Ecumenismo: dialogo ecumenico per la conversione, oppure una ECUMANIA con il dissolvimento della Verità ? … Come è e sarà la situazione oggi e in avvenire con il Pontificato di Papa Leone XIV?
Ne abbiamo discusso in diversi interventi:
– Mortalium Animos difesa della Verità
– Siri e Ratzinger avevano già ammonito contro una chiesa rahneriana e una religione mondiale
– Ecumania perversione del dialogo ecumenico denunciata da San Newman e i paletti posti da Benedetto XV con la vera Settimana di Preghiera per l’unità dei Cristiani
– Benedetto XVI, nel 2014: “La rinuncia alla verità è letale per la fede”. Lo stesso diceva Pio XI nella enciclica Mortalium Animos
senza dimenticare: Benedetto XVI racconta i retroscena della “Dominus Iesus”
E’ certo che – il nodo centrale – resta quello di un ribaltamento di prospettiva: si passò dall’insegnamento del “RITORNO dei dissidenti” all’Ovile di Cristo, ad un più allargato e generico “SFORZO” fraterno per l’unità delle Chiese (orientali) e delle comunità separate (protestanti). Ma l’ecumenismo resta un’esigenza per la Chiesa volta a sanare la ferita dei cristiani separati. La divisione, infatti, resta uno scandalo (Gv.17) verso il quale nessun battezzato può rimanere indifferente.
Raccogliamo qui a seguire ulteriori contributi, aggiornati all’intervento di Papa Leone XIV, che vogliamo far nostri.
Ed infine: EVANGELIZZARE O FARE PROSELITISMO? QUALE è LA DIFFERENZA?
Pio XI a ragione si chiedeva: “Ma potremo Noi tollerare l’iniquissimo tentativo di vedere trascinata a patteggiamenti la verità, la verità divinamente rivelata?” (Pio XI – Enc. Mortalium animos – sulla difesa della Verità)
risponde anni dopo, anche se già rinunciatario, Benedetto XVI in un Discorso alla Pontificia Università Urbaniana:
“Questa rinuncia alla verità sembra realistica e utile alla pace fra le religioni nel mondo. E tuttavia essa è letale per la fede. (..) L’opinione comune è che le religioni stiano per così dire una accanto all’altra, come i Continenti e i singoli Paesi sulla carta geografica. Tuttavia questo non è esatto… (..) Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo “senza religione”. Si tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata.”. (Benedetto XVI – Discorso del 21 ottobre 2014).
Certo, l’Ecumenismo è per noi oggi, con la santa Madre Chiesa, UNA SFIDA, una sfida che dobbiamo accogliere per risanare in qualche modo lo scandalo della divisione e perchè “il mondo creda”, come ci insegna Gesù stesso.
Ma proprio qui si inserisce il pericolo della deformazione della missione stessa della Chiesa.
“Mentre il Magistero ha mantenuto ferma la dottrina, alcune prassi ecumeniche hanno finito per ridurre l’incontro a fatto sociologico o culturale, dove la verità rivelata appare come sfondo secondario. In questo modo riaffiorano, sotto forma pastorale, le stesse radici del modernismo dottrinale: l’agnosticismo si riflette quando il dialogo viene inteso come ricerca infinita senza approdo alla verità; l’immanentismo appare quando le celebrazioni comuni si riducono a segni di fraternità senza riferimento al Sacrificio di Cristo; il relativismo traspare quando tutte le posizioni sembrano equivalenti; il soggettivismo emerge quando la coscienza individuale diventa criterio ultimo di appartenenza ecclesiale.
(..) Su questo punto, è prezioso il richiamo di Mons. Brunero Gherardini, maestro di ecclesiologia alla Lateranense.
Egli sottolineava che l’ecumenismo cattolico, per essere autentico, deve mantenere l’ermeneutica della continuità: «Il dialogo non può mai essere negoziazione sulla verità, ma annuncio della verità in carità».
Per Gherardini, Mortalium animos conserva il suo valore di principio, mentre Unitatis redintegratio è sviluppo legittimo solo se letto in questa luce, e mai come cedimento relativista.
L’ecumenismo diventa così un banco di prova della fedeltà cattolica: non è in discussione l’apertura, che è doverosa, ma il criterio con cui viene vissuta. L’apertura autentica è quella che si fonda sulla verità custodita dalla Chiesa. Così il Concilio e i Papi hanno voluto e vogliono l’unità: non come compromesso, ma come piena comunione nella fede.”
C’è da notare – qual prima cosa – che il riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo, che muove i cuori nella ricerca della visibile e piena unità di quelli che sono fuori della Chiesa cattolica, era già presente nell’Istruzione del S. Uffizio, De motione oecumenica del 20.12.1949. Questa Istruzione si rallegrava del desiderio di verità e di ritorno all’unità di molti dissidenti, desiderosi di essere uno con i discepoli del Signore. CLICCA QUI PER IL TESTO IN PDF.
E qui leggiamo come lo spiegava bene Padre Serafino Maria Lanzetta in un profondo articolo del 2013
L’ecumenismo e il Concilio Vaticano II. Risultati e problemi aperti
1) Il movimento ecumenico
a) Il movimento ecumenico nasce agli inizi del XX secolo fuori della Chiesa cattolica. Nel 1948 si giunge alla creazione in Amsterdam del Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC), a cui però non prende parte la Chiesa cattolica in ragione della scorretta ricerca dell’unità da questi perseguita. Con la creazione del Segretariato per l’Unità dei Cristiani (1960) da parte del b. Giovanni XXIII cambia l’atteggiamento di reticenza verso questo movimento e, in qualche modo, lo sforzo di unità perseguito, sorto «per grazia dello Spirito Santo», è “recepito” nel Vaticano II. Dice infatti il proemio di Unitatis redintegratio (UR) n.1:
«Ora, il Signore dei secoli, il quale con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori, in questi ultimi tempi ha incominciato a effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l’interiore ravvedimento e il desiderio dell’unione. Moltissimi uomini in ogni dove sono stati toccati da questa grazia, e tra i nostri fratelli separati è sorto anche per grazia dello Spirito Santo un movimento che si allarga di giorno in giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani. A questo movimento per l’unità, che è chiamato nuovamente ecumenico, partecipano quelli che invocano la Trinità e confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche riuniti in comunità, nelle quali hanno ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di Dio. Quasi tutti però, anche se in modo diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale e mandata al mondo intero, perché questo si converta al Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio».
b) C’è un passaggio/sviluppo significativo rispetto alla Mortalium animos di Pio XI (1928), giustificato non solo in ragione di una nuova situazione storica creatasi ma dello stesso desiderio, vivificato da Dio, di giungere all’unità visibile di tutti i cristiani. J. Feiner (in LTK 13,42) definisce questa nuova percezione ecumenica un asserto di fede perché fondato sulla grazia. Condivisibile o esagerato?
C’è da notare però che il riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo, che muove i cuori nella ricerca della visibile e piena unità di quelli che sono fuori della Chiesa cattolica, era già presente nell’Istruzione del S. Uffizio, De motione oecumenica del 20.12.1949. Questa Istruzione si rallegrava del desiderio di verità e di ritorno all’unità di molti dissidenti, desiderosi di essere uno con i discepoli del Signore.
Pio XI, comunque, metteva in guardia dal pericolo che quel modo di adunarsi acattolico scadesse in una visione “pancristiana”, in cui, intenti ad unire le Chiese, si cercava una carità a danno della fede rivelata circa l’unità e l’unicità della Chiesa. Immediatamente prima e poi col Vaticano II, invece, mantenendo ferma la professione dell’unica Chiesa costituita da Cristo, si intraprende la via del dialogo, che con una nuova metodologia teologica dovrà trovare nuove strade per ricucire la ferita nella comunione ecclesiale. Cosa lodevolissima ma non facile. Un accento importante è posto sulla preghiera e sulla conversione dei cuori per superare il vero nemico della divisione che è il peccato.
c) Chiaramente cambia la prospettiva ecumenica: si passa da una visione del “ritorno” dei dissidenti, a volte concepita teologicamente in modo statico e bloccante, allo sforzo per l’unità delle Chiese e delle comunità separate. L’accento con Lumen gentium (LG) si sposta da una visione personale a una comunitaria grazie alla riscoperta della Chiesa locale. Si avrà un passaggio di conseguenza dal De membris al De populo Dei. Questo sarà salutato in campo ecumenico come superamento dell’ecumenismo dallo stile unionistico o del ritorno degli scismatici all’unica Chiesa di Cristo per andare verso l’unità nella comunione dell’unica Chiesa.
L’ecumenismo, basato essenzialmente sul dialogo, sul confronto dottrinale e esperienziale, ha però un diverso approccio. Da parte cattolica si ricerca la piena comunione visibile di tutti i battezzati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, riconoscendo la pluralità degli statuti ecclesiali e una molteplicità di elementi ecclesificanti o di santificazione e di verità. Da parte non cattolica invece si ricerca la comunione e l’unità visibili, che però non sono già date o già esistenti – altrimenti annullerebbero, a loro dire, la stessa necessità del dialogo – ma da ricercare e conseguire insieme mediante il confronto e uno spirito di collaborazione. Per i non cattolici – ahimè sovente e superficialmente anche per alcuni cattolici – l’unità (della Chiesa) è da ri-costituire. Ciò che manca talvolta è una chiara distinzione tra unità della Chiesa, quale sua proprietà o nota essenziale e imperdibile, e unità dei cristiani ferita dalle scissioni. L’ecumenismo si occupa solo di quest’ultima.
2) Principi dottrinali dell’ecumenismo
a) Il movimento ecumenico ha favorito senza dubbio anche una rinnovata visione teologica della Chiesa, da cui poi attinge i principi dottrinali in vista del dialogo. Vi è una nuova riflessione sulla Chiesa universale e sulle Chiese locali o particolari, da cui deriva l’accento sulla collegialità. Questa però storicamente, a partire da S. Ignazio di Antiochia, si dà come gerarchia tripartita del sacramento dell’Ordine quale fonte di comunione per la Chiesa locale con tutte le membra, con la plebs in comunione col Vescovo. In Concilio alcuni Padri, invece, vedevano la collegialità come istituzione divina, facendo leva sul Collegio apostolico. Cristo però ha istituito i Dodici, radunati a modo di collegio («ad modum collegii» (LG 19), il che è ben diverso.
b) Si volle offrire una dottrina più “viva”, che andasse al di là di una visione meramente giuridica di Chiesa, e che fosse più comunionale. In Concilio i Padri dibattono per superare una mera identificazione del Corpo mistico di Cristo con la Chiesa cattolica romana, sottolineando una più ampia estensione della Chiesa mistero rispetto alla Chiesa visibile o societas. Si pone però al contempo il problema della giusta interrelazione tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile. La Chiesa invisibile o Chiesa come fructus salutis sebbene più ampia, in ragione della volontà salvifica universale di Dio (straordinaria in quanto può superare l’azione dei sacramenti), non può ignorare o tralasciare la Chiesa visibile o medium salutis. Si è introdotti in quella solo se si è membra di questa o almeno lo si desidera. Si tratta solo di due aspetti dell’unica Chiesa.
Di qui poi la distinzione tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, con il subsistit in (LG 8) da leggersi, con spiegato dal magistero successivo, come sostanziale identità tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica e distinzione formale tra le due, per appurare la presenza di elementa Ecclesiae fuori dei confini visibili della Cattolica, quali beni dell’unica Chiesa, i quali perciò sono la ratio theologica della ricerca dell’unità ecumenica. Già nello schema preparatorio De Ecclesia (cap. XI) questi elementi e beni della Chiesa (la S. Scrittura, la grazia santificante, gli stessi sacramenti, ecc.) venivano definiti «res Ecclesiae Christi propriae».
c) Caratteristico poi è il metodo del dialogo e la gerarchia nelle verità (UR 9: par cum pari e UR 11). Il dialogo con i fratelli separati richiede un metodo e un modo di proporre la dottrina che non sia di ostacolo al dialogo e che al contempo non taccia la verità. Dice UR 11:
«Il modo e il metodo di enunziare la fede cattolica non deve in alcun modo essere di ostacolo al dialogo con i fratelli. Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina».
Questo implica anche una reciproca conoscenza. Dice UR 9:
«A questo scopo molto giovano le riunioni miste, con la partecipazione di entrambe le parti, per dibattere specialmente questioni teologiche, dove ognuno tratti da pari a pari, a condizione che quelli che vi partecipano, sotto la vigilanza dei vescovi, siano veramente competenti».
Quel «par cum pari» nel trattare le questioni teologiche, fu letto, nell’immediato post-concilio, da alcune comunità protestanti, come il posizionarsi della Chiesa cattolica sullo stesso livello dottrinale degli interlocutori, in modo da rinunciare insieme alla verità. Invece, così non era. Tuttavia, in ambito cattolico alcuni – ad esempio O. H. Pesch – leggono nello sforzo ecumenico il permanere di una tensione tra il posizionarsi forte sulla verità e la richiesta di dialogo, la qual cosa sarebbe come un semplice rincorrersi, soprattutto quanto alla difficoltà di recepire i risultati degli incontri ecumenici.
UR 11 espone poi un altro importante principio per il dialogo che è «l’ordine» o «gerarchia nelle verità». Ciò non significa che ci sono verità cattoliche meno importanti di altre – anche se da alcuni fu letto in tal modo – ma che tutte richiedono il medesimo assenso di fede divina, sebbene abbiano una relazione diversa con lo stesso fondamento che è Dio rivelante (cf. Mysterium Ecclesiae 1973 e Benedetto XVI, Discorso alla plenaria della CDF, 27.1.2012, dove richiama la problematicità dei metodi adottati in campo ecumenico: «Conoscere la verità è il diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo»).
Qui è d’uopo chiedersi: quanto e in che modo il metodo influenza la stessa presentazione della dottrina di fede? Un problema molto attuale anche nella catechesi, quando la fede è presentata quasi esclusivamente come esperienza di Cristo e non come verità da credere.
3. Valore dell’ecumenismo cattolico e suoi limiti attuali:
a) L’ecumenismo è un’esigenza per la Chiesa volta a sanare la ferita dei cristiani disuniti. La Chiesa, come dicevamo, in sé è sempre una e mai conosce fratture. La divisione è contingente e storica, sicché i relativi tentativi per arrivare a una soluzione d’unità dovrebbero essere valutati e semmai relativizzati con lo stesso criterio. Si deve poi guardare agli elementa Ecclesiae presenti fuori dei suoi confini visibili non solo come ad elementi dell’unica Chiesa, ma a partire dalla Chiesa: prima la Chiesa mistero incarnato e poi la divisione da redimere. Gli elementa senza la Chiesa svaniscono.
Lo sforzo per l’unità, comunque, rimane un imperativo dello Spirito Santo ai cristiani. La divisione infatti è uno scandalo davanti al mondo e Gesù stesso ha pregato perché i suoi siano uno (cf. Gv 17).
b) Un problema teologico che emerge è il seguente: qual è il grado di vincolabilità di UR? (non è una questione di lana caprina). UR è un decreto contenente dottrine di fede e/o una prassi pastorale? Non attinge, invero, i suoi principi dottrinali da LG? Gli atti del Concilio propendono per un’indicazione pastorale da seguire nell’ambito ecumenico, rivolta principalmente ai non cattolici. A giudizio, invece del Card. Kasper con UR siamo di fronte a un insegnamento dogmaticamente vincolante in ambito ecumenico. La non chiarezza del grado di vincolabilità magisteriale dei documenti del Concilio in genere, e nel nostro caso della dichiarazione sull’ecumenismo, provoca una disparità di giudizio, che rasenta anche la contraddizione. Si rischia così di infallibilizzare il tutto a detrimento della retta fede, per il semplice fatto che non è più chiaro cosa è da credere e cosa non lo è.
c) LG rimanda ad UR per quanto riguarda lo statuto più preciso delle Chiese particolari e delle Comunità ecclesiali. UR completa quindi LG. Questo dimostra che LG è un testo aperto. Il fatto che una costituzione dogmatica si lasci completare da una dichiarazione dice la possibilità di una perfettibilità teologica estrinseca alla stessa costituzione e ad un tempo un suo limite. Neanche LG in toto è infallibile, ma nel suo interno bisogna operare molte distinzioni tra dottrine definitive e sentenze teologiche (fatte proprie dal Magistero). Scrive, infatti, Ratzinger:
«Il testo dottrinale del Concilio sulla Chiesa non è un trattato teologico, né una presentazione completa sulla Chiesa, ma un cartello indicatore» (J. Ratzinger, Mon Concile Vatican II. Enjeux et perspective, Artège Spiritualité, Perpignan 2011, pp. 124-125).
d) In che senso le Chiese e le comunità cristiane sono in una certa comunione con la Chiesa cattolica? È indispensabile distinguere tra Chiesa locale e comunità ecclesiale, come ha fatto chiaramente Dominus Iesus per non rischiare di accomunare poi, di fatto, tutti i cristiani separati nell’unica comunione in ragione della presenza nelle loro comunità di alcuni elementi o beni della Chiesa. Di qui la doverosa distinzione ulteriore tra gli elementa Ecclesiae che attestano una cogenza ecclesiale anche fuori dei confini visibili della Chiesa e i tria vincula di appartenenza alla Chiesa, cioè la fede, i sacramenti e la gerarchia. Solo questi ultimi e tutti e tre insieme designano l’essere membra (o appartenenza) in modo pieno della Chiesa. Se ne manca anche solo uno, sebbene si sia già in qualche modo legati al Corpo mistico di Cristo (dimensione invisibile), non si è di esso pienamente membra e dobbiamo aggiungere anche che non si è ordinariamente salvati (eccetto il caso di ignoranza invincibile). Su questo punto LG è molto chiara: «Il santo Concilio … basandosi sulla S. Scrittura e sulla tradizione insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza» (n. 14). La Chiesa visibile non può essere assorbita in quella invisibile perché è mysterium salutis in quanto Chiesa peregrinante o militante. L’ecumenismo se non mira alla comunione visibile dei cristiani ha fallito il suo scopo e pertanto non può semplicemente favorire una comunione spirituale tra i cristiani.
e) Di qui un altro problema venuto alla ribalta in questi ultimi tempi: il battesimo innesta nella Chiesa visibile, sì da avere già una certa comunione visibile con i fratelli protestanti? No. Innesta in Cristo, come chiarisce Dominus Iesus (n. 17), favorendo una certa comunione sebbene imperfetta con la Chiesa (mistero invisibile). Fino a quando non ci sono i tre vincoli la comunione è sempre imperfetta e perciò non visibile. Non si può accusare questa teologia di essere giuridicista e di fermarsi a S. Roberto Bellarmino. L’aver accantonato questo modo chiaro di presentare l’appartenenza alla Chiesa ha generato molta confusione.
Lo sforzo per l’unità ha come fine la visibilità, la quale termina alla salvezza (cf. LG 14 e UR 3 letto alla sua luce). La salvezza è quindi il discrimen ecumenico finale, rimanendo comunque aperta la via straordinaria. Si ritornerebbe però ad un discorso personalista, mentre lo sforzo ecumenico del Concilio era quello di aprirsi all’aspetto comunitario o ecclesiale.
Quindi si tratta del problema dei membri della Chiesa, la cui questione viene tralasciata da LG e solo per i cattolici si parla di piena incorporazione alla Chiesa visibile («Illi plene Ecclesiae societati incorporantur» n. 14), mentre per i non cattolici si parla in modo generico di più ragioni per le quali la Chiesa è con essi congiunta (n. 15). Questo origina una frizione o una certa disparità di giudizio quanto alla considerazione dei fratelli separati rispetto alla Chiesa cattolica, se non veri e propri errori di fede.
f) C’è un “popolo di Dio” oltre o accanto alla Chiesa? In UR 3 leggiamo che devono essere pienamente incorporati nell’unico corpo di Cristo sulla terra, «tutti quelli che in qualche modo appartengono al popolo di Dio. Il quale popolo, quantunque rimanga esposto al peccato nei suoi membri finché dura la sua terrestre peregrinazione, cresce tuttavia in Cristo ed è soavemente condotto da Dio secondo i suoi arcani disegni, fino a che raggiunga gioioso tutta la pienezza della gloria eterna nella celeste Gerusalemme». Di fatto questa espressione fu interpretata come possibilità di un popolo di Dio che in qualche modo è alternativo alla Chiesa. In LG si appura che la Chiesa provenendo dall’antico Israele è il nuovo popolo di Dio, «sacramento visibile di… unità salvifica» (cf. LG 9). L’unicità del popolo di Dio s’accompagna perciò all’unicità della Chiesa, unico corpo di Cristo e mistero di salvezza. UR in questo contesto deve essere ricondotta a LG. Popolo di Dio non sta per congregatio salvifica, richiamante la prima e poi l’alleanza definitiva nel sangue di Cristo ma per gruppo di cristiani, da identificare in Chiese locali o comunità ecclesiali.
4) L’ecumenismo dopo il Vaticano II
a) Come è declinato in larga parte della teologia cattolica? Una linea abbastanza preponderante vede l’ecumenismo come un andare principalmente verso Cristo, mettendo da parte le proprie differenti identità ecclesiali. La Chiesa ci divide Cristo ci unisce, si dice. Per questi, fautori della rottura, il Vaticano II sarebbe il momento della storicizzazione delle proprietà ecclesiologiche divergenti delle diverse Chiese. La novità del Concilio starebbe nell’inveramento del “principio istituzionale” con il nuovo “principio vitale”, così da spostare il problema dell’unità dalla Chiesa a Cristo. Ma è illusorio perché non c’è un Cristo senza la Chiesa.
b) L’ecumenismo si presenta come una proposta di dialogo che vede impegnate a volte commissioni bilaterali ufficialmente deputate, a volte le stesse Chiese, ma non sempre in ambito cattolico si è in grado di giudicare affidabile la dottrina proposta, la quale a sua volta non è obbligante se non quando riconosciuta dal Magistero.
c) Poco dopo la chiusura del Vaticano II ormai il dialogo aveva già conosciuto uno sviluppo che è andato ben oltre quello che lo stesso Concilio potesse prevedere. Tanti nuovi fronti si sono aperti, e accanto a diversi risultati molto positivi, non ultimo la creazione di un Ordinariato per i cristiani anglicani che ritornano nella Chiesa cattolica (di nuovo un modello ecumenico del “ritorno” oppure l’unica via vera percorribile?), non sono mancati disguidi e smarrimenti. Si pensi alla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione del 1999, che in modo molto perspicace cerca un accordo oltre le condanne del Concilio di Trento. C’è in essa, in realtà, nonostante la chiarificazione seguita, un chiaro superamento della dottrina del simul iustus et peccator e della cooperazione della creatura in ragione della grazia alla sua giustificazione finale?
d) Il problema maggiore dell’ermeneutica dei testi conciliari sta certamente nell’aver voluto dare la precedenza e la superiorità all’evento rispetto alle decisioni (testi), unendo le due realtà mediante l’esperienza. È sintomatica la posizione di Y. Congar ripresa e fatta propria da G. Routhier: la Chiesa si percepisce dall’esperienza attuale di Chiesa e questo fa maturare la coscienza di comunione (cf. Y. Congar, Vie de l’église et conscience de la catholicité, in Esquisse du mysterè de l’église, Paris 1953, p. 121, cit. da G. Routhier, La recezione dell’ecclesiologia conciliare: problemi aperti, in Associazione Teologica Italiana, La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, Milano 2006, pp. 22-23).
Si tratta qui del problema della ricezione del Concilio che diventa di volta in volta coscienza del Concilio stesso. Bisogna superare, per ritrovare la retta fede e il sano ecumenismo, la precedenza contingente della storia rispetto al mistero, ri-orientando la pastorale ecumenica al dogma della Chiesa una e indivisa.
Rimane paradigmatico quanto diceva Benedetto XVI (Discorso alla plenaria della CDF, del 27.1.2012):
«Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di «contratto sociale» cui aderire per un interesse comune, una “prasseologia” per creare un mondo migliore».
Così spero di aver presentato un quadro riassuntivo degli sviluppi e dei problemi in ambito ecumenico. Problemi risolvibili, accanto all’azione infallibile dello Spirito di Dio che, nonostante le nostre insufficienze, non cessa di muoverci alla verità tutta intera. (di p. Serafino M. Lanzetta)
Nel meditare sui PRIMI 100 GIORNI di Papa Leone XIV, ragionevolmente il professor Roberto de Mattei ha elencato una serie di incombenze urgenti che attendono il Pontefice e però ha anche detto quanto segue e che faremo bene a far nostro:
- “E’ facile suggerire al Papa che cosa dovrebbe fare, o addirittura pretendere che lo faccia in tempi brevi, senza essere al suo posto e avere la responsabilità di farlo. Ma dobbiamo ricordare che san Pio X attese quattro anni, prima di condannare il modernismo, nonostante avesse al suo fianco un segretario di Stato a lui vicino quale il cardinale Rafael Merry del Val. (…) La virtù della prudenza, naturale e soprannaturale, può imporre tempi non brevi per realizzare un progetto ed accadimenti esterni, come quelli bellici che oggi si profilano all’orizzonte, possono sconvolgerlo. Non bisogna dunque essere impazienti, ma vigilanti, riponendo ogni speranza solo in Dio e pregando per il Papa e per la Chiesa in un’ora tenebrosa della storia.“
Questa premessa ulteriore ci è utile per affrontare anche il Messaggio che Papa Leone XIV ha inviato: “Ai partecipanti alla Settimana ecumenica di Stoccolma nel Centenario dell’incontro ecumenico del 1925”, quello che – diciamolo chiaramente – suscitò l’acceso dibattito anche contro le decisioni di aperture varie, durante il Concilio Vaticano II, come ha ricordato sopra il testo proposto di Padre Lanzetta.
In un recente ed immane lavoro, Padre Mauro Proietti, ha elaborato una serie di riflessioni sul Modernismo, la sua invadenza ai lavori del Concilio, durante e dopo, e il vero autentico Magistero della Chiesa, trovate raccolto tutto qui: Modernismo e oltre: capire le radici teologiche della crisi attuale… Affrontando anch’egli il recente Messaggio di Papa Leone XIV sopra citato, ha scritto quanto segue:
LA SFIDA ECUMENICA: DALLA DIFESA ALL’INCONTRO
Nell’articolo precedente abbiamo visto come autori come Blondel, de Lubac, Congar e Rahner abbiano preparato il terreno a un nuovo modo di pensare la fede nel Novecento, occorre guardare a un tema che sarebbe diventato decisivo per la vita della Chiesa: l’ecumenismo. Per secoli la posizione cattolica verso i cristiani separati era rimasta chiara e ferma: la Chiesa di Cristo sussiste pienamente nella Chiesa cattolica, e chi si era allontanato era chiamato a ritornare all’unico ovile.
Il movimento ecumenico, nato soprattutto in ambito protestante a fine Ottocento, prese corpo con conferenze e assemblee comuni, fino alla nascita nel 1948 del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Roma rimase estranea a tali organismi, perché tendevano a ridurre la verità rivelata a un minimo comune denominatore.
Emblematica, in questa linea, è l’enciclica Mortalium animos di Pio XI (6 gennaio 1928), che condanna il “falso ecumenismo”. Scrive il Papa: «Sedes Apostolica nullo pacto talibus conatibus favere potest; idcirco catholicos… minime licere aut eiusmodi coitionibus nomen dare, aut easdem ullo modo iuvare» (AAS 20 [1928], 5; DS 3685). In italiano: «La Sede Apostolica non può in alcun modo partecipare a tali congressi; perciò ai cattolici non è in alcun modo lecito né prender parte a tali riunioni, né favorirle in alcun modo». Qui non è in discussione la carità verso i fratelli separati, ma il rischio dell’indifferentismo dottrinale, che confonde la ricerca dell’unità con il relativismo.
Già nel 1949, tuttavia, il Sant’Uffizio pubblicò un’Istruzione che, pur ribadendo il divieto di irenismo, apriva alla possibilità di colloqui con i cristiani separati sotto l’autorità dei vescovi e affidati a teologi competenti. È in questo solco che si colloca Giovanni XXIII. Con il motu proprio Superno Dei nutu (5 giugno 1960) egli istituì il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, affidandolo al cardinale Bea. Nel testo si legge: «ut Nostram erga eos, qui nomen Christianorum profitentur sed a hac Apostolica Sede seiuncti sunt, peculiarem benevolentiam Nostram testificemur» (AAS 52 [1960], 433), cioè: «per mostrare in maniera speciale il Nostro amore e la Nostra benevolenza verso coloro che portano il nome di cristiani, ma sono separati da questa Sede Apostolica».
Quando poi il Concilio Vaticano II affrontò il tema, il decreto Unitatis redintegratio (21 novembre 1964) fissò il principio teologico: «Promovere restaurandam unitatem inter omnes Christianos est inter praecipua Concilii Vaticani II proposita» (UR 1), tradotto: «Promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del Concilio Vaticano II». Per la prima volta, la Chiesa cattolica si dotava di uno strumento ufficiale per il dialogo ecumenico, senza rinunciare alla sua identità, ma aprendosi a percorsi di incontro ordinati alla verità.
Queste tappe mostrano un percorso organico, non una rottura: dalla difesa contro l’indifferentismo (Mortalium animos), al discernimento prudente dei colloqui (1949), fino all’istituzionalizzazione del dialogo (Superno Dei nutu e Unitatis redintegratio).
Proprio qui, però, si inserisce il rischio che abbiamo chiamato modernismo pratico. Mentre il Magistero ha mantenuto ferma la dottrina, alcune prassi ecumeniche hanno finito per ridurre l’incontro a fatto sociologico o culturale, dove la verità rivelata appare come sfondo secondario. In questo modo riaffiorano, sotto forma pastorale, le stesse radici del modernismo dottrinale: l’agnosticismo si riflette quando il dialogo viene inteso come ricerca infinita senza approdo alla verità; l’immanentismo appare quando le celebrazioni comuni si riducono a segni di fraternità senza riferimento al Sacrificio di Cristo; il relativismo traspare quando tutte le posizioni sembrano equivalenti; il soggettivismo emerge quando la coscienza individuale diventa criterio ultimo di appartenenza ecclesiale.
I meccanismi di deformazione sono concreti: sul piano psicologico, il credente tende a leggere parole di apertura come conferma delle proprie scelte; sul piano sociologico, i media amplificano frasi isolate e tacciono le precisazioni dottrinali; sul piano teologico, si perde la distinzione tra apertura pastorale e verità oggettiva. Gli anticorpi ci sono e sono precisi: Veritatis splendor (n. 54) afferma che la coscienza non crea la norma ma la riconosce; Dominus Iesus (n. 14) ribadisce «l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa»; il Catechismo (CCC 84) proclama che «il deposito della fede è stato affidato una volta per tutte alla Chiesa». Ma occorre un metodo: leggere sempre le aperture nella luce della Tradizione e applicare la misericordia come cammino di verità, non come semplice conferma soggettiva.
Su questo punto, è prezioso il richiamo di Mons. Brunero Gherardini, maestro di ecclesiologia alla Lateranense. Egli sottolineava che l’ecumenismo cattolico, per essere autentico, deve mantenere l’ermeneutica della continuità: «Il dialogo non può mai essere negoziazione sulla verità, ma annuncio della verità in carità». Per Gherardini, Mortalium animos conserva il suo valore di principio, mentre Unitatis redintegratio è sviluppo legittimo solo se letto in questa luce, e mai come cedimento relativista.
L’ecumenismo diventa così un banco di prova della fedeltà cattolica: non è in discussione l’apertura, che è doverosa, ma il criterio con cui viene vissuta. L’apertura autentica è quella che si fonda sulla verità custodita dalla Chiesa. Così il Concilio e i Papi hanno voluto e vogliono l’unità: non come compromesso, ma come piena comunione nella fede. Nel prossimo articolo parleremo proprio di questo: Dal modernismo al Concilio Vaticano II: il cambio di paradigma pastorale.
Dopo l’uscita della Dominus Jesus ci furono aspri attacchi da tutte le tifoserie – pro e contro l’ecumenismo – e duramente critici nei confronti di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinale Ratzinger Prefetto della CdF e che aveva vigilato sul Documento. In una intervista, alla domanda sul discorso ecumenico e il Concilio, rispose:
“– Il Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in essi esistono «elementi di salvezza e verità». Può darsi che il termine «elementi» non sia stata la scelta migliore.
In ogni caso il suo senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non esiste in strutture, ma nell’avvenimento della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti. Il modo in cui lo scontro viene condotto ora è senz’altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla. (..) Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta l’espressione «subsistit» e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in un’intervista non si può scendere nei dettagli.
Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana «è» l’unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità cattolica non c’era Chiesa. Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche Chiese locali; le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui si verifica l’evento.
(..) In effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto personale.“
Conclusione….
Cosa attenderci da Papa Leone XIV non è certamente facile o prevedibile e, soprattutto, dobbiamo pregare per lui e per la Chiesa ma, anche da parte nostra, deve esserci un ulteriore elemento di FEDE nella santa Madre Chiesa con la capacità di applicare le virtù dell’umiltà, della prudenza, della carità attingendo, per esempio, anche ad altri Discorsi che Papa Leone XIV sta seminando in diversi incontri, per nulla trascurabili.
Per esempio:
– Annunciare Cristo con chiarezza e carità: il messaggio del Papa ai vescovi del territorio amazzonico. Con una precisazione sulla “casa comune”… inserendo l’elemento della “priorità” che anche l’Amazzonia necessita della autentica evangelizzazione: «È essenziale che Gesù Cristo, nel quale tutte le cose si ricapitolano (cfr. Ef 1,10), sia annunciato con chiarezza e immensa carità tra gli abitanti dell’Amazzonia, di modo che ci impegniamo a dare loro il pane fresco e puro della buona novella e il nutrimento celeste dell’Eucaristia, unico modo per essere veramente popolo di Dio e corpo di Cristo»
Il Papa sottolinea «il diritto e il dovere di prenderci cura della “casa” che Dio padre ci ha affidato come amministratori premurosi, affinché nessuno distrugga irresponsabilmente i beni naturali che parlano della bontà e della bellezza del Creatore, né, tanto meno, si sottometta ad essi come schiavo o adoratore della natura, poiché queste cose ci sono state date per raggiungere il nostro fine di lodare Dio e ottenere così la salvezza delle nostre anime ..», correggendo e seppellendo definitivamente il triste episodio della Pachamama…
– Ai membri dell’International Catholic Legislators Network, radunati per il 16° incontro mondiale sul tema Il nuovo ordine mondiale: la politica delle grandi potenze, i domini delle multinazionali e il futuro della prosperità umana.
Tutti desiderano la prosperità, ma sulla scia di Sant’Agostino il Papa ricorda che, affinché essa sia autentica, deve operare la scelta giusta tra i due amori che generano due città.
«Questo Padre della Chiesa ha insegnato che nella storia umana s’intrecciano due “città”: la città dell’uomo e la città di Dio. Esse simboleggiano realtà spirituali — due orientamenti del cuore umano e, pertanto, della civiltà umana. La città dell’uomo, costruita sull’orgoglio e sull’amore di sé, è caratterizzata dalla ricerca di potere, prestigio e piacere; la città di Dio, costruita sull’amore di Dio fino all’altruismo, è caratterizzata dalla giustizia, dalla carità e dall’umiltà. In questi termini, Agostino ha incoraggiato i cristiani a impregnare la società terrena dei valori del Regno di Dio, orientando in tal modo la storia verso il suo compimento ultimo in Dio, consentendo però anche la prosperità umana autentica in questa vita».
Essa non può che derivare dallo «sviluppo umano integrale, ossia la piena crescita della persona in ogni dimensione: fisica, sociale, culturale, morale e spirituale.
Questa visione per la persona umana è radicata nella legge naturale, l’ordine morale che Dio ha scritto sul cuore umano, le cui verità più profonde sono illuminate dal Vangelo di Cristo». Si coglie in queste righe un approfondimento agostiniano («l’ordine morale che Dio ha scritto sul cuore umano») del concetto di «sviluppo umano integrale» e della «legge naturale».
E ciò che è «scritto» da Dio nel cuore dell’uomo si riversa – se accolto – nella società intera, il cui futuro «dipende da quale “amore” scegliamo per organizzarvi intorno la nostra società: un amore egoistico, l’amore di sé, o l’amore di Dio e del prossimo».
Leone XIV riprende ancora una volta l’espressione (per il vero un po’ inflazionata in questi anni) di «costruttori di ponti», ma specificando: «costruttori di ponti tra la città di Dio e la città dell’uomo».
– La presenza di Gesù nell’Eucaristia è il «tesoro più prezioso» della Chiesa, e «salva il mondo»: ricevendo in udienza i ministranti francesi, Leone XIV ricorda loro la grandezza e la necessità della Messa. Così imprescindibile che la crisi delle vocazioni non è un problema di second’ordine, ma «una grande disgrazia».
Il Papa prende le mosse dal tema del giubileo, sottolineando «quanto abbiamo bisogno di sperare» di fronte ai mali del mondo e alle prove personal: «Chi verrà a salvarci? …Non solo dalle nostre sofferenze, dai nostri limiti e dai nostri errori, ma anche dalla morte stessa? La risposta è perfettamente chiara e risuona nella Storia da 2000 anni: solo Gesù viene a salvarci, nessun altro». Prova di questo amore è l’offerta della sua vita nel sacrificio della croce, «l’evento più importante della storia del mondo», la cui memoria la Chiesa custodisce e trasmette nell’Eucaristia, «il suo tesoro più prezioso». L’Eucaristia «che voi», dice rivolto ai ministranti, «avete la gioia e l’onore di servire».
Infine, poiché la Messa salva il mondo, al Papa non è estranea la sollecitudine per le vocazioni, esortando i ministranti a essere «attenti alla chiamata che Gesù potrebbe rivolgervi a seguirlo più da vicino nel sacerdozio».
E confida loro «una cosa che dovete ascoltare, anche se può inquietarvi un po’: la mancanza di sacerdoti in Francia, nel mondo, è una grande disgrazia! Una disgrazia per la Chiesa!».
Ma proprio i ministranti, così vicini all’altare, possono cogliere «la bellezza, la felicità e la necessità di una simile vocazione».
E se non c’è Messa senza sacerdote, non c’è sacerdote senza Messa: «che vita meravigliosa è quella del sacerdote che, al centro di ogni sua giornata, incontra Gesù in modo così eccezionale e lo dona al mondo!».
– Leone XIV: «trasmettere ciò che abbiamo ricevuto»
Spunti di evangelizzazione nel discorso del Papa ai membri delle Escuelas de Evangelización “San Andrés”: San Giovanni Battista quale “modello di testimonianza per gli evangelizzatori di oggi…” «”Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3). Questa è la missione della Chiesa, questa è la missione di ogni cristiano».
Parole che condensano «la nostra vocazione come battezzati», chiamati a «trasmettere ciò che a nostra volta abbiamo ricevuto, affinché tutti diveniamo uno in Cristo» (parole riprese, com’è noto, anche nel motto episcopale di Prevost: «In illo uno unum»). Il breve discorso si conclude con l’invito a «contemplare le vite dei santi che, come san Giovanni Battista, sono stati fedeli seguaci di Gesù Cristo, manifestandolo in parole e in opere di bene».
Senza infine dimenticare i recenti interventi in difesa della DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA… un ritorno papale a tutto campo!
– Con Leone XIV ritorna finalmente la legge naturale è l’articolo del professor Stefano Fontana dopo l’incontro del Papa con i Parlamentari del Governo Italiano.
“Siamo tutti interessati a vedere come il Papa svilupperà il richiamo al suo lontano predecessore, da cui ha preso il nome, alla sua enciclica Rerum novarum e, più in generale, alla Dottrina sociale della Chiesa. Nei suoi discorsi di questo primo mese di pontificato ce ne ha dato già alcuni esempi …”
«La legge naturale – ha continuato il Papa -, universalmente valida al di là e al di sopra di altre convinzioni di carattere più opinabile, costituisce la bussola con cui orientarsi nel legiferare e nell’agire, in particolare su delicate questioni etiche che oggi si pongono in maniera molto più cogente che in passato, toccando la sfera dell’intimità personale».
Non si tratta di cose nuove, ma, come si diceva, della ripresa di quanto sempre insegnato dal magistero della Chiesa. Se nuove sembrano queste osservazioni è perché da tempo non le udiamo più pronunciare…
– Cattolici in politica? Sì ma dal Papa arriva un forte richiamo alla coerenza in difesa della Dottrina sociale della Chiesa e della Fede stessa…
Una presenza pubblica fondata sulla fede e sulla legge naturale, senza equivoci e compromessi. Nel discorso a una delegazione francese Leone XIV indica che la via verso il bene comune è la Dottrina sociale della Chiesa, non il cedimento a una laicità «fraintesa».
Si noti che qui si dice nuovamente che «non c’è soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo», come affermato nella Rerum novarum 134 anni fa. L’espressione con cui Papa Leone parla della Dottrina sociale della Chiesa è molto forte. Egli ha detto ai partecipanti all’incontro: «Siete dunque chiamati a rafforzarvi nella fede, ad approfondire la dottrina — in particolare la dottrina sociale — che Gesù ha insegnato al mondo, e a metterla in pratica nell’esercizio delle vostre funzioni e nella stesura delle leggi». La Dottrina sociale è nientemeno che quella che «Gesù ha insegnato al mondo». Si tratta di una definizione di grande significato e fortemente impegnativa che ne richiama altre date in passato – «annuncio di Cristo» di Giovanni Paolo II, per esempio – andando forse anche oltre.
In questo importante discorso il Papa ha toccato il principale problema della Chiesa di oggi circa i suoi rapporti con il mondo. Non ha fatto riferimento solo ad una presenza pubblica personale al seguito della propria retta coscienza, cosa che si può fare anche da soli e laicamente, ma ha richiamato la necessità di una presenza pubblica nella Chiesa e della Chiesa, perché la società mira alla giustizia, ma per arrivarci deve essere salvata.
Il 18-25 gennaio: la vera Preghiera per l’unità dei Cristiani, composta da Benedetto XV:
«O Signore, che avete unito le diverse nazioni nella confessione del Vostro Nome, Vi preghiamo per i popoli Cristiani dell’Oriente. Memori del posto eminente che hanno tenuto nella Vostra Chiesa, Vi supplichiamo d’ispirar loro il desiderio di riprenderlo, per formare con noi un solo ovile sotto la guida di un medesimo Pastore. Fate che essi insieme con noi si compenetrino degl’insegnamenti dei loro santi Dottori, che sono anche nostri Padri nella Fede. Preservateci da ogni fallo che potrebbe allontanarli da noi. Che lo spirito di concordia e di carità, che è indizio della Vostra presenza tra i fedeli, affretti il giorno in cui le nostre si uniscano alle loro preghiere, affinché ogni popolo ed ogni lingua riconosca e glorifichi il nostro Signore Gesù Cristo, Vostro Figlio. Così sia».
Quali sono i presupposti imprescindibili per un corretto “ecumenismo”?
- Primo presupposto: la Chiesa Cattolica è la Chiesa di Cristo. L’affermazione della Lumen gentium, al n.8, secondo cui la…Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica (questione cosiddetta del “subsistit in“) è ambigua, perché in duce a credere che la Chiesa di Cristo possa andare oltre la Chiesa Cattolica. Nel Catechismo di San Pio X troviamo scritto: “Nessuna fuori della Chiesa Cattolica- Romana può essere la Chiesa di Gesù Cristo e nemmeno parte di essa“.
- Secondo presupposto: la Chiesa Cattolica è la visibile Chiesa di Cristo. Non si può credere che la Chiesa di Cristo sia ancora invisibile e di là da realizzarsi se non con l’unione di tutti coloro che si professano cristiani. Pio XII nella Mystici Corporis scrive: “Si allontanano dalla verità divina coloro che immaginano la Chiesa come se non potesse raggiungersi né vedersi, quasi che fosse una cosa ‘pneumatica’ come dicono per la quale molte comunità di cristiani, sebbene vicendevolmente separate per fede, tuttavia sarebbero congiunte tra loro da un vincolo invisibile“.
- Terzo presupposto: l’unità della Chiesa c’è già. La presunta non unità della Chiesa vorrebbe significare che la Verità non sarebbe unita: ce ne sarebbe un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Pio XI nella Mortalium animos scrive: “Poiché il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa, è uno (…), è una sciocchezza e una bestialità pretendere che questo Corpo Mistico risulti di membra disperse“.
- Quarto presupposto: non si può “essenzializzare” il Cristianesimo. Non è corretto pensare che nella Dottrina rivelata ci siano verità più importanti e verità meno importanti. Leone XIII nella Satis Cognitum scrive: “Ripugna alla ragione che anche in una sola cosa non si creda a Dio che parla“.
- Quinto presupposto: l’obbligo morale del reditus. L’unico fine di qualsiasi dialogo deve sempre essere il “reditus”, cioè il ritorno alla Chiesa Cattolica, unica e vera Chiesa di Cristo.
Evangelizzazione e proselitismo, le cinque grandi differenze
Quali sono le differenze tra chi evangelizza e chi fa proselitismo? 5 giusti comportamenti di fronte agli altri seguendo la frase di Benedetto XVI.
«La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”».
Ce lo ha insegnato più volte Benedetto XVI e quante volte Papa Francesco ha citato questa frase!
Ma cosa cambia davvero? Che differenza c’è tra evangelizzazione e proselitismo?
E’ stato il tema dell’intervento del vescovo spagnolo José Ignacio Munilla alla “Settimana dell’evangelizzazione” svoltasi in Colombia, durante il quale ha tracciato cinque differenze davvero interessanti che riportiamo e approfondiamo secondo la nostra esperienza.
1) Aspettare i tempi dell’altro
Il primo punto riguarda il tempo.
Evangelizzare significa accompagnare le persone nel loro cammino senza ansia di risultati immediati. Anzi, restando totalmente liberi dall’esito. Il proselitismo IMPONE alla persona una scelta immediata e ricattatoria ed è tipica degli ambienti evangelicali-pentecostali, ambienti di forma settaria, facendo sentire e vivere la persona sottopressione, spesso opprimendola. L’evangelizzazione, invece, SEMINA IL VERBO, LA PAROLA (con dottrina e saggezza) e PREGA, aiuta le persone nelle circostanze in cui si trovano nel bisogno e, pazientemente, ATTENDE che quel seme cresca facendo ricorso alla preghiera, al Rosario, ai Sacramenti…
Per aiutarsi si può pensare a Gesù di Nazareth, nemmeno lui riuscì a convincere tutte le persone che incontrò. Anzi, i Vangeli riportano proprio la proposta di Gesù al giovane ricco di seguirlo per ottenere la vita eterna (Mt 19,16-22). Ma il ragazzo rifiutò e se ne andò, preferì restare attaccato alle sue ricchezze. Nelle Atti degli Apostoli, dopo il discorso di Pietro sulla risurrezione di Gesù, la folla – spiega il vescovo di Tortona mons. Guido Marini – chiede: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?. E Pietro disse: Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo”. In risposta alla predicazione di Pietro, coloro che ascoltano, trafitti nel cuore, chiedono che cosa devono fare. In questa domanda può esservi un errore di prospettiva e una tentazione nella quale possiamo cadere anche noi: pensare che la fede consista anzitutto in un fare, che essere cristiani si risolva in opere da compiere. La parola di Pietro è chiara. Il cuore della vita di fede è l’appartenenza a Cristo mediante il Battesimo, la continua conversione a Lui, l’esperienza del Suo amore e della Sua misericordia, l’opera incessante dello Spirito Santo in noi. Prima, pertanto, c’è il Signore Gesù e il nostro vivere in Lui e per Lui. Poi, il fare e le opere che ne sono conseguenza.
Chi evangelizza rispetta profondamente il processo interiore di ciascuno, senza accelerazioni o forzature. Giustamente mons. Munilla spiega che «non bisogna sopraffare la persona», perché «c’è un tempo di grazia che il Signore ha per noi, per la nostra conversione».
Al contrario, chi fa proselitismo cerca conversioni rapide, quasi come un obiettivo da raggiungere per un proprio tornaconto spesso velato dallo zelo. E dimentica che la fede autentica matura solo quando trova un terreno pronto ad accoglierla. La pazienza e il rispetto dove si trova l’altro, le condizioni, la cultura è quindi un segno distintivo dell’evangelizzazione vera.
2) Si comunica ciò che si è, non un ragionamento-ideale
Il secondo criterio mette al centro la testimonianza. Diremo anche LA COERENZA
Chi evangelizza non presenta un discorso teorico, ma offre se stesso avendo già messo in atto, nella propria vita, la coerenza di ciò che vuole trasmettere. A volte non serve nemmeno parlare di Dio specialmente in un incontro iniziale: ci sono storie di conversioni nate semplicemente dall’imbattersi in un’umanità diversa nella vita di tutti i giorni, con un collega di lavoro o un compagno di università. Le DOMANDE, al limite, sono spesso una conseguenza della testimonianza cristiana che avremo dato e allora sì che, a domanda, si può iniziare a rispondere con i ragionamenti.
La fede non viene trasmessa come un insieme di regole, ma come un’esperienza viva, che per prima ha toccato la nostra persona e l’ha trasformata. «Io, nello stesso momento in cui vi dico queste cose», ha spiegato il vescovo spagnolo, «sono testimone che ciò che vi dico è diventato la mia esperienza di vita».
Papa Francesco, accusato di delegittimare la missione, invece spiegava l’errore di chi è cristiano «solo a parole», invitando a essere «missionari con la nostra parola, ma soprattutto con la nostra vita cristiana, con la nostra testimonianza». Papa Francesco sarà stato anche ambiguo nel dire le cose, ma su molti aspetti non aveva tutti i torti. Basti pensare ai Movimenti o Cammini interni alla Chiesa stessa e domandarci se essi evangelizzano o fanno proselitismo per aumentare gli adepti?
Il proselitista, riduce tutto a un esercizio retorico o argomentativo, sperando di convincere l’altro con argomenti anche logici e schematici, ma senza lasciar trasparire la gioia personale di ciò che si è ricevuto appartenendo alla Santa Chiesa, all’avere un Pontefice che guida e benedice, conferma gli altri nella medesima fede.. E’ un errore tipico degli “ZELANTI” che dimenticano che, la credibilità maggiore, non è nel porsi come maestri di infallibilità, ma nella vita personale che parla dell’infallibilità vissuta con coerenza nella propria vita.
3) Non siamo gli artefici delle conversioni
La terza differenza tra evangelizzazione e proselitismo è il ruolo dello Spirito Santo, ci riporta un poco al punto 1).
Ma davvero pensiamo di essere noi gli artefici di una conversione? L’evangelizzazione autentica è legata alla preghiera e all’affidamento a Dio, l’unico in grado di toccare i cuori. Il cristiano propone con la sua vita COERENTE ma è lo Spirito che suscita la fede. Ad insegnarlo è il testo famoso detto “Didachè” o Insegnamento degli Apostoli: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici, e digiunate per i vostri persecutori. Che merito avete infatti se amate quelli che vi amano? Non fanno lo stesso anche i pagani? Ma voi amate quelli che vi odiano (Mt 5,44-46; Lc 6,27-28: 32: 35)…
Cos’, mentre l’evangelizzatore si percepisce come un semplice strumento nella Chiesa e dello Spirito Santo, chi fa proselitismo crede più nell’efficacia del proprio ragionamento, anche avesse ragioni in molte parti il suo lavoro diventa sterile o, peggio ancora, porta DIVISIONE NELLA CHIESA, perché si concentra solo nella propria capacità di convincimento delle sue idee e nelle tecniche di persuasione, tipiche di forme settarie: “il nostro gruppo; il mio gruppo; noi dobbiamo…” escludendo di fatto la Gerarchia Cattolica e la Comunione ecclesiale.
4) Nessuna pressione psicologica
Il quarto criterio riguarda la libertà. Chiarendo sempre che la vera libertà non è fare quello che pare e piace, è evidente che essa però deve essere lasciata a chiunque incontriamo.
E’ legato al primo criterio, che chiedeva di non forzare i tempi. In questa quarta caratterista si ribadisce che il Vangelo è una proposta, non un’imposizione. Si dice anche: l’uomo propone e Dio dispone!
E per imposizione si intendono i tentativi di pressione psicologica o sociale, tutte le forme di condizionamento o ricatto emotivo che invece appartengono alla logica del proselitismo.
Un esempio tipico è minacciare le pene dell’inferno in caso di mancata conversione. E’ un messaggio che non serve a illuminare il cuore, ma a paralizzarlo, trasformandosi in un meccanismo di coercizione. Un conto è AVVISARE ED AMMONIRE, altra cosa è ricattare e minacciare… Gesù, per esempio, dice: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato” e il riferimento è Marco 16,15-20. E’ evidente che Gesù non sta MINACCIANDO o ricattando ma, AMMONISCE E AVVISA che se si RIFIUTA il Vangelo ricevuto, se ne pagheranno le conseguenze. Ci sono anche i famosi peccati contro lo Spirito Santo, Matteo (12,31-32): “Perciò io vi dico: “Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.”
Cosa intende Gesù per peccato contro lo Spirito Santo? L’uomo è scusabile se si inganna sulla dignità divina di Gesù, velata dalle umili apparenze del Figlio dell’uomo, ma non lo è se chiude gli occhi e il cuore alle opere evidenti dello Spirito. Negandole, egli rigetta la proposta suprema che Dio gli fa e si mette fuori della salvezza.
In altri termini la bestemmia contro lo Spirito Santo è quella di coloro, che non solo chiudono gli occhi davanti alle opere di Dio, ma le respingono ostinatamente, attribuendole al demonio, volendo così identificare lo Spirito Santo con lo spirito maligno, come facevano i farisei.
Questo è FARE CHIAREZZA, AMMONIRE, AVVISARE perché, la vera fede, non nasce dalla paura ma DAL SACRO TIMOR DI DIO che è ben altra cosa tanto da essere uno dei sette doni dello Spirito Santo, E’ UN DONO! Il proselitista, invece, è spinto dall’interesse personale o della propria comunità e strumentalizza (e purtroppo spesse volte deve anche MENTIRE oppure esacerbare fatti veri condendoli di storture o strumentalizzati) il sacro timor di Dio con una forma di terrore, di schiacciamento, impedendo all’altro una risposta libera e personale a qualcosa che attrae. La famosa “attrazione” di cui parlava Papa Ratzinger per la quale, un vero evangelizzatore, non ha bisogno di mentire, di strumentalizzare o di esacerbare quanto deve proclamare.
5) Nessuna pressione psicologica
Infine, il quinto punto si concentra sull’atteggiamento verso le persone.
Chi evangelizza non chiede né si attende nulla in cambio e non misura l’affetto verso l’altro sulla base della sua disponibilità d’adesione: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Ma c’è soprattutto AMARE LE PERSONE come Gesù ci ha amati quando eravamo ancora nel peccato, dice San Paolo nella Lettera ai Romani, capitolo 5, versetto 8: “Dio invece manifesta il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi“.
Siamo certi, infatti, che Gesù abbia guardato con affetto quel giovane ricco mentre si allontanava da lui, rifiutandosi di seguirlo. Il criterio della gratuità è un atteggiamento da imparare: amare l’altro indipendentemente dalla sua risposta, custodire la relazione anche quando l’annuncio non viene accolto. Lo stesso atteggiamento che Gesù ebbe nei confronti di Giuda, come ha ricordato lo stesso Pontefice Leone XIV: Gesù non denuncia per umiliare. Dice la verità perché vuole salvare. E per essere salvati bisogna sentire: sentire che si è coinvolti, sentire che si è amati nonostante tutto, sentire che il male è reale ma non ha l’ultima parola. Solo chi ha conosciuto la verità di un amore profondo può accettare anche la ferita del tradimento.
La reazione dei discepoli non è rabbia, ma tristezza. Non si indignano, si rattristano. È un dolore che nasce dalla possibilità reale di essere coinvolti. E proprio questa tristezza, se accolta con sincerità, diventa un luogo di conversione. Il Vangelo non ci insegna a negare il male, ma a riconoscerlo come occasione dolorosa per rinascere.
Il proselitismo, invece, spesso seleziona e mostra attenzione e compiacimento solo a chi si lascia convincere, come se la persona avesse valore soltanto in quanto nuovo adepto.
Questi cinque criteri offrono una bussola preziosa.
La distinzione tra evangelizzare e fare proselitismo va continuamente rinnovata per non cadere negli errori in cui tutti cadiamo. È una questione di autenticità che tocca la credibilità stessa della testimonianza cristiana nel mondo contemporaneo.
