo strumento esprime la tradizione apostolica la istituzione di Cristo, questa istituzione meravigliosa. Ci ha lasciato una struttura allo stesso tempo collegiale e primaziale. Primaziale e collegiale. E uno si realizza attraverso l’altro. Il primato si realizza attraverso la collegialità, e la collegialità attraverso il primato. La nostra serenità e la nostra gioia che noi sperimentiamo durante i sinodi sempre di più, questa nostra gioia proviene dalla riscoperta di questa istituzione di Cristo, istituzione apostolica. Istituzione della struttura gerarchica della Chiesa che per essere primaziale deve essere collegiale e per essere collegiale deve essere primaziale. E si vede sempre di più come questa strutture doppia è nello stesso tempo una struttura omogenea. Proveniente dallo stesso Maestro che ci ha istituito, ci ha dato la vita con la sua morte e con la sua resurrezione, con il suo mistero pasquale, ci ha dato il suo Spirito”.
IL CARATTERE STORICO
- Dobbiamo anche ricordare che, storicamente, la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) fu costituita durante il pontificato di Pio XII, con una riunione a Firenze nel 1952, su sua autorizzazione. Tuttavia, lo statuto della CEI fu approvato da Giovanni Paolo II nel 1985….
Fu Pio XII a dare la sua autorizzazione per l’iniziativa, accogliendo favorevolmente la richiesta di convocare una riunione dei presidenti delle conferenze regionali.
La Congregazione concistoriale inviò le convocazioni ai vescovi il 12 dicembre 1951.
Paolo VI, il 14 aprile 1964, con un discorso a tutto l’episcopato italiano riunito per la prima volta a Roma, anima di fatto la CEI.
Ma già il Codice di Diritto Canonico pio-benedettino del 1917 – preparato da Pio X (1903-1914) e promulgato da Benedetto XV (1914-1922) – fissa il «Concilio provinciale» ogni 20 anni e le Conferenze episcopali regionali ogni anno. - Sarà poi con Pio XII (1939-1958) appunto, che si hanno i primi incontri dei presidenti delle 19 regioni conciliari e appare la sigla Cei. L’incontro inaugurale si tiene l’8-10 gennaio 1952 nella casa dell’arcivescovo di Firenze, cardinale Elia Dalla Costa.
- Il ruolo di presidente fu assunto per volontà del papa stesso dal Cardinale Maurilio Fossati, Arcivescovo di Torino, a partire dal 1954 (fino al 1958), in base a uno statuto provvisorio applicato ad experimentum. Le riunioni annuali si susseguono dal gennaio 1955 a Pompei all’agosto 1963 a Roma.
- Trattano temi scottanti e molto dottrinali: i problemi del costume, la vita cristiana, l’impegno per i valori morali, l’unità politica dei cattolici, la censura.
- Il documento più importante è la lettera dal titolo forte «Questa eresia odierna che si chiama laicismo» (25 marzo 1960).
- Nell’ottobre 1959 Papa Giovanni designa primo presidente il cardinale Giuseppe Siri arcivescovo di Genova.
Si entra nel vivo del Concilio (1962-1965) – con il decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi «Christus Dominus», 28 ottobre 1965 – e della collegialità episcopale e si fa strada l’esigenza di coinvolgere tutti i vescovi.
Importante che, nella primavera 1964, Roma convoca tutti i vescovi il 14-16 aprile per esaminare i temi da affrontare nella III sessione del Concilio.
Da sempre il problema dominante è l’eccessivo numero delle diocesi.
Dice Paolo VI: «Grandi problemi si prospettano, a cominciare dalla preservazione della fede nel popolo, minacciata dall’evoluzione della vita moderna, dal laicismo e dal comunismo».
Papa Montini elenca i problemi dell’Italia: vocazioni e Seminari, istruzione religiosa, assetto sociale cristiano, stampa cattolica, cultura e scuola «nostra».
Per cui, sottolinea «tutti abbiamo la persuasione che questi e altri problemi, interessanti la stabilità e l’efficienza della Chiesa, non possono essere risolti da quel vecchio medico, che in altre circostanze è il tempo; oggi il tempo non corre a nostro vantaggio, da sé i problemi non si risolvono, né la fiducia nella Provvidenza esonera noi pastori responsabili dal compiere ogni possibile sforzo per offrire alla Provvidenza l’occasione di suoi interventi».
I problemi, dice ancora, non sono risolti «da ciascun vescovo e nemmeno da ciascuna regione».
Solo l’aiuto e la solidarietà vincono «difficoltà gravissime con dimensioni nazionali. A tale animazione unitaria può egregiamente provvedere una Conferenza episcopale italiana consapevole della sua missione e animata da sapiente e coraggioso proposito di svolgerla concretamente e tempestivamente».
Così, il primo Sinodo dei Vescovi, tenutosi nel 1967, con le nuove modalità, è stato incentrato sul tema “La preservazione e il rafforzamento della fede cattolica, la sua integrità, il suo vigore, il suo sviluppo, la sua coerenza dottrinale e storica”, espressioni usate da Paolo VI.
«La Conferenza episcopale italiana è organismo di recente istituzione, ma ormai di indispensabile funzionalità. Non è da supporre che l’episcopato possa mancare di questa sua unitaria espressione, di questo strumento di unione, di coordinamento, di mutua collaborazione, di promozione come negli altri Paesi. Se la sua posizione geografica, storica, spirituale, lo pone in speciale posizione verso la Sede Apostolica, non per questo può mancare di una sua propria configurazione canonica e morale, di una sua propria responsabilità collettiva nella cura della vita religiosa del Paese, di un suo piano pastorale, conforme alle istruzioni e direttive della Santa Sede, ma studiato e svolto da organi propri e con mezzi propri».
Paolo VI sessant’anni fa, il 14 aprile 1964, con un discorso a tutto l’episcopato italiano riunito per la prima volta a Roma, istituisce di fatto la Conferenza episcopale italiana, anche se il nome era in uso da una decina d’anni. La sua storia inizia nell’Ottocento e il suo embrione sta nelle Conferenze episcopali regionali di cui si ha notizia dal 1849 con Pio IX (1846-1878), prima dell’Unità d’Italia (1861) quando c’era ancora lo Stato Pontificio. È la più giovane delle Conferenze episcopali: in Belgio i vescovi si riuniscono dal 1832, in Irlanda dal 1854, in Germania dal 1867, in America latina dal 1899. Riunioni regionali formalizzate il 24 agosto 1889 dall’istruzione «Agli arcivescovi» della Congregazione dei vescovi, su disposizione di Leone XIII (1878-1903). Chiesa italiana, Papa e Santa Sede sono un «unicum» inscindibile. Anche dopo il Concordato dell’11 febbraio 1929, con Pio XI (1922-1939) le questioni sono risolte dalla Santa Sede che fino al 1968 gestisce anche i Seminari regionali.
Il Codice di Diritto Canonico pio-benedettino del 1917 – preparato da Pio X (1903-1914) e promulgato da Benedetto XV (1914-1922) – fissa il «Concilio provinciale» ogni 20 anni e le Conferenze episcopali regionali ogni anno. Con Pio XII (1939-1958) si hanno i primi incontri dei presidenti delle 19 regioni conciliari – oggi sono 16 – e appare la sigla Cei. L’incontro inaugurale si tiene l’8-10 gennaio 1952 nella casa dell’arcivescovo di Firenze, cardinale Elia Dalla Costa. L’incontro si ripete a Sestri Levante il 27-29 gennaio 1953 dove si decide di far precedere il successivo da un’inchiesta nelle diocesi sui problemi più urgenti. Alcuni cardinali arcivescovi si riuniscono nel Seminario milanese di Venegono Inferiore il 14-15 settembre 1953. Particolare importanza ha quello al santuario mariano di Pompei del 6-7 novembre 1953 perché da un’inchiesta nasce la prima «lettera collettiva dell’episcopato ai fedeli delle diocesi italiane», firmata dai presidenti delle Conferenze – tra cui Angelo Giuseppe Roncalli – e pubblicata il 2 febbraio 1954 su temi vita cristiana, clero secolare e regolare, laicato.
L’infanzia della Cei, un periodo di rodaggio, va dal 1954 al 1964 con un segretario, dal novembre 1954 il vescovo Alberto Castelli. La Conferenza comprende solo i presidenti regionali. Le riunioni annuali si susseguono dal gennaio 1955 a Pompei all’agosto 1963 a Roma. Trattano: i problemi del costume, la vita cristiana, l’impegno per i valori morali, l’unità politica dei cattolici, la censura. Il documento più importante è la lettera collettiva dal titolo ultimativo «Questa eresia odierna che si chiama laicismo» (25 marzo 1960). Nell’ottobre 1959 Papa Giovanni designa primo presidente il cardinale Giuseppe Siri arcivescovo di Genova. Si entra nel vivo del Concilio (1962-1965) – con il decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi «Christus Dominus», 28 ottobre 1965 – e della collegialità episcopale e si fa strada l’esigenza di coinvolgere tutti i vescovi. Tre Papi provengono dalla Cei: Giovanni XXIII (1958-1963) patriarca di Venezia; Paolo VI (1963-1978) arcivescovo di Milano; Giovanni Paolo I (26 agosto-28 settembre 1978) vescovo di Vittorio Veneto e poi patriarca di Venezia. La Cei si sviluppa all’ombra del Cupolone.
Sessant’anni fa nella primavera 1964 Roma convoca tutti i vescovi il 14-16 aprile per esaminare i temi da affrontare nella III sessione del Concilio. Da sempre il problema dominante è l’eccessivo numero delle diocesi. Dice Paolo VI: «Grandi problemi si prospettano, a cominciare dal numero eccessivo delle diocesi alla preservazione della fede nel popolo, minacciata dall’evoluzione della vita moderna, dal laicismo e dal comunismo». Montini elenca i problemi dell’Italia: vocazioni e Seminari, istruzione religiosa, assetto sociale cristiano, stampa cattolica, cultura e scuola «nostra». Per cui «tutti abbiamo la persuasione che questi e altri problemi, interessanti la stabilità e l’efficienza della Chiesa, non possono essere risolti da quel vecchio medico, che in altre circostanze è il tempo; oggi il tempo non corre a nostro vantaggio, da sé i problemi non si risolvono, né la fiducia nella Provvidenza esonera noi pastori responsabili dal compiere ogni possibile sforzo per offrire alla Provvidenza l’occasione di suoi interventi». I problemi non sono risolti «da ciascun vescovo e nemmeno da ciascuna regione». Solo l’aiuto e la solidarietà vincono «difficoltà gravissime con dimensioni nazionali. A tale animazione unitaria può egregiamente provvedere una Conferenza episcopale italiana consapevole della sua missione e animata da sapiente e coraggioso proposito di svolgerla concretamente e tempestivamente».
I SINODI DEI VESCOVI
TRA CONSULTAZIONE E GOVERNO DELLA RECEZIONE di Don Mario Proietti cpps
La sinodalità non nasce nel Novecento ma nel grembo stesso della Chiesa apostolica. A Gerusalemme gli apostoli e gli anziani si radunarono per discernere insieme e consegnarono una decisione che portava l’impronta dell’obbedienza allo Spirito e dell’unità dell’autorità: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie» (At 15,28). Qui non c’è una trattativa politica, ma un atto ecclesiale in cui l’ascolto reciproco sfocia in un giudizio condiviso sotto la guida degli apostoli.
I Padri apostolici hanno custodito questa forma. Ignazio di Antiochia, martire dell’unità, vede la comunione ordinarsi attorno al vescovo con il presbiterio e i diaconi. Dove è il vescovo, là il popolo si raduna; e nulla si compia senza il vescovo e i presbiteri. È una sinodalità concreta, non teorica, che garantisce la comunione ecclesiale e la validità delle decisioni nella Chiesa reale.
Questa fisionomia si è tradotta in prassi stabile. Il Lateranense IV richiese sinodi provinciali annuali per correggere abusi e riformare i costumi, segno che la sinodalità è un’istituzione al servizio della santità e dell’unità. Il Concilio di Trento, poi, stabilì la cadenza dei sinodi diocesani ogni anno e dei concili provinciali ogni tre anni, per applicare localmente la riforma.
Nel XX secolo questa Tradizione è stata assunta a livello universale. Paolo VI, con il motu proprio Apostolica sollicitudo (1965), ha istituito il Sinodo dei Vescovi come organismo centrale, rappresentativo dell’episcopato, di natura stabile, chiamato a offrire al Romano Pontefice un aiuto efficace. Non sostituisce il primato, lo serve.
Il Codice di Diritto Canonico ne precisa la natura consultiva. Il canone 343 recita: «Spetta al sinodo dei Vescovi discutere sulle questioni da trattare ed esprimere propri voti, non però dirimerle ed emanare decreti su di esse, a meno che in casi determinati il Romano Pontefice, cui spetta in questo caso ratificare le decisioni del sinodo, non gli abbia concesso potestà deliberativa». È il punto chiave che evita ogni scivolamento parlamentare.
Dentro questo quadro si comprendono le stagioni del dopo-Concilio. Giovanni Paolo II fece dei Sinodi un motore di evangelizzazione organica. I Sinodi continentali degli anni Novanta trovarono maturazione nelle esortazioni postsinodali, tra cui Ecclesia in Europa (2003), che hanno inciso sulla vita pastorale, sempre raccolte e rilanciate dal Papa in forma personale. Qui si vede la fedeltà all’impianto originario: il Sinodo consulta, il Papa conferma e guida.
Con Benedetto XVI i Sinodi si sono distinti per rigore teologico. Quello sulla Parola di Dio (2008) ha portato alla Verbum Domini (2010), un testo di grande spessore dottrinale che radica la pastorale nell’oggettività della Rivelazione, mostrando che il Sinodo non è laboratorio sociologico ma ascolto della Scrittura nella Tradizione.
Con Francesco il Sinodo ha assunto un profilo più processuale. Il percorso sulla famiglia (2014 e 2015) è confluito in Amoris laetitia (2016). L’intenzione di un ascolto esteso delle Chiese locali ha incontrato anche il timore, in non pochi fedeli, di un indebolimento della chiarezza dottrinale su matrimonio e sacramenti. Resta però fermo il principio: il Sinodo non è un parlamento. Lo ha ricordato lo stesso Papa nell’aprire i lavori del 2023, indicando lo Spirito come protagonista del cammino.
Anche il Sinodo sull’Amazzonia (2019) ha suscitato vivaci dibattiti. Tra le proposte finali si parlava di viri probati e di ministeri femminili istituiti. Nell’esortazione Querida Amazonia (2020), il Papa non ha accolto tali richieste, confermando nella prassi la natura consultiva del Sinodo e la libertà del Pontefice nel riceverne i frutti.
Infine, il processo 2021–2024 sulla sinodalità ha coinvolto diocesi, conferenze e assemblee continentali, culminando nell’approvazione e pubblicazione del Documento finale nell’ottobre 2024, con un richiamo esplicito alla fase attuativa. Qui la sfida è alta: valorizzare la corresponsabilità dei battezzati senza trasformare il metodo partecipativo in un meccanismo democratico che snaturi la costituzione divina della Chiesa.
Si possono distinguere, così, tre stagioni. Con Paolo VI e Giovanni Paolo II i Sinodi hanno consolidato la riforma conciliare nel quadro del magistero pontificio. Con Benedetto XVI sono stati momenti di approfondimento dottrinale. Con Francesco si sono fatti laboratori di processi, con luci e ombre: maggiore partecipazione, ma talora confusione tra consultazione e deliberazione, tra discernimento ecclesiale e dinamiche assembleari. Il criterio di giudizio rimane quello del diritto e della teologia: consultivo per natura, deliberativo solo se e quando il Papa lo concede, con ratifica esplicita.
Da qui discende un principio operativo.
Occorre distinguere ciò che è magistero vincolante da ciò che è orientamento pastorale. Il Sinodo non definisce dogmi, ma offre al Papa il frutto della collegialità. Quando questo è chiaro, il Sinodo è un dono; quando è interpretato come parlamento, diventa fonte di equivoci. Non è il Concilio ad aver generato ambiguità, ma talune forme della sua recezione.
Conferenze episcopali e Sinodi dei Vescovi rendono visibile la collegialità senza creare strutture parallele al primato. Quando sono vissuti cum Petro et sub Petro, rafforzano l’unità della Chiesa; quando si trasformano in burocrazia o in arene dialettiche, producono smarrimento. Il filo rosso è lo stesso: la Chiesa non è una democrazia ma il Corpo di Cristo, guidato dallo Spirito attraverso il Papa e i vescovi.
Per questo, il vero banco di prova del Vaticano II non sta nei documenti o nelle strutture, ma nella vita ordinaria delle comunità. È nella liturgia celebrata, nella catechesi, nella pastorale familiare, nella missione quotidiana che si vede se i testi conciliari sono stati accolti con fedeltà o deformati. Da qui il nostro passo successivo: scendere dalla teoria alla prassi e verificare come il Concilio sia stato vissuto, rispettato o tradito nella concretezza delle parrocchie e delle diocesi.
Oggi questo cammino continua sotto il successore di Pietro, Papa Leone XIV.
A lui spetta custodire e far fruttificare uno strumento che, dalle origini apostoliche alla codificazione canonica, serve l’unità della fede e la carità ordinata della Chiesa. Cum Petro, sub Petro, nello Spirito che guida, non in una logica di maggioranza ma nella verità che salva.
