“Nostra aetate” (nel nostro tempo) è il famoso Documento-Dichiarazione sulle relazione della Chiesa con le religioni non cristiane promulgato da san Paolo VI al Concilio Vaticano II e che tanto ha fatto e fa ancora discutere. La prima precisazione che deve essere fatta è questa: il testo afferma che tutto il genere umano è originato, creato da Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti, nessuno escluso; di conseguenza, tutte LE PERSONE, TUTTA L’UMANITA’, attraverso le proprie culture e quindi anche con l’esprimersi nella propria religione, hanno in comune la ricerca di Dio, la ricerca di risposte agli interrogativi dell’uomo.
Specifichiamo, anche che, questa Dichiarazione è un approccio al DIALOGO INTERRELIGIOSO e non si tratta di “ecumenismo”. L’ecumenismo, infatti, si applica a tutte quelle realtà CRISTIANE che in qualche modo si sono separate dalla Chiesa Cattolica ma tutte credono in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo e nella SSma Trinità… mentre, il dialogo Interreligioso è il rapporto dialogante con tutte le altre realtà religiose non cristiane sparse nel mondo in particolare, come vedremo, con il mondo ebraico.
Da distinguersi bene poi con la Dignitatis humanae, con la quale il Concilio sancì il famoso e discusso “diritto alla libertà religiosa“… anch’esso in odore di “festeggiamenti” il 7.12.1965 e del quale discuteremo con un intervento a parte.
Le critiche a Nostra Aetate, dunque, provengono principalmente da due fronti: 1) per alcuni riguardano principalmente il fatto che essa rappresenti un passo perfino troppo timido e insufficiente rispetto a un suo pieno riconoscimento del valore intrinseco delle altre religioni e delle altre fedi, ossia, nessuna differenza tra le religioni anche con quella Cattolica; 2) per altri, invece, vedono il Documento come un tradimento, un eccessivo allontanamento dalla Tradizione cattolica dottrinale che sottolinea che è l’unica via salvifica del cristianesimo. Si potrebbe osservare che entrambi sbagliano perchè solo uno dei due fronti potrebbe avere ragione, pena sarebbe l’affossamento del famoso principio di non contraddizione: o il Documento non da quel riconoscimento di cui poi lo si accusa, oppure offre quel riconoscimento e quindi non avrebbero ragione gli altri. Tuttavia hanno in comune un punto che non possiamo ignorare: le ambiguità di alcune frasi, passaggi o – forse – semplicemente il fatto che non si è volutamente essere dogmatici o dottrinali ma solo, appunto, PASTORALI, dare indicazioni pastorali, di comportamento e di rapporto, sono reali. Nostra aetate, di fatto, segnò l’inizio di un nuovo approccio che promuoveva il dialogo ed un confronto permanente come parte integrante della testimonianza cattolica alla verità della fede Cattolica che, fino a quel momento, considerava i “non cristiani” smarriti e in balia della “menzogna”, della superstizione e dell’ignoranza.
Questa Dichiarazione nasceva, infatti, in un contesto specifico dopo i fatti della Shoah… La Chiesa aveva già cominciato a chiedersi quanto – l’atteggiamento cristiano, dottrinale e pratico – avesse potuto contribuire ad una risoluzione antisemitica del nostro tempo… Il 6 Settembre 1938, già il Papa Pio XI offrì spontaneamente la seguente riflessione a un gruppo di pellegrini belgi, giungendo l’eco di leggi razziali ed altro, ammoniva con queste parole:
Il sacrificio del nostro patriarca Abramo. Notate che Abramo è chiamato nostro patriarca, nostro antenato. L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e la realtà sublimi che sono espresse in questo testo. È un movimento estraneo a noi, un movimento con cui noi cristiani non possiamo avere alcuna parte. La promessa fu fatta ad Abramo ed ai suoi discendenti. Essa è realizzata in Cristo e, per mezzo di Cristo, in noi che siamo membri del suo corpo mistico. Per mezzo di Cristo e in Cristo noi siamo i discendenti spirituali di Abramo, No, non è possibile che i Cristiani condividano l’antisemitismo..Riconosciamo per tutti il diritto di difendersi, di adottare misure di protezione contro ciò che minaccia i loro legittimi interessi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente Semiti.
MA GIUSTAMENTE ed onde evitare i famosi SENSI DI COLPA…. Pio XI a ragione si chiedeva: “Ma potremo Noi tollerare l’iniquissimo tentativo di vedere trascinata a patteggiamenti la verità, la verità divinamente rivelata?” (Pio XI – Enc. Mortalium animos – sulla difesa della Verità) VEDI QUI.
Il documento sugli ebrei, così, fu presentato soltanto nella seconda sessione del Concilio, nel 1963 [VEDI QUI]. Alla morte di Giovanni XXIII, il 3 giugno 1963, il suo successore, Paolo VI, ne confermò il progetto. Divenne tuttavia evidente che il nuovo Pontefice aveva una visione più ampia di ciò che il dialogo poteva significare nel mondo moderno. Nel settembre 1963, aprendo la seconda sessione del Concilio, Paolo VI affermò che la Chiesa «punta i suoi occhi al di là delle comunità cristiane e vede le altre religioni che conservano il concetto e la nozione di un Dio unico, creatore, provvido, sommo e trascendente la natura delle cose; che praticano il culto di Dio con atti di sincera pietà e che derivano da queste usanze e credenze i princìpi della vita morale e sociale». Il suo impegno per il dialogo era in parte guidato dall’intuizione del grande islamologo francese Louis Massignon, la cui influenza sul Concilio, per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, può essere paragonata a quella esercitata da Isaac riguardo alla posizione della Chiesa verso il popolo ebraico.
Ma c’è un ultimo punto da precisare per chi, e non sono pochi, denunciano Nostra aetate come qualcosa che avrebbe cancellato il dovere degli Ebrei di convertirsi a Cristo Gesù, riconoscerlo quale Salvatore e Messia. Le ambiguità a pensare così ci sono, purtroppo, e sono per noi assolutamente inaccettabili! Nessun Documento della Chiesa potrebbe mai imporre l’inefficacia e l’inutilità – DI CHIUNQUE – di convertirsi, il proprio dovere di conoscere LA VERITA’… Se qualcosa di simile è però passato, è evidente che si tratta di passaggi ambigui, estrapolati e ridotti ad altra interpretazione, ecc… la storiella del “AVETE CAPITO MALE…” non regge più! Si accusa che la dichiarazione conciliare Nostra Aetate avrebbe formalmente respinto l’accusa di deicidio contro gli ebrei, affermando che la responsabilità della morte di Gesù ricade sull’intera umanità. Denunciando ogni forma di odio e persecuzione contro gli ebrei e riconoscendo il legame spirituale tra Chiesa ed ebraismo… Per correttezza va detto che, questo chiarimento si ebbe proprio al CONCILIO DI TRENTO… e che Nostra aetate fece proprio andando, forse, ben oltre. Scrive il Catechismo di Trento (1546):
“In Gesù Cristo Nostro Signore si verificò questo di speciale: che morì quando volle morire e sostenne una morte non già provocata dalla violenza altrui, ma una morte volontaria, di cui aveva egli stesso fissato il luogo e il tempo. Aveva scritto infatti Isaia: è stato sacrificato perché lo ha voluto (Isa LIII,7). E il Signore stesso disse di sé prima della passione: Io do la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie; ma io la do da me stesso e sono padrone di darla, e padrone di riprenderla (Giov., X, 17,18).(…)
E dunque, spiega ancora il Catechismo Tridentino:chi indaghi la ragione per la quale il Figlio di Dio affrontò la più acerba delle passioni, troverà che, oltre la colpa ereditaria dei Progenitori (il Peccato Originale dal quale solo Dio poteva riscattarci), essa deve riscontrarsi principalmente nei peccati commessi dagli uomini dall’origine del mondo sino ad oggi, e negli altri che saranno commessi fino alla fine del mondo. Soffrendo e morendo, il Figlio di Dio nostro Salvatore mirò appunto a redimere ed annullare le colpe di tutte le età, dando al Padre soddisfazione cumulativa e copiosa. Per meglio valutarne l’importanza, si rifletta che non solamente Gesù Cristo soffrì per i peccatori, ma che in realtà i peccatori furono cagione e ministri di tutte le pene subìte. Scrivendo agli Ebrei, l’Apostolo ci ammonisce precisamente: pensate a Colui che tollerò tanta ostilità dai peccatori, e l’animo vostro non si abbatterà nello scoraggiamento. (Ebr.XII,3). Più strettamente sono avvinti da questa colpa coloro, che più di frequente cadono in peccato. Perché se i nostri peccati trassero Gesù Cristo Nostro Signore al supplizio della Croce, coloro che si tuffano più ignominiosamente nell’iniquità, di nuovo, per quanto è da loro, crocifiggono in sé il Figlio di Dio e lo disprezzano (ib. VI, 6). Delitto ben più grave in noi che negli Ebrei.Questi, secondo la testimonianza dell’Apostolo, se avessero conosciuto il Re della gloria, non l’avrebbero giammai crocifisso (I Cor.II,8); mentre noi, pur facendo professione di conoscerlo, lo rinneghiamo con i fatti, e quasi sembriamo alzar le mani violente contro di Lui“. (Catechismo Tridentino, catechismo ad uso dei parroci, pubblicato dal Papa S. Pio V per decreto del Concilio di Trento, trad. italiana a cura del P. Tito S. Centi, O.P., ed. Cantagalli Siena 1981, p. 79 e pp.82-83).
E allora, noi oggi, senza avanzare la presunzione del “saperne più del diavolo…” ma, piuttosto con l’umiltà di chi vuole capire la situazione, discernere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, senza per nulla ignorare i problemi sorti da alcune affermazioni contenute nel Documento (vedi qui altri problemi), ci lasceremo aiutare dal caro Don Mario Proietti cpps a cercare di comprendere (come-prendere; prendere-con) LE vere INTENZIONI del testo. Posteremo a seguire alcuni interventi di Don Mario dalla sua pagina di FB, che ci aiuteranno a RAGIONARE… senza per questo evitare o ignorare le disfunzioni, esagerazioni e derive dell’applicazione di questa Dichiarazione in questi 60 anni. Buona riflessione.
INFINE …. RICORDA CHE: L’affermazione del Papa che “nessuno possiede la verità tutta intera”, non vuole dire che la verità non esista o che la Chiesa la ignori. Al contrario: la verità è compiuta in Cristo, ma la nostra conoscenza di essa cresce nel tempo, nella Chiesa, condotta dallo Spirito. La dinamica è la seguente:
Giovanni 14,16-17 Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi.
Giovanni 14,26 Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Giovanni 15,26 Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza
Giovanni 16,13 Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future.
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SESSANT’ANNI DI NOSTRA AETATE. IL DIALOGO CHE NASCE DALLA VERITÀ
Il 28 ottobre 1965, nella festa dei santi Simone e Giuda, Paolo VI promulgava la dichiarazione Nostra Aetate, il documento conciliare che più di ogni altro avrebbe segnato l’immagine pubblica del Concilio Vaticano II. Breve, appena cinque paragrafi, e capace di aprire una stagione nuova nei rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane.
Quel testo nasceva in un contesto storico segnato da ferite e speranze. Dopo le tragedie della guerra e della Shoah, la Chiesa sentiva l’urgenza di purificare la memoria e di chiarire la propria posizione verso il popolo ebraico, riaffermando al tempo stesso la chiamata universale alla salvezza. In breve, la riflessione si allargò fino a considerare l’islam, l’induismo e il buddismo, riconoscendo nel cuore di ogni uomo il desiderio di Dio che lo Spirito suscita e sostiene.
Al centro del testo risuona quella frase tanto citata quanto fraintesa: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni». I Padri conciliari non intendevano proclamare un pluralismo religioso, ma riconoscere che la verità, dovunque si trovi, viene da Dio. È un’affermazione profondamente tomista, radicata nel principio espresso da san Tommaso d’Aquino: omne verum, a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est, ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo.
La grazia di Dio, che agisce come causa prima, può toccare ogni uomo anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa, ma non in modo indipendente da Cristo. Tutto ciò che è vero e buono nel mondo deriva da Lui e tende a Lui come al proprio compimento. Le religioni non cristiane non sono vie parallele di salvezza, bensì luoghi in cui la grazia può predisporre l’animo all’incontro con il Redentore. In questa luce, Nostra Aetate non relativizza la fede, ma riconosce l’azione universale di Dio che conduce ogni uomo alla verità del Verbo incarnato.
La storia successiva ha mostrato quanto fosse facile travisare quella frase. Alcuni la interpretarono come legittimazione del relativismo religioso, come se ogni credo fosse equivalente e intercambiabile. Da tale distorsione è nata la retorica di una “fratellanza universale” priva di riferimento a Cristo, ridotta a sentimento umanitario. In nome dello “spirito del Concilio” si arrivò perfino a giustificare sincretismi e preghiere comuni che oscuravano la centralità del Vangelo.
Ma Nostra Aetate, letta integralmente, è inequivocabile: «Annuncia e deve annunciare incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa». Il dialogo, dunque, non sostituisce l’annuncio, lo accompagna. Riconoscere il bene presente nell’altro non significa rinunciare alla verità di Cristo, ma testimoniarla con mitezza e fermezza, senza arroganza e senza complessi d’inferiorità.
Sessant’anni dopo, la sfida rimane intatta. In un mondo dove le religioni si confondono con le culture e la fede rischia di ridursi a emozione privata, Nostra Aetate invita a ritrovare la via dell’incontro fondato sulla verità. Il cristiano autentico non teme il dialogo, perché sa che ogni dialogo autentico è già missione. Chi parla in Cristo non negozia la propria identità: la comunica.
Celebrare oggi l’anniversario di Nostra Aetate non significa aderire a un’idea vaga di “fratellanza umana”, ma riscoprire la chiamata universale della Chiesa a far conoscere il volto del Salvatore. Come ricordava san Giovanni Paolo II, «il dialogo interreligioso non è mai in alternativa alla missione, ma una sua forma».
L’eredità di Nostra Aetate rimane profetica se viene letta nella luce della Croce: non come resa, ma come invito alla santità. Solo dal Sangue di Cristo nasce la pace vera, quella che riconcilia le genti e illumina i popoli.
(Quanto segue ha riscontro con la Dignitatis humanae, con la quale il Concilio sancì il famoso e discusso “diritto alla libertà religiosa“… anch’esso in odore di “festeggiamenti” il 7.12.1965 e del quale discuteremo con un intervento a parte.)
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27 OTTOBRE 1986 – MEMORIA DI UN GIORNO INFAUSTO PER LA COMUNICAZIONE ECCLESIALE
Oggi la Chiesa ricorda l’anniversario dell’incontro di Assisi, voluto da san Giovanni Paolo II per invocare da Dio il dono della pace. Fu un gesto animato da un profondo desiderio evangelico: richiamare l’umanità alla responsabilità comune di fronte alla guerra e far comprendere che la pace è dono di Dio, non conquista dell’uomo.
Tuttavia, nella storia recente, quell’evento resta un passaggio difficile da interpretare, perché generò una confusione di segni che ha pesato a lungo sulla coscienza ecclesiale.
L’intenzione del Pontefice fu chiara: non una preghiera insieme, ma una preghiera per la pace.
Giovanni Paolo II volle che ogni rappresentante religioso pregasse nel rispetto della propria tradizione, evitando ogni forma di commistione o di sincretismo. Il fine era buono, ma la forma comunicativa fu fragile. Le immagini di molte religioni raccolte nello stesso luogo, alcune con gesti incompatibili con la fede cristiana, produssero un messaggio ambiguo: come se tutte le religioni potessero equivalersi nel rapporto con Dio, o come se la Chiesa avesse rinunciato al mandato missionario di annunciare Cristo come unico Salvatore.
Fu un errore di comunicazione, non di fede. Ma nel mondo dell’immagine, la comunicazione diventa già teologia. E così, quello che doveva essere un segno di pace fu interpretato da molti come un segno di relativismo. Da quel giorno, una parte del popolo cristiano si convinse che la Chiesa stesse abbandonando la certezza del Vangelo per una generica alleanza tra religioni.
L’evento di Assisi non fu un atto magisteriale. E proprio in questa distinzione si trova, a mio giudizio, la chiave per comprenderlo rettamente.
Ricordo con viva gratitudine che, durante i miei anni di studio alla Pontificia Università Lateranense, ebbi modo di sostenere un esame di ecclesiologia con il professor Brunero Gherardini, il quale affrontò proprio la questione teologica sollevata dall’incontro di Assisi del 1986.
Mons. Gherardini, con la sua consueta chiarezza tomista, indicò come unica soluzione equilibrata la distinzione tra il Papa che parla come Dottore privato e il Papa che agisce come soggetto del magistero.
Nel primo caso, spiegava, il Pontefice non impegna l’autorità del suo ufficio, ma esprime una posizione pastorale o personale, non dottrinale. Applicando tale principio all’evento di Assisi, egli affermava che Giovanni Paolo II non agì in forma magisteriale, bensì come persona di fede che desiderava suscitare nel mondo il desiderio di pace.
Questa distinzione, che ebbi la grazia di ascoltare direttamente dalla sua voce, rimane per me la chiave più saggia per comprendere teologicamente ciò che accadde: non un atto del magistero, ma un gesto umano, benintenzionato, che richiese successivamente un chiarimento ecclesiale per evitare interpretazioni equivoche, come infatti avvenne con le parole dello stesso Giovanni Paolo II alla Curia Romana il 22 dicembre 1986 e, più tardi, con la dichiarazione Dominus Iesus, che riaffermò con forza l’unicità salvifica di Cristo e della sua Chiesa.
L’errore non fu nell’intenzione, ma nel segno. E quando il segno non riflette pienamente la verità, il messaggio rischia di divenire controproducente. La Chiesa non prega insieme alle religioni, prega per la loro salvezza e per la pace del mondo, nella certezza che ogni grazia proviene solo da Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini.
L’attuale discernimento ecclesiale, impegnato nel processo sinodale, dovrebbe trarre lezione da quell’episodio.
L’unità della Chiesa non nasce dal mettere insieme tutto, dalle religioni alle opinioni, dalle sensibilità spirituali alle ideologie del tempo, bensì dal porre ogni uomo davanti al volto di Cristo, Principe della pace.
Solo così la comunione diventa testimonianza e non confusione, annuncio e non adattamento.
A quasi quarant’anni da quella giornata, la Chiesa è chiamata a imparare l’arte di comunicare senza rinunciare alla sua identità. La pace non è mai un compromesso tra fedi. Essa è il frutto della grazia. Solo Cristo unisce, solo il suo Sangue riconcilia. Tutto ciò che la Chiesa compie e comunica deve tendere a questo: rivelare il volto del Signore e custodire il mistero della sua unicità.
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NOSTRA AETATE E SAN TOMMASO: LA VERITÀ NON SI NEGOZIA, SI RICONOSCE
Apologia di una dottrina che i “luttuosi” del 28 ottobre non hanno capito
C’è chi oggi ricorderà i sessant’anni della Nostra Aetate con spirito di gratitudine, e chi invece vestirà idealmente a lutto, come se il 28 ottobre 1965 fosse stata la data della resa della Chiesa al mondo.
È una lettura che ignora la realtà dei testi conciliari e la profondità della loro radice teologica.
Nostra Aetate non è il manifesto del relativismo, ma la più tomista delle aperture del Vaticano II: la proclamazione, in linguaggio moderno, di ciò che la scolastica aveva già insegnato con lucidità.
San Tommaso d’Aquino pone la pietra d’angolo di tutta la questione, offrendo la chiave ermeneutica per l’approccio conciliare: “Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est.” (Super Evangelium Ioannis, cap. 1, lect. 3)
Ogni verità, dovunque si trovi, appartiene a Dio come sua sorgente.
Quando Nostra Aetate afferma che “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo” nelle altre religioni (N.A., n. 2), non introduce un pluralismo teologico, ma riconosce questa antica intuizione: la verità non si divide, e il suo autore è sempre lo Spirito Santo. Tutto ciò che è autenticamente vero e buono nel mondo è già, misteriosamente, proprietà di Cristo, Verbum aeternum.
Questa universalità non si limita alla verità intellettuale, ma si estende alla grazia.
Per Tommaso, la salvezza è desiderio di Dio per tutti gli uomini, secondo la Scrittura: “Deus vult omnes homines salvos fieri” (1 Tm 2,4). Egli agisce in ogni uomo dall’interno, anche se non appartiene ancora visibilmente alla Chiesa (STh I, q.19, a.6).
Nostra Aetate non fa che tradurre questa visione in linguaggio storico e pastorale: nelle religioni del mondo agisce quella stessa grazia preveniente che spinge ogni cuore a cercare Dio. Ciò non significa che le religioni siano vie di salvezza autonome, ma che Dio, nel suo disegno misericordioso, non abbandona nessuno al buio totale.
L’Aquinate vedeva nei filosofi pagani e nei loro sforzi razionali una “praeparatio ad fidem” (STh I-II, q.109, a.1 ad 1). Il Concilio ha applicato lo stesso principio alla storia universale, riconoscendo in altre fedi “un raggio di quella Verità che illumina ogni uomo” (cfr. Gv 1,9). Le religioni, nella misura in cui conservano il desiderio del bene e del vero, sono come soglie aperte: non sostituiscono Cristo, ma possono condurre verso di Lui.
La scolastica usava il linguaggio della causalità e dell’ordine soprannaturale; il Concilio sceglie parole di rispetto e di dialogo. Ma il contenuto è identico: la dottrina sull’universalità della grazia. Tommaso insegna che la grazia può precedere la conoscenza esplicita della fede; Nostra Aetate afferma che la verità e la santità presenti altrove riflettono la luce di Cristo.
In termini precisi, Dio, causa prima della grazia, agisce in tutti; questa azione non legittima l’errore, ma orienta verso la verità; le religioni, nella misura in cui contengono verità e bene, sono effetti dell’azione di Dio per modum praeparationis (a titolo di preparazione). La Chiesa, pur rimanendo il luogo ordinario e pieno in cui la grazia raggiunge la sua efficacia sacramentale, non ne esaurisce l’azione nel mondo.
Parafrasando il linguaggio scolastico, potremmo dire: Nelle altre religioni non è presente la salvezza formalmente, ma una disposizione materiale ad essa, nella misura in cui Dio muove gli uomini tramite il lume naturale e una grazia sufficiente.
Chi oggi piange la Nostra Aetate confonde l’apertura con la resa. Non ha compreso che la Chiesa, forte della propria Tradizione, può riconoscere il bene ovunque, perché sa che ogni bene appartiene a Dio. La verità non si perde nel dialogo, si rivela. La fede non si indebolisce nell’ascolto, si purifica.
– Il Concilio non ha rinnegato Tommaso, ma lo ha tradotto nel linguaggio della carità pastorale. Ha cambiato tono, non sostanza. Nel XIII secolo si parlava di ordo gratiae; nel XX si parla di “dialogo”. Ma la sostanza è la stessa: tota veritas est a Deo, tota gratia est in Christo.
Celebrarne oggi l’anniversario non significa abbracciare un sincretismo religioso, ma riconoscere che la grazia opera anche oltre i confini visibili della Chiesa, sempre e solo orientando a Cristo. La Nostra Aetate è dunque un atto di fede nella potenza universale della verità, non un cedimento al mondo.
Il cristiano autentico non teme l’incontro, perché sa che ogni verità autentica, anche quando è parziale, conduce al Verbo Incarnato. E se qualcuno, anche oggi, sceglierà il lutto, la Chiesa risponderà come sempre con la luce: la luce della ragione, della grazia e del Sangue redentore di Cristo, in cui ogni uomo, di qualunque fede o popolo, trova la sua vera pace.
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LA CHIESA, MISTERO DI CATTOLICITÀ. L’UNIVERSALITÀ DELLA GRAZIA E L’INFINITA ESTENSIONE DEL CORPO DI CRISTO
Il timore di perdere la verità e la pedagogia dello Spirito
Ogni volta che la Chiesa parla di dialogo, non pochi credenti provano un turbamento sincero. Temono che aprirsi agli altri significhi smarrire la propria identità; che l’ascolto possa diventare cedimento; che l’incontro porti all’indifferentismo, al relativismo o al sincretismo. È un timore comprensibile, figlio di una storia di contrapposizioni, in cui difendere la verità sembrava richiedere di contrapporsi al mondo per non esserne travolti.
Eppure la verità, quando è davvero tale, non si difende con la paura ma con la fiducia. Non è una formula da custodire sotto vetro, è un dono che si comunica con la pazienza del seme che germoglia.
Molti pensano che non mettere subito “i puntini sulle i” sia un segno di debolezza. Ma la pedagogia di Dio non conosce l’imposizione: conosce il tempo, la gradualità, la luce che cresce. Gesù lo ha detto: «Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13). Non ha parlato di una verità diversa, ma di una pienezza progressiva. È lo Spirito che accompagna il cuore umano a riconoscere la verità partendo da frammenti di luce, fino a giungere alla sua totalità.
Il Concilio Vaticano II ha adottato questa pedagogia divina. Non per annacquare la fede, ma per permettere al mondo di accostarsi alla verità senza esserne accecato. In un’epoca segnata da secoli di contrasti tra fede e ragione, da guerre religiose e sospetti reciproci, lo Spirito ha suggerito un linguaggio nuovo, capace di superare i pregiudizi. Le dispute teologiche e le condanne dottrinali erano necessarie quando si trattava di difendere la fede da chi la rifiutava consapevolmente: erano lotte per l’integrità del dogma.
Ma oggi la sfida è diversa: non ci si trova più davanti a nemici dichiarati, bensì a uomini e donne che spesso non conoscono Cristo o lo conoscono attraverso immagini distorte. Come parlare a un mondo che diffida per storia, per ferite o per ignoranza? Come proporre la fede a chi la crede solo una voce tra tante?
Ecco la grande intuizione dello Spirito: aprire un cammino di verità che non parte dalla condanna, ma dalla relazione; che non nasce dal bisogno di prevalere, ma dal desiderio di illuminare.
La Chiesa ha scelto il linguaggio del dialogo come atto di fede nella forza della verità.
Non un compromesso, ma una forma di missione. Perché la verità non teme il confronto: è fatta per incontrare, non per isolarsi. E ogni incontro autentico è già un passo verso quella pienezza che lo Spirito continua a rivelare nella storia, come promessa del Cristo che “illumina ogni uomo” (Gv 1,9).
La cattolicità come universalità della grazia
Ci sono parole di Gesù che non smettono di svelare profondità inattese.
Tra queste: «Ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre» (Gv 10,16). È una delle frasi più alte del Vangelo di Giovanni, dove si uniscono il mistero della Chiesa e quello della grazia che la precede, la accompagna e la oltrepassa senza mai contraddirla. Gesù parla del suo ovile, l’Alleanza, il popolo radunato nell’obbedienza alla voce del Pastore. Ma lo sguardo del Figlio non si ferma al recinto visibile: si apre ai confini del cuore umano, là dove la grazia di Dio opera silenziosa.
La promessa delle “altre pecore” è la rivelazione della cattolicità nel suo senso più profondo: l’universalità non geografica, ma ontologica del disegno divino.
Tutto ciò che vive della grazia di Cristo, ovunque si trovi, appartiene misteriosamente al suo Corpo. La Chiesa visibile custodisce e amministra i segni della salvezza, ma lo Spirito di Cristo, che ne è l’anima, soffia anche dove il vento dei sacramenti non è ancora giunto.
L’episodio del Vangelo di Giovanni, quando i discepoli trovano il Risorto sulla riva del lago, racchiude la stessa verità (Gv 21,9).
Dopo la pesca miracolosa, Pietro porta a riva i suoi pesci: frutto dell’obbedienza alla parola del Signore, simbolo della missione apostolica. Ma quando scendono dalla barca, trovano la brace già accesa e del pesce già posto sopra. Non proviene dalla loro rete: è il pescato di Cristo stesso.
Quel fuoco è la carità divina che arde anche fuori dai confini della barca; quel pesce è l’umanità già toccata dal mistero di Dio, che la Chiesa, giunta a riva, scopre preparata da un amore preveniente.
Gesù invita Pietro a portare anche il suo pescato: unire ciò che la grazia aveva già raccolto con ciò che la missione apostolica raccoglierà. È un gesto di comunione cosmica: l’opera della Chiesa visibile e l’opera invisibile della grazia si uniscono davanti allo stesso Signore.
La Chiesa visibile e invisibile
San Tommaso d’Aquino, con la sua precisione teologica, esprime questa verità con un’immagine che sembra un commento al Vangelo: «Come l’anima e il corpo costituiscono un solo uomo, così la Chiesa visibile e la Chiesa invisibile formano un solo Corpo di Cristo.» (Commentum in Symbolum Apostolorum, art. 9)
La Chiesa è dunque una realtà duplice e inseparabile: visibile nei suoi sacramenti, invisibile nella grazia che li anima. È nel mondo ma non del mondo, istituita nella storia e radicata nell’eternità.
Fuori dai suoi segni visibili non vi è salvezza perché non vi è Cristo senza la sua Chiesa; tuttavia, la sua efficacia non si esaurisce nei confini istituzionali, poiché la grazia del Verbo incarnato non è prigioniera della forma sacramentale, ma ne è l’anima e la sorgente.
Il termine “cattolica” non indica un’estensione territoriale, ma una pienezza ontologica: la capacità di contenere in sé la totalità del disegno divino. La cattolicità è la qualità della Chiesa di essere aperta a tutti, perché radicata in Colui che vuole che “tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Dire che la Chiesa è cattolica significa riconoscere che nessuna verità, nessuna bontà, nessuna grazia autentica le è estranea. Tutto ciò che di vero e di santo fiorisce nel mondo è già un riflesso della sua maternità nascosta.
Per questo, dire che “fuori della Chiesa non c’è salvezza” non è una formula di esclusione, ma di comunione: non una barriera, ma una legge dell’essere. Tutto ciò che è salvato, lo è per mezzo della Chiesa, anche se non ancora nella Chiesa; e chi giungerà in cielo, ne farà parte in modo visibile, poiché la gloria renderà piena quella comunione che sulla terra era solo misteriosamente iniziata.
Il coraggio della verità che abbraccia
Chi teme il dialogo dimentica la natura stessa della verità. La verità non si difende chiudendosi, perché la verità non è fragile: è luminosa.
Chi teme di perdersi nel dialogo rivela di non aver compreso che la Chiesa non è un fortino ma una sorgente. Il bene, come ricorda l’Aquinate, è diffusivo di sé: Bonum est diffusivum sui. Così la Chiesa, che vive del Bene supremo, non può che espandersi, comunicarsi, abbracciare. La sua apertura non è cedimento, ma traboccamento della grazia.
La cattolicità, in fondo, è il nome cristiano dell’infinito.
La Chiesa non si riduce a ciò che vediamo: è già più grande del suo tempo, più estesa dei suoi confini, più antica delle sue forme. È la sposa che il Verbo prepara fin dalla creazione, il Corpo che cresce nella storia, il sacramento che genera vita anche oltre i suoi confini visibili.
Quando l’ultimo uomo sarà entrato nel Regno, tutto ciò che la grazia avrà toccato si manifesterà come parte viva del Corpo di Cristo. Allora si comprenderà che la Chiesa non era solo “una religione tra le altre”, ma il grembo divino in cui tutto l’universo redento trova il suo posto.
È ormai notte. Ho accolto poco fa i pellegrini di Massa Martana, venuti in Abbazia ad omaggiare il loro patrono, San Felice, vescovo e martire, di cui domani celebreremo la festa. Come custode di questo luogo, li ho salutati assicurando la nostra quotidiana preghiera per tutti coloro che si affidano all’intercessione del santo vescovo. Tornato a casa, nella quiete della nostra piccola casa nel bosco, ho riletto il testo dell’Udienza generale di oggi, in cui Papa Leone XIV ha dedicato la sua catechesi al sessantesimo anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate.
Avevo ancora negli occhi e nella mente le risonanze lette nel pomeriggio sui blog: le solite accuse di modernismo, di confusione, di sincretismo. Eppure, letta con serenità e attenzione, la catechesi del Papa rivela un’intelligenza teologica limpida e fedele. Per questo voglio condividere con voi, cari amici, le risonanze che mi ha suscitato. Molti mi chiedono spesso di aiutare a navigare con discernimento tra le voci militanti che, da una parte e dall’altra, alimentano divisioni. Lo faccio con semplicità, raccontandovi come il mio cuore ha ascoltato le parole del Papa.
Tra le immagini più significative dell’Udienza di oggi, quella che resterà nella memoria è senza dubbio quella dei monaci buddhisti che, seduti in Piazza San Pietro, mostrano un grande ritratto di Papa Leone XIV. Il gesto, carico di rispetto e gratitudine, ha attraversato la piazza come un simbolo silenzioso: un Papa cristiano onorato da uomini di un’altra religione, non per convenienza diplomatica, ma per stima sincera. In quella cornice di luce e di volti, la Chiesa ha celebrato i sessant’anni della Dichiarazione Nostra Aetate, un testo che ha aperto le vie del dialogo e che oggi il Pontefice ha voluto riportare al suo significato più vero.
La Piazza San Pietro era gremita. Pellegrini di ogni continente, sacerdoti, religiosi, famiglie, rappresentanti di comunità ebraiche, musulmane, buddhiste e induiste. Nessuna confusione dottrinale, ma la percezione di una fraternità possibile quando si parte dal rispetto e dalla verità. L’atmosfera non era quella di un raduno interreligioso, bensì di un’assemblea orante, raccolta attorno alla Parola. Una piazza in ascolto: questa è forse l’immagine più fedele della Chiesa voluta da Nostra Aetate, e che Leone XIV ha voluto rievocare con profondità pastorale.
Il Papa ha dedicato la catechesi interamente alla memoria del documento conciliare, promulgato il 28 ottobre 1965. Non un anniversario protocollare, ma una meditazione viva. Al centro ha posto l’incontro di Gesù con la Samaritana: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,24). Da questa parola, Leone XIV ha tratto la chiave di lettura del dialogo interreligioso: la sete di Dio per l’uomo e la sete dell’uomo per Dio. È un dialogo che nasce non dal compromesso, ma dal desiderio di verità che abita ogni cuore.
Molti commentatori hanno reagito a caldo, leggendo la catechesi come una concessione al modernismo. È un rischio frequente: isolare alcune espressioni, “collaborare per la pace”, “camminare insieme”, “unità delle religioni”, e ignorare il contesto in cui sono pronunciate. Ma la sostanza teologica del testo papale è tutt’altro che modernista. Leone XIV non riduce la fede a sentimento, né la verità a esperienza. Egli parte dal Vangelo e resta nel Vangelo. Quando parla di dialogo, lo fa nel senso cristologico di chi riconosce che ogni ricerca umana di Dio è già risposta a un’iniziativa divina.
Le parole più discusse, “le religioni possono riflettere un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”, sono citazione letterale di Nostra Aetate 2. Il Concilio, in linea con la teologia di san Tommaso, riconosce che ogni verità, dovunque si trovi, appartiene a Dio. Non significa che tutte le religioni siano vie parallele di salvezza, ma che la luce di Cristo, che illumina ogni uomo (Gv 1,9), può rispecchiarsi in ogni cuore aperto al bene. È la logica della praeparatio evangelica, non del relativismo.
Altrettanto chiaro è il passaggio dedicato al popolo ebraico: «La Chiesa riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti». Qui Leone XIV non parla da diplomatico, ma da teologo della storia della salvezza. La condanna dell’antisemitismo, ribadita con forza, non è un gesto politico, ma un atto di fedeltà al Vangelo.
Un’altra espressione centrale della catechesi ha attirato attenzione: “Secondo la convinzione cristiana, Dio è in se stesso dialogo.” Alcuni l’hanno letta come affermazione ambigua, ma il significato è chiaramente trinitario. Dio è dialogo perché è comunione: Padre, Figlio e Spirito Santo in relazione d’amore perfetto. È dalla Trinità che deriva ogni vero dialogo umano, non il contrario. Chi vede qui modernismo, confonde la rivelazione con la retorica.
E infine, il gesto conclusivo del Papa: “Fermiamoci un momento in preghiera silenziosa.” Dopo le parole sulla collaborazione e sull’amicizia, tutto si ricapitola nella preghiera. Il silenzio, non il discorso, diventa la cifra del dialogo. È il modo cattolico di chiudere un atto pastorale: l’adorazione, non l’accordo.
Sessant’anni dopo Nostra Aetate, Leone XIV ha confermato che il dialogo vero nasce dalla verità e conduce alla luce; che riconoscere il bene nelle altre religioni non significa smarrire Cristo, ma confessarne l’universalità; che la Chiesa può aprirsi al mondo solo restando ancorata alla Croce.
L’immagine dei monaci buddhisti che sollevano il ritratto del Papa non è un gesto di sincretismo, è la prova che la coerenza evangelica genera rispetto. Non si tratta di relativizzare la fede, ma di mostrarne la forza attrattiva. In quella fotografia si riassume tutto lo spirito di Nostra Aetate: non la confusione delle verità, ma la testimonianza di un amore che, restando fedele al proprio nome, sa farsi comprensibile al cuore di ogni uomo.
In un tempo in cui le parole vengono divorate dalle interpretazioni, questa catechesi non è un passo verso il modernismo, ma un invito alla maturità della fede. È l’immagine di una Chiesa che dialoga perché crede, e crede così profondamente da non temere di parlare con chi ancora non conosce il Nome che salva.