Cari Amici poniamo alla vostra attenzione e riflessione, il seguente testo di Papa Gregorio XVI, per comprendere come si denunciano gli errori e come li dobbiamo combattere…
“Fu appunto per non contaminarsi di tanto obbrobrioso delitto che gli antichi Cristiani, pur nel bollore delle persecuzioni, sempre bene meritarono degl’Imperatori e della salvezza dell’Impero, adoperandosi con fedeltà nell’adempiere esattamente e prontamente quanto veniva loro comandato che non fosse contrario alla Religione: impegnandosi con costanza ed anche con il sangue abbondantemente sparso in battaglie per essi. «I soldati cristiani – afferma Sant’Agostino [Salmo 124, n. 7] – servirono l’Imperatore infedele; quando si toccava la causa di Cristo, non conoscevano che Colui che è nei Cieli. Distinguevano il Signore eterno dal Signore temporale, tuttavia proprio per il Signore eterno ubbidivano quali sudditi anche al Signore terreno».
(..) Esempi così luminosi d’inalterabile sommissione ai Principi, che necessariamente derivavano dai santissimi precetti della Religione Cristiana, condannano altamente la detestabile insolenza e slealtà di coloro che, accesi dall’insana e sfrenata brama di una libertà senza ritegno, sono totalmente rivolti a manomettere, anzi a svellere qualunque diritto del Principato, onde poscia recare ai popoli, sotto colore di libertà, il più duro servaggio. A questo scopo per verità cospirarono gli scellerati deliri e i disegni dei Valdesi, dei Beguardi, dei Wiclefiti e di altri simili figli di Belial, che furono l’ignominia e la feccia dell’uman genere, meritamente perciò tante volte colpiti dagli anatemi di questa Sede Apostolica. Né certamente per altro motivo codesti pensatori moderni sviluppano le loro forze, se non perché possano menar festa e trionfo con Lutero, e compiacersi con lui di «essere liberi da tutti», disposti perciò decisamente ad accingersi a qualunque più riprovevole impresa per giungere con più facilità e speditezza a conseguire l’intento.”
(Gregorio XVI – enc. Mirari Vos – 15.8.1832)
O come quando, a tempi alternati, si è sempre attentato al CELIBATO SACERDOTALE, ecco la denuncia di Gregorio XVI:
“E qui vogliamo eccitare sempre più la vostra costanza a favore della Religione, affinché vi opponiate all’immonda congiura contro il celibato clericale: congiura che, come sapete, si accende ogni dì più estesamente, unendo ai tentativi dei più sciagurati filosofi dell’età nostra anche alcuni dello stesso ceto ecclesiastico: di persone che, dimentiche della loro dignità e del loro ministero, trascinate dal lusinghiero torrente delle voluttà, proruppero in tale eccesso di licenziosa impudenza che non ristettero dal presentare in più luoghi pubbliche reiterate domande ai Governi, onde venisse abrogato ed annientato questo santissimo punto di disciplina.“
(Gregorio XVI – enc. Mirari Vos – 15.8.1832)
Così come anche l’attacco al Matrimonio, alla Famiglia:
“Inoltre, l’onorando matrimonio dei Cristiani esige le Nostre comuni premure affinché in esso, chiamato da San Paolo «Sacramento grande in Cristo e nella Chiesa» (Eb 13,4), nulla s’introduca o si tenti introdurre di meno onesto che sia contrario alla sua santità o leda l’indissolubilità del suo vincolo. Vi aveva già raccomandato insistentemente questo nelle sue lettere il Nostro Predecessore Pio VIII di felice memoria: ma continuano a moltiplicarsi tuttavia contro di esso gli attentati dell’empietà.“
(Gregorio XVI – enc. Mirari Vos – 15.8.1832) – si legga anche cliccando qui: 1883 Patriarca di Venezia profetizza l’apostasia e la fine della Famiglia
Il testo integrale dell’enciclica può essere scaricato qui in pdf
Ricordiamo anche:
Gregorio XVI contro le traduzioni protestanti e di acattolici, della Bibbia – CLICCA QUI
ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE
GREGORIO XVI
MIRARI VOS
A tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi dell’orbe cattolico.
Il Papa Gregorio XVI.
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Non riteniamo che voi vi meravigliate perché, da quando è stato imposto alla Nostra pochezza l’incarico del governo di tutta la Chiesa, non vi abbiamo ancora indirizzato Nostre lettere, secondo la consuetudine introdotta fin dai primi tempi e come la benevolenza Nostra verso di voi avrebbe richiesto. Era questo per la verità uno dei Nostri più vivi desideri: dilatare senza indugio sopra di voi il Nostro cuore, e parlarvi in comunione di spirito con quella voce con la quale nella persona del Beato Pietro fu divinamente ingiunto a Noi di confermare i fratelli (Lc 22,32).
Ma voi ben sapete per quale procella di mali e di calamità fin dai primi momenti del Nostro Pontificato fummo d’improvviso balzati in un mare così tempestoso, che se la destra del Signore non avesse testimoniato la propria virtù, avreste dovuto per la più perversa cospirazione degli empi compiangere il Nostro fatale sommergimento. L’animo rifugge dal rinnovare con l’amara esposizione di tanti infortuni il dolore vivissimo che ne provammo; e piuttosto Ci piace innalzare riconoscenti benedizioni al Padre di ogni consolazione, il quale con la dispersione dei ribelli Ci trasse dall’imminente pericolo e sedata la furiosa tempesta Ci fece respirare. Noi Ci proponemmo immediatamente di comunicarvi le Nostre idee relative al risanamento delle piaghe di Israele: ma la grave mole di cure che sopraggiunse per conciliare il ristabilimento dell’ordine pubblico pose un ostacolo alla realizzazione del Nostro proposito.
Un nuovo motivo per tenerci silenziosi giunse dalla insolenza dei faziosi, che tentarono di alzare nuovamente il vessillo della fellonia. Vero è che, vedendo Noi che la lunga impunità e la costante Nostra benigna indulgenza, anziché ammansire, alimentavano piuttosto lo sfrenato furore dei ribelli, dovemmo infine, sebbene con acerbissimo dispiacere, ricorrere alle armi spirituali (1Cor 4,21) per frenare tanta loro pervicacia, valendoci dell’autorità conferitaci a tal fine da Dio: ma da questo appunto potete agevolmente comprendere quanto più laboriosa e pressante sia resa la Nostra quotidiana sollecitudine.
Ma giunti finalmente, secondo il costume dei Predecessori, a prendere nella Nostra Basilica Lateranense quel possesso che per le citate ragioni avevamo dovuto differire, troncato ogni indugio Ci rivolgiamo sollecitamente a voi, Venerabili Fratelli, e quale testimonianza della Nostra volontà vi indirizziamo questa Lettera fra l’esultanza di questo giorno lietissimo, in cui festeggiamo il trionfo della Vergine Assunta in Cielo, onde Ella, che fra le più dolorose calamità Noi sperimentammo sempre Avvocata e Liberatrice, tale pure Ci assista propizia nello scrivere a voi, e con la sua celeste ispirazione fecondi la Nostra mente di quei consigli che siano sommamente salutari per il gregge cristiano.
Dolenti invero, e col cuore sopraffatto dall’amarezza, veniamo a voi, Venerabili Fratelli, che, atteso il vostro zelo ed il vostro attaccamento alla Religione, ben sappiamo essere sommamente angustiati per l’acerbità dei tempi in cui essa versa miseramente, poiché davvero potremmo dire che questa è l’ora delle tenebre per vagliare come grano i figli di elezione (Lc 22,53). A ragione si può ripetere con Isaia: «Pianse, e la terra avvelenata dai suoi abitanti scomparve, perché avevano mutato il diritto, avevano rotto il patto sempiterno» (Is 24,5).
Venerabili Fratelli, diciamo cose che voi pure avete di continuo sotto i vostri occhi e che deploriamo perciò con pianto comune. Superba tripudia la disonestà, insolente è la scienza, licenziosa la sfrontatezza. Viene disprezzata la santità delle cose sacre: e l’augusta maestà del culto divino, che pur tanto possiede di forza e di necessità sul cuore umano, viene indegnamente contaminata da uomini ribaldi, riprovata, messa a ludibrio. Quindi si stravolge e perverte la sana dottrina, ed errori d’ogni genere si disseminano audacemente. Non leggi sacre, non diritti, non istituzioni, non discipline, anche le più sante, sono al sicuro di fronte all’ardire di costoro, che solo eruttano malvagità dalla sozza loro bocca. Bersaglio di incessanti, durissime vessazioni è fatta questa Nostra Romana Sede del Beatissimo Pietro, nella quale Gesù Cristo stabilì la base della Chiesa; i vincoli dell’unità di giorno in giorno maggiormente s’indeboliscono e si sciolgono. La divina autorità della Chiesa viene contestata e, calpestati i suoi diritti, si vuole assoggettarla a ragioni terrene; con suprema ingiustizia si vuole renderla odiosa ai popoli e ridurla ad ignominiosa servitù. Intanto s’infrange l’obbedienza dovuta ai Vescovi, e viene conculcata la loro autorità. Le Accademie e le Scuole echeggiano orribilmente di mostruose novità di opinioni, con le quali non più segretamente e per vie sotterranee si attacca la Fede cattolica, ma scopertamente e sotto gli occhi di tutti le si muove un’orribile e nefanda guerra. Infatti, corrotti gli animi dei giovani allievi per gl’insegnamenti viziosi e per i pravi esempi dei Precettori, si sono dilatati ampiamente il guasto della Religione ed il funestissimo pervertimento dei costumi. Scosso per tal maniera il freno della santissima Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni e si mantengono ferme la forza e l’autorità di ogni dominazione, si vedono aumentare la sovversione dell’ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento di ogni legittima potestà. Ma una congerie così enorme di disavventure si deve in particolare attribuire alla cospirazione di quelle Società nelle quali sembra essersi raccolto, come in sozza sentina, quanto v’ha di sacrilego, di abominevole e di empio nelle eresie e nelle sette più scellerate.
Queste cose, Venerabili Fratelli, ed altre forse più gravi che al presente sarebbe troppo lungo annoverare e che voi ben conoscete Ci addolorano, di un dolore tanto più acerbo e continuo in quanto, posti sulla cattedra del Principe degli Apostoli, Ci sentiamo obbligati a tormentarci più di ogni altro dallo zelo per tutta la Casa di Dio. Ma scorgendoci collocati in una sede ove non basta piangere soltanto queste innumerabili sciagure, ma occorre compiere ogni sforzo per procurarne l’estirpamento, ricorriamo a tal fine al sussidio della vostra Fede, ed eccitiamo la vostra sollecitudine per la salvezza del gregge cattolico, Venerabili Fratelli, la cui specchiata virtù, religione, prudenza ed assiduità Ci danno coraggio, ed in mezzo all’afflizione che Ci cagionano circostanze così disastrose, dolcemente Ci confortano e consolano. È Nostro obbligo, infatti, alzare la voce e tentare ogni prova, perché né il cinghiale della selva devasti la vigna, né i lupi rapaci piombino a fare strage del gregge. A Noi spetta guidare le pecore soltanto a quei pascoli che siano per esse salubri, e scevri d’ogni anche lieve sospetto d’essere dannosi. Dio non voglia, o carissimi, che mentre premono tanti mali e tanti pericoli sovrastano, manchino al proprio ufficio i Pastori che, colpiti da sbigottimento, trascurino le pecore o, deposta la cura del gregge, si abbandonino all’ozio ed alla pigrizia. Trattiamo anzi, perciò, nell’unità dello spirito la comune causa Nostra, o per meglio dire la causa di Dio, e contro i comuni nemici si abbiano per la salute di tutto il popolo la medesima vigilanza in tutti e il medesimo impegno.
Ciò poi adempirete felicemente se, come esige la ragione del vostro incarico, attenderete indefessamente a voi stessi e alla dottrina, richiamando spesso al pensiero che «la Chiesa Universale riceve l’urto di ogni novità» [S. Celestino papa, Ep. 21 ad Episc. Galliae] e che, secondo il parere del Pontefice Sant’Agatone, «delle cose che furono regolarmente definite, nessuna dovessi diminuire, nessuna mutare, nessuna aggiungere, ma tali esse debbono essere custodite intatte nelle parole e nei significati» [S. Agatone papa, Ep. ad Imp.]. Integra rimarrà così la fermezza di quella unità che ha il proprio fondamento e si esprime in questa Cattedra di Pietro, donde appunto derivano su tutte le Chiese i diritti della veneranda comunione e dove tutte «possono rinvenire muro di difesa e sicurezza, porto protetto dai flutti e tesoro d’innumerevoli beni» [S. Innocenzo papa, Ep. II]. A rintuzzare pertanto la temerità di coloro i quali adoperano tutti i mezzi o per abbattere i diritti di questa Santa Sede, o per sciogliere il rapporto delle Chiese con la stessa (rapporto in forza del quale esse hanno fermezza, solidità e vigore), inculcate il massimo impegno di fedeltà e di venerazione sincera verso la stessa Sede, facendo chiaramente intendere con San Cipriano che «falsamente confida di essere nella Chiesa chi abbandona la Cattedra di Pietro, sopra la quale è fondata la Chiesa» [San Cipriano, De unitate Ecclesiae].
A tale obiettivo debbono perciò tendere i vostri travagli, le vostre cure sollecite e l’assidua vostra vigilanza, affinché gelosamente sia custodito il santo deposito della Fede in mezzo all’infernale cospirazione degli empi, che con Nostro estremo cordoglio vediamo intenta a derubarlo e a perderlo. Si ricordino tutti che il giudizio intorno alla sana dottrina da insegnare ai popoli, non meno che il governo ed il giurisdizionale reggimento della Chiesa sono presso il Romano Pontefice, «a cui fu conferita da Gesù Cristo la piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale» come dichiararono solennemente i Padri del Concilio di Firenze [Conc. Flor., sess. 25]. È poi obbligo di ogni Vescovo tenersi fedelissimamente attaccato alla cattedra di Pietro, custodire santamente e scrupolosamente il deposito della Fede, e pascere il gregge di Dio affidatogli. I Sacerdoti debbono stare soggetti ai Vescovi i quali, avverte San Girolamo [S. Girolamo, Ep. 2 ad Nepot. a. I, 24], devono essere considerati dagli stessi come «padri della loro anima»: né si dimentichino mai che anche dagli antichi Canoni è loro vietato d’intraprendere azione alcuna nel sacro Ministero, e di assumersi l’ufficio d’insegnare e di predicare «senza il consenso del Vescovo a cui il popolo fu affidato ed al quale si domanderà conto delle anime» [Ex can. ap. 38]. Infine si tenga presente quale regola certa e sicura che tutti coloro che osassero macchinare qualche cosa contro questo ordine così stabilito perturberebbero lo stato della Chiesa.
Sarebbe poi cosa troppo nefanda ed assolutamente aliena da quell’affetto di venerazione con cui si debbono rispettare le leggi della Chiesa, il lasciarsi trasportare da forsennata mania di opinare a capriccio, permettendo a qualcuno di disapprovare, o di accusare come contraria a certi principi di diritto di natura, o di dire manchevole e imperfetta e dipendente dalla civile autorità quella sacra disciplina che la Chiesa fissò per l’esercizio del culto divino, per la direzione dei costumi, per la prescrizione dei suoi diritti, e per il gerarchico regolamento dei suoi Ministri.
Essendo inoltre massima irrefragabile, per valerci delle parole dei Padri Tridentini, che «la Chiesa fu erudita da Gesù Cristo e dai suoi Apostoli, e che viene ammaestrata dallo Spirito Santo, il quale di giorno in giorno le suggerisce ogni verità» [S. Girolamo, Ep. 2 ad Nepot., a. I, 24], appare chiaramente assurdo ed oltremodo ingiurioso per la Chiesa proporsi una certa «restaurazione e rigenerazione», come necessaria per provvedere alla sua salvezza ed al suo incremento, quasi che la si potesse ritenere soggetta a difetto, o ad oscuramento o ad altri inconvenienti di simil genere: tutte macchinazioni e trame dirette dai novatori al malaugurato loro fine di gettare le «fondamenta di un recente umano stabilimento» onde avvenga quello che era tanto condannato da San Cipriano, «che la Chiesa divenisse cosa umana», quando, al contrario, è cosa tutta divina [S. Cipriano, Ep. 52]. Ma coloro che vanno meditando siffatti disegni considerino che per testimonianza di San Leone, al solo Romano Pontefice «è affidata la disciplina dei Canoni» e che a lui solo appartiene, e non a privato uomo chicchessia, i1 definire sulle regole «delle paterne sanzioni», e, come scrive San Gelasio [S. Gelasio, papa, Ep. ad Episcopum Lucaniae] «bilanciare in tal maniera i decreti dei Canoni e commisurare in tal modo i precetti dei Predecessori: dopo diligenti riflessioni si dia un conveniente temperamento a quelle cose che la necessità dei tempi richiede di dover moderare prudentemente per il bene delle Chiese».
E qui vogliamo eccitare sempre più la vostra costanza a favore della Religione, affinché vi opponiate all’immonda congiura contro il celibato clericale: congiura che, come sapete, si accende ogni dì più estesamente, unendo ai tentativi dei più sciagurati filosofi dell’età nostra anche alcuni dello stesso ceto ecclesiastico: di persone che, dimentiche della loro dignità e del loro ministero, trascinate dal lusinghiero torrente delle voluttà, proruppero in tale eccesso di licenziosa impudenza che non ristettero dal presentare in più luoghi pubbliche reiterate domande ai Governi, onde venisse abrogato ed annientato questo santissimo punto di disciplina. Ma troppo C’incresce di trattenervi lungamente sopra questi turpi attentati, e piuttosto con fiducia incarichiamo la religione vostra affinché impieghiate ogni vostro zelo per mantenere sempre, secondo quanto prescritto dai Sacri Canoni, intatta, custodita, ferma e difesa una legge di tanto rilievo, contro la quale da ogni parte si scagliano gli strali degli impudichi.
Inoltre, l’onorando matrimonio dei Cristiani esige le Nostre comuni premure affinché in esso, chiamato da San Paolo «Sacramento grande in Cristo e nella Chiesa» (Eb 13,4), nulla s’introduca o si tenti introdurre di meno onesto che sia contrario alla sua santità o leda l’indissolubilità del suo vincolo. Vi aveva già raccomandato insistentemente questo nelle sue lettere il Nostro Predecessore Pio VIII di felice memoria: ma continuano a moltiplicarsi tuttavia contro di esso gli attentati dell’empietà. È perciò necessario istruire accuratamente i popoli che il matrimonio, una volta legittimamente contratto, non può più sciogliersi, e che Dio ha ingiunto ai coniugati una perpetua unione di vita ed un tal legame che solo con la morte può rompersi. Rammentando che il matrimonio si annovera fra le cose sacre, e che per questo è soggetto alla Chiesa, essi abbiano di continuo presenti le leggi da questa stabilite in materia, e quelle adempiano santamente ed esattamente come prescrizioni, dalla cui osservanza fedele dipendono la forza, la validità e la giustizia del medesimo. Si astenga ognuno dal commettere per qualsivoglia motivo atti che siano contrari alle canoniche disposizioni e ai decreti dei Concilii che lo riguardano, ben conoscendosi che esito infelicissimo sogliono avere quei matrimoni che o contro la disciplina della Chiesa o senza che sia stata implorata prima la benedizione del Cielo, o per solo bollore di cieca passione vengono celebrati senza che gli sposi si prendano alcun pensiero della santità del Sacramento e dei misteri che vi si nascondono.
Veniamo ora ad un’altra sorgente trabocchevole dei mali, da cui piangiamo afflitta presentemente la Chiesa: vogliamo dire l’indifferentismo ossia quella perversa opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto. Ma a voi non sarà malagevole cosa allontanare dai popoli affidati alla vostra cura un errore così pestilenziale intorno ad una cosa chiara ed evidentissima, senza contrasto. Poiché è affermato dall’Apostolo (Ad Ephes., 4,5) che esiste “un solo Iddio, una sola Fede, un solo Battesimo”, temano coloro i quali sognano che veleggiando sotto bandiera di qualunque Religione possa egualmente approdarsi al porto dell’eterna felicità, e considerino che per testimonianza dello stesso Salvatore (Lc 11,23) “essi sono contro Cristo, perché non sono con Cristo”, e che sventuratamente disperdono solo perché con lui non raccolgono; quindi “senza dubbio periranno in eterno se non tengono la Fede cattolica, e questa non conservino intera ed inviolata” (Symbol. S. Athanasii). Ascoltino San Girolamo il quale – trovandosi la Chiesa divisa in tre parti a causa dello scisma – racconta che, tenace come egli era del santo proposito, quando qualcuno cercava di attirarlo al suo partito, egli rispondeva costantemente ad alta voce: “Chi sta unito alla Cattedra di Pietro, quegli è mio” (S. Girolamo, Ep. 58). A torto poi qualcuno, fra coloro che alla Chiesa non sono congiunti, oserebbe trarre ragione di tranquillizzante lusinga per essere anche lui rigenerato nell’acqua di salute; poiché gli risponderebbe opportunamente Sant’Agostino: “Anche il ramoscello reciso dalla vite ha la stessa forma, ma che gli giova la forma se non vive della radice?”(S. Agostino, Salmo contro part. Donat.).
Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione. «Ma qual morte peggiore può darsi all’anima della libertà dell’errore?» esclamava Sant’Agostino [Ep. 166]. Tolto infatti ogni freno che tenga nelle vie della verità gli uomini già diretti al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il «pozzo d’abisso» (Ap 9,3), dal quale San Giovanni vide salire tal fumo che il sole ne rimase oscurato, uscendone locuste innumerabili a devastare la terra. Conseguentemente si determina il cambiamento degli spiriti, la depravazione della gioventù, il disprezzo nel popolo delle cose sacre e delle leggi più sante: in una parola, la peste della società più di ogni altra esiziale, mentre l’esperienza di tutti i secoli, fin dalla più remota antichità, dimostra luminosamente che città fiorentissime per opulenza, potere e gloria per questo solo disordine, cioè per una eccessiva libertà di opinioni, per la licenza delle conventicole, per la smania di novità andarono infelicemente in rovina.
A questo fine è diretta quella pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita «libertà della stampa» nel divulgare scritti di qualunque genere; libertà che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore. Inorridiamo, Venerabili Fratelli, nell’osservare quale stravaganza di dottrine ci opprime o, piuttosto, quale portentosa mostruosità di errori si spargono e disseminano per ogni dove con quella sterminata moltitudine di libri, di opuscoli e di scritti, piccoli certamente di mole, ma grandissimi per malizia, dai quali vediamo con le lacrime agli occhi uscire la maledizione ad inondare tutta la faccia della terra. Eppure (ahi, doloroso riflesso!) vi sono taluni che giungono alla sfrontatezza di asserire con insultante protervia che questo inondamento di errori è più che abbondantemente compensato da qualche opera che in mezzo a tanta tempesta di pravità si mette in luce per difesa della Religione e della verità. Nefanda cosa è certamente, e da ogni legge riprovata, compiere a bella posta un male certo e più grave, perché vi è lusinga di poterne trarre qualche bene. Ma potrà mai dirsi da chi sia sano di mente che si debba liberamente ed in pubblico spargere, vendere, trasportare, anzi tracannare ancora il veleno, perché esiste un certo rimedio, usando il quale avviene che qualcuno scampa alla morte?
Ma assai ben diverso fu il sistema adoperato dalla Chiesa per sterminare la peste dei libri cattivi fin dall’età degli Apostoli, i quali, come leggiamo, hanno consegnato alle fiamme pubblicamente grande quantità di tali libri (At 19,19). Basti leggere le disposizioni date a tale proposito nel Concilio Lateranense V, e la Costituzione che pubblicò Leone X di felice memoria, Nostro Predecessore, appunto perché «quella stampa che fu salutarmente scoperta per l’aumento della Fede e per la propagazione delle buone arti, non venisse rivolta a fini contrari e recasse danno e pregiudizio alla salute dei fedeli di Cristo» [Act. Conc. Lateran. V, sess. 10]. Ciò stette parimenti a cuore dei Padri Tridentini al punto che per applicare opportuno rimedio ad un inconveniente così dannoso, emisero quell’utilissimo decreto sulla formazione dell’Indice dei libri nei quali fossero contenute malsane dottrine . Clemente XIII, Nostro Predecessore di felice memoria, nella sua enciclica sulla proscrizione dei libri nocivi [Christianae reipublicae, 25 novembre 1766] afferma che «si deve lottare accanitamente, come richiede la circostanza stessa, con tutte le forze, al fine di estirpare la mortifera peste dei libri; non potrà infatti essere eliminata la materia dell’errore fino a quando gli elementi impuri di pravità non periscano bruciati». Pertanto, per tale costante sollecitudine con la quale in tutti i tempi questa Sede Apostolica si adoperò sempre di condannare i libri pravi e sospetti, e di strapparli di mano ai fedeli, si rende assai palese quanto falsa, temeraria ed oltraggiosa alla stessa Sede Apostolica, nonché foriera di sommi mali per il popolo cristiano sia la dottrina di coloro i quali non solo rigettano come grave ed eccessivamente onerosa la censura dei libri, ma giungono a tal punto di malignità che la dichiarano perfino aborrente dai principi del retto diritto e osano negare alla Chiesa l’autorità di ordinarla e di eseguirla.
Avendo poi rilevato da parecchi scritti che circolano fra le mani di tutti propagarsi certe dottrine tendenti a far crollare la fedeltà e la sommissione dovuta ai Principi, e ad accendere ovunque le torce della guerra, vi esortiamo ad essere sommamente guardinghi, affinché i popoli, a seguito di tale seduzione, non si lascino miseramente rimuovere dal diritto sentiero. Riflettano tutti che, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, «non vi è potere se non da Dio, e le cose che sono furono ordinate da Dio. Perciò chi resiste al potere, resiste all’ordinamento di Dio, e coloro che resistono si procurano da se stessi la condanna» (Rm 3,2). Il divino e l’umano diritto gridano contro coloro i quali, con infamissime trame e con macchinazioni di ostilità e di sedizioni impiegano i loro sforzi nel mancare di fede ai Principi, ed a cacciarli dal trono.
Fu appunto per non contaminarsi di tanto obbrobrioso delitto che gli antichi Cristiani, pur nel bollore delle persecuzioni, sempre bene meritarono degl’Imperatori e della salvezza dell’Impero, adoperandosi con fedeltà nell’adempiere esattamente e prontamente quanto veniva loro comandato che non fosse contrario alla Religione: impegnandosi con costanza ed anche con il sangue abbondantemente sparso in battaglie per essi. «I soldati cristiani – afferma Sant’Agostino [Salmo 124, n. 7] – servirono l’Imperatore infedele; quando si toccava la causa di Cristo, non conoscevano che Colui che è nei Cieli. Distinguevano il Signore eterno dal Signore temporale, tuttavia proprio per il Signore eterno ubbidivano quali sudditi anche al Signore terreno». Tali argomenti aveva sotto gli occhi l’invitto martire San Maurizio, capo della Legione Tebana, allorché – come riferisce Sant’Eucherio – così rispose all’Imperatore: «Imperatore, noi siamo tuoi soldati, però siamo al tempo stesso servi di Dio, e lo confessiamo liberamente… Eppure, neanche questa stessa dura necessità di serbare la vita ci spinge alla ribellione: ecco, abbiamo le armi, eppure non facciamo resistenza, perché reputiamo sorte migliore il morire che l’uccidere» [S. Eucherio, apud Ruinart, Act. SS. MM. de SS. Maurit. et Soc., n. 4]. Tale fedeltà degli antichi Cristiani verso i loro Principi risplende anche più luminosa se si riflette con Tertulliano che a quei tempi «non mancava ai Cristiani gran numero di armi e di armati se avessero voluto farla da nemici dichiarati. Siamo usciti da poco all’esterno, egli dice agli Imperatori, e già abbiamo riempito ogni vostro luogo, le città, le isole, i castelli, i municipi, le adunanze, gli accampamenti stessi, le tribù, le curie, il palazzo, il senato, il foro… A qual guerra non saremmo stati idonei e pronti, quando pure fossimo inferiori di numero, noi che ci lasciamo trucidare tanto volonterosamente, se dalla nostra disciplina non fosse permesso più il lasciarsi uccidere che l’uccidere? Se tanta moltitudine di persone, quale noi siamo, allontanandosi da voi, si fosse rifugiata in qualche remotissimo angolo dell’orbe, avrebbe certamente recato vergogna alla vostra potenza la perdita di tanti cittadini, quali che fossero; anzi l’avrebbe punita con lo stesso abbandono. Senza dubbio vi sareste sbigottiti di fronte a tale solitudine… e avreste cercato a chi poter comandare: vi sarebbero rimasti più nemici che cittadini, mentre ora avete minor numero di nemici, tenuto conto della moltitudine dei Cristiani» [Tertulliano, Apologet., cap. 37].
Esempi così luminosi d’inalterabile sommissione ai Principi, che necessariamente derivavano dai santissimi precetti della Religione Cristiana, condannano altamente la detestabile insolenza e slealtà di coloro che, accesi dall’insana e sfrenata brama di una libertà senza ritegno, sono totalmente rivolti a manomettere, anzi a svellere qualunque diritto del Principato, onde poscia recare ai popoli, sotto colore di libertà, il più duro servaggio. A questo scopo per verità cospirarono gli scellerati deliri e i disegni dei Valdesi, dei Beguardi, dei Wiclefiti e di altri simili figli di Belial, che furono l’ignominia e la feccia dell’uman genere, meritamente perciò tante volte colpiti dagli anatemi di questa Sede Apostolica. Né certamente per altro motivo codesti pensatori moderni sviluppano le loro forze, se non perché possano menar festa e trionfo con Lutero, e compiacersi con lui di «essere liberi da tutti», disposti perciò decisamente ad accingersi a qualunque più riprovevole impresa per giungere con più facilità e speditezza a conseguire l’intento.
Né più lieti successi potremmo presagire per la Religione ed il Principato dai voti di coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno, e troncata la mutua concordia dell’Impero col Sacerdozio. È troppo chiaro che dagli amatori d’una impudentissima libertà si teme quella concordia che fu sempre fausta e salutare al governo sacro e civile.
Ma a tante e così amare cause che Ci tengono solleciti e nel comune pericolo Ci crucciano con dolore singolare, si unirono certe associazioni e determinate aggregazioni nelle quali, fatta lega con gente d’ogni religione, anche falsa e di estraneo culto, si predica libertà d’ogni genere, si suscitano turbolenze contro il sacro e il civile potere, e si conculca ogni più veneranda autorità, sotto lo specioso pretesto di pietà e di attaccamento alla religione, ma con mira in fatto di promuovere ovunque novità e sedizioni.
Queste cose, Venerabili Fratelli, con animo dolentissimo, ma pieni di fiducia in Colui che comanda ai venti e porta la tranquillità, vi abbiamo scritto affinché, impugnato lo scudo della Fede, seguitiate animosi a combattere le battaglie del Signore. A voi sopra ogni altro compete stare qual muro saldo di fronte ad ogni superba potenza che si voglia alzare contro la scienza di Dio. Da voi si brandisca la spada dello Spirito, che è la parola di Dio, e siano da voi provveduti di pane coloro che hanno fame di giustizia. Chiamati ad essere coltivatori industriosi nella vigna del Signore, occupatevi di questo solo, e a questo solo volgete le comuni vostre fatiche: cioè che ogni radice di amarezza sia divelta dal campo a voi assegnato e, spento ogni seme vizioso, cresca in esso, abbondante e rigogliosa, la messe delle virtù. Abbracciando con paterno affetto coloro che si applicano agli studi filosofici, e più ancora alle sacre discipline, inculcate loro premurosamente che si guardino dal fidarsi delle sole forze del proprio ingegno per non lasciare il sentiero della verità e prendere imprudentemente quello degli empi. Si ricordino che Dio «è il duce della sapienza e il perfezionatore dei sapienti» (Sap 7,15), e che non può mai avvenire che senza Dio conosciamo Dio, il quale per mezzo del Verbo insegna agli uomini a conoscere Dio [S. Ireneo, lib. 14, cap. 10]. È proprio del superbo, o piuttosto dello stolto, il volere pesare sulle umane bilance i misteri della Fede, che superano ogni nostra possibilità, e fidare sulla ragione della nostra mente, che per la condizione stessa della umana natura è troppo fiacca e malata.
Per il resto, i Nostri carissimi figli in Cristo, i Principi, assecondino questi comuni voti – per il bene della Chiesa e dello Stato – con il loro aiuto e con quell’autorità che devono considerare conferita loro non solo per il governo delle cose terrene, ma in modo speciale per sostenere la Chiesa. Riflettano diligentemente su quanto deve essere fatto per la tranquillità dei loro Imperi e per la salvezza della Chiesa; si persuadano anzi che devono avere più a cuore la causa della Fede che quella del Regno, come ripetiamo con il Pontefice San Leone: «Al loro diadema per mano del Signore si aggiunga anche la corona della Fede». Posti quasi come padri e tutori dei popoli, procureranno a questi quiete e tranquillità vera, costante e doviziosa, particolarmente se si adopreranno a far fiorire tra essi la Religione e la pietà verso Dio, il quale porta scritto nel femore: «Re dei Re, e Signore dei Signori».
Ma per impetrare successi così prosperi e felici, solleviamo supplichevoli gli sguardi e le mani verso la Santissima Vergine Maria, la quale sola vinse tutte le eresie, ed è la massima Nostra fiducia, anzi la ragione tutta della Nostra speranza [S. Bernardo Serm. de Nat. B.M.V., § 7]. Ella, la grande Avvocata, col suo patrocinio, in mezzo a tanti bisogni del gregge cristiano, implori benigna un esito fortunatissimo a favore dei Nostri propositi, sforzi ed azioni. Tanto con umile preghiera domandiamo ancora al Principe degli Apostoli San Pietro e al suo Co-Apostolo San Paolo, affinché rimaniate tutti saldi come solido muro, e non si ponga altro fondamento diverso da quello che fu già posto. Animati da questa serena speranza, confidiamo che l’Autore e il Perfezionatore della Fede Gesù Cristo consolerà finalmente noi tutti nelle tribolazioni che troppo ci tengono bersagliati. Intanto, foriera ed àuspice del celeste soccorso, a voi, Venerabili Fratelli, e a tutte le pecore affidate alla vostra cura impartiamo affettuosamente l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 15 agosto, giorno solenne dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, dell’anno 1832, anno secondo del Nostro Pontificato.

Come si comportò Gregorio XVI in tempo di epidemia?
(da CorrispondenzaRomana – Roberto de Mattei) Il colera, che flagellò l’Europa nell’Ottocento, partì nel 1817 dalle rive del Gange, in India. Il cammino del morbo fu lento, ma inesorabile. La pandemia si diffuse fino alla Cina e al Giappone, entrò in Russia, e da lì si estese ai paesi scandinavi, all’Inghilterra e all’Irlanda, da dove con le navi degli emigranti raggiunse l’America, colpendo, negli anni Trenta, Canada, Stati Uniti, Messico, Perù, Cile.
Nel 1832 raggiunse Parigi, poi la Spagna, e finalmente, nel luglio 1835 varcò i confini dell’Italia del nord, a Nizza, Genova, Torino. Lo storico Gaetano Moroni (1802-1883), nel suo celebre Dizionario di erudizione, parlando del «distruggitore e desolante flagello del Cholera morbus, indiano o asiatico», lo definisce «peste» e lo presenta in questi termini: «Peste significa ogni sorta di flagelli, castigo divino che incute a tutti salutare spavento e timore, scuotendo i peccatori ostinati a verace penitenza, con mirabili effetti, essendo i peccati la perenne sorgente di ogni avversità» (Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Tipografia Emiliana, Venezia 1840-1861, vol. 52, p. 219). Gregorio XVI, eletto nel 1831 al soglio pontificio, fin dal 1835 inviò una commissione medica a Parigi per avere un resoconto scientifico sulla malattia, di cui era ignota la natura. In Italia, alla prima comparsa del morbo, si era aperto un acceso dibattito tra due scuole mediche, i “contagionisti” e gli “epidemisti” per stabilire se il colera era un morbo contagioso o epidemico.
I “contagionisti” ritenevano che la diffusione della malattia avvenisse per contatto diretto o indiretto con i malati, e che, di conseguenza, le misure per contenerla dovessero consistere nell’istituzione di cordoni sanitari e quarantene. Gli “epidemisti” affermavano invece che la causa delle malattie andava ricercata nelle cattive condizioni igieniche e nei miasmi dell’atmosfera, ed erano contrari alle misure di isolamento e di quarantena, dal momento che è impossibile impedire all’aria di circolare (Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Laterza, Roma-Bari 2000). Generalmente i governi monarchici propendevano per l’ipotesi contagionista, mentre i liberali e i carbonari, che ritenevano tiranniche tutte le iniziative lesive delle liberà individuali, sostenevano l’ipotesi epidemista, e quando il morbo colpì il Regno delle Due Sicilie, diffusero la notizia che il colera sarebbe stato provocato da un veleno propagato dallo stesso governo borbonico.
Gregorio XVI, che nell’enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832 aveva condannato il liberalismo, era incline all’ipotesi contagionista. Il 12 agosto la Congregazione Sanitaria istituita dal Papa pubblicò un Regolamento e metodo per l’attivazione dei cordoni sanitari per impedire ai confini dello Stato pontificio, e anche in alcune zone al suo interno, il passaggio in entrata e in uscita di uomini e cose che in qualche modo potessero trasmettere e propagare il contagio. I cordoni sanitari erano costituiti da due barriere successive, larghe un miglio (il cordone “infetto” e il cordone “sano”), controllate da una serie di sentinelle, che impedivano rigorosamente l’accesso a chicchessia. Tra i due cordoni erano previste almeno tre case, dove le persone avrebbero dovuto passare quattordici giorni di quarantena. All’editto erano allegate ulteriori disposizioni, tra cui l’uso di “passaporti sanitari”, rilasciati a chi, sottoposto a controllo, potesse poi circolare liberamente, e la segregazione immediata e completa dei comuni «dove per colmo di sciagura scoppiasse il male». Era poi ordinato che se nonostante tutte le precauzioni, il morbo fosse entrato in una parte della città, si sarebbe allora proceduto a “barricare le strade”, provvedendo al tempo stesso ai viveri della popolazione.
Alla fine si ricordava la severità estrema con cui sarebbero punite le violazioni di queste disposizioni: le pene prevedevano fino all’ergastolo in caso di passaggio clandestino attraverso i cordoni, e la pena di morte per i casi di contagio colpevole (Marcello Teodonio, Francesco Negro, Colera, omeopatia ed altre storie, Roma 1837, Fratelli Palombi, Roma 1988, pp. 38-39). Il colera non aveva ancora colpito Roma, ma il 20 settembre 1836 il cardinale Anton Domenico Gamberini, ministro degli interni dello Stato Pontificio, pubblicò un editto in cui, a nome di Gregorio XVI notificava che per fare «tutto quello che l’umana prudenza consiglia» e «rendere meno dannosa l’invasione del morbo», se «questa, in pena dei nostri peccati, ci fosse riservata», veniva istituita un Roma una “Commissione straordinaria di pubblica incolumità”, presieduta dal cardinale Giuseppe Sala e composta da sei membri, tre religiosi e tre laici, affiancati da un Consiglio medico permanente. Roma era divisa in 14 sezioni sanitarie, corrispondenti ai rioni, ciascuna dotata di una commissione particolare, composta da medici, chirurgi e infermieri.
Ogni commissione aveva come compito la pulizia delle strade, la vendita di commestibili e bevande, l’aiuto agli indigenti, il soccorso ai colerosi. Le farmacie dovevano fornire le medicine gratis ai malati, mentre i medici avrebbero dovuto tenere un registro quotidiano dei casi. Assisteva il cardinale Sala, nella sua missione di sorvegliante di tutti gli ospedali della città, il sacerdote don Gioacchino Pecci, futuro Leone XIII, che in quello stesso anno aveva conseguito il dottorato in teologia e diritto canonico. Il 7 gennaio 1837, la Commissione militare istituita da Gregorio XVI comunicò di aver comminato la galera a vita per sei persone, colpevoli di aver infranto il cordone sanitario e il 14 gennaio, tra le proteste di molti, venne pubblicato un editto con cui veniva proibita la celebrazione dello storico carnevale romano. Il mercoledì delle ceneri il cardinale Odescalchi ricordava ai romani di «voler placare con digiuni, orazioni e altre opere di pietà, l’ira dell’Onnipotente, provocata dalle gravi colpe, al fine di tener lontani i flagelli che ci minacciano».
Nel luglio del 1837 si segnalarono i primi casi di colera a Roma. L’opinione pubblica si divise tra chi ammetteva e chi negava l’esistenza dell’epidemia. Il colera però divampò tra luglio e settembre. Mentre i circoli liberali continuavano a spargere la voce che il governo pontificio avrebbe deliberatamente diffuso il morbo, Gregorio XVI ordinò di rafforzare i cordoni sanitari e sospendere tutte le sagre, le feste e ogni tipo di assembramento. Vennero mobilitate le milizie, chiusi i confini e gli approdi, e dato ordine ai corpi di cavalleria di battere i luoghi più remoti. Il 6 agosto fu fatta una solenne processione della Madonna di San Luca, dalla basilica di Santa Maria Maggiore alla chiesa del Gesù dove l’immagine miracolosa rimase esposta otto giorni. Alla Madonna, preceduta da un picchetto di dragoni a cavallo, recò omaggio, lungo il percorso, il Papa con tutto il Sacro Collegio e il governo romano.
Le cronache registrano l’abnegazione del clero, secolare e regolare e la «evangelica dedizione del Pontefice che non esitava a recarsi ove il morbo più infieriva e a sovvenire anche di persona ai bisogni spirituali e materiali delle vittime» (Paolo Dalla Torre, L’opera riformatrice ed amministrativa di Gregorio XVI, in Gregorio XVI, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1948, vol. II, p. 70). Tra i sacerdoti che si distinsero nell’eroica assistenza ai malati e nel soccorso ai moribondi, furono san Vincenzo Pallotti e san Gaspare del Bufalo.
Secondo il Diario di Roma dell’epoca, nello spazio di tre mesi, dal 28 luglio al 9 ottobre 1837, i colpiti dal colera nella città Eterna, sarebbero stati 8.090, i morti 4.446. Morì, il 28 dicembre anche san Gaspare del Bufalo, alla cui morte san Vincenzo Pallotti assistette, vedendo che la sua anima saliva al cielo come una fiamma. Tra coloro che furono colpiti di colera, in forma benigna, fu l’abate benedettino di Solesmes, dom Prosper Guéranger, che si trovava a Roma per ottenere l’approvazione ufficiale della sua fondazione. Una volta rimessosi e ottenuto il riconoscimento da Gregorio XVI, dom Guéranger cercò di tornare in Francia, ma il suo biografo racconta che le comunicazioni dello Stato pontificio con il resto del mondo erano sospese e il cordone sanitario bloccava il porto di Civitavecchia e tutte le altre strade. Solo il 4 ottobre Dom Guéranger riuscì a lasciare lo stato pontificio e dopo un interminabile viaggio, riuscì finalmente ad arrivare a Parigi (Dom Guy-Marie Oury, Dom Guéranger moine au coeur de l’Eglise, Editions de Solesmes, 2000, pp. 158-160). L’epidemia intanto si spense lentamente e il 15 ottobre nelle tre basiliche patriarcali di San Giovanni, San Pietro e Santa Maria Maggiore e in tutte le chiese parrocchiali, si cantò solennemente il Te Deum, con indulgenza plenaria, in ringraziamento della cessazione del colera.
Dodici anni dopo, nel 1849, l’uragano della Repubblica romana, ben peggiore dell’epidemia di colera, travolse la città di Roma, costituendo una nuova tappa del processo rivoluzionario che arriva ai nostri giorni. Solo nel 1884 il vibrione responsabile del colera venne individuato da Robert Koch e l’anno successivo fu possibile la realizzazione del primo vaccino da parte del medico spagnolo Jaime Ferran.
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