La mitica “Chiesa” delle origini

Trascrizione dell’intervento del prof. Guido Vignelli durante la conferenza Fede o ideologia? La libertà al bivio. Il caso della teologia della liberazione. Presentazione del libro di Julio Loredo “Teologia della liberazione. Un salvagente di piombo per i poveri”, svoltasi il 15 giugno 2015 a Genova.

Grazie. Ringrazio l’avv. Artiglieri e il parroco della chiesa di Santo Stefano che ci ospita molto gentilmente in questa bellissima chiesa di questa bellissima città.

Il mio compito sarebbe, appunto, quello di presentare il libro.

Presentare non vuol dire riassumere il libro, perché sarebbe una cosa alquanto complicata, dato che parliamo di un libro abbastanza complesso e ricco, come capirete subito.

Presentare vuol dire introdurre l’argomento del libro, quindi invogliare il pubblico a leggerlo. Quindi prima acquistarlo e dopo leggerlo. E si tratta di un’opera, oggi, non semplicistica, almeno così dicono gli esperti, soprattutto gli editori, i distributori di libri e anche gli studiosi. Perché c’è una statistica, abbastanza avvilente: pare che i 2/3 dei libri pubblicati in Italia finiscono al macero senza aver venduto nemmeno una copia.

Questo perché? Da che cosa dipende? Dipende, evidentemente, dal tipo di pubblico, dal tipo di libro, ma anche dal fatto che molti libri sono scritti, diciamo così, per dovere d’ufficio. Per esempio per un gusto personale, oppure per giustificare un finanziamento.

Non è certamente il caso de libri del nostro ambiente, e meno ancora del libro che qui presentiamo.

Generalmente – entro subito nell’argomento – si pensa che dopo la crisi dell’ideologie e il crollo del muro di Berlino, i movimenti politici o religiosi di ispirazione socialisti e comunista, siano ormai tramontati.

In realtà, vi sono ideologie e movimenti che riescono a sopravvivere alle condanne e ai fallimenti, adattandosi alle mutate situazioni, trasformandosi e riproponendosi come se fossero nuovi e immacolati.

Fra questi movimenti, vi è senz’altro la teologia della liberazione.

Dopo la condanna ricevuta della Santa Sede e la smentita ricevuta dalla storia – dicevo prima del crollo del sistema comunista – questo movimento perse prestigio e influenza, certamente, ma alla fine dell’anticomunismo, la globalizzazione e la crisi economica globale, hanno offerto alla teologia della liberazione un’occasione per riproporsi come alternativa ad un sistema ritenuto socialmente ed ecologicamente – poi vedremo il perché – insostenibile.

Recentemente la teologia della liberazione, senza rinnegare le idee originarie – perché certa gente non si pente mai del malfatto –, ha fatto, tuttavia, una parziale autocritica, riproponendosi all’opinione pubblica cambiando paradigma, metodo e linguaggio. Ossia riciclandosi, per esempio in chiave psico-analitica, tribale, ambientalista e anche panteista.

Dopo aver tentato invano di suscitare una rivoluzione economico-politica, promossa dai movimenti di massa delle classi proletarie – la vecchia, appunto, teologia della liberazione –, oggi la nuova teologia della liberazione tenta di animare una rivoluzione ecologico-culturale, basata sull’azione di gruppi emarginati o discriminati.

Plinio Corrêa de Oliveira
Plinio Corrêa de Oliveira

In tal modo, la teologia della liberazione si inserisce nell’attuale passaggio storico – che è in corso – dalla terza rivoluzione, quella social-comunista, ad una quarta rivoluzione, potremo chiamarla ecologista e anarchica, come già trent’anni fa denunciava – e temeva – un suo grande oppositore, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995).

In ogni caso, come spiegare che questo movimento, la teologia della liberazione, riesca a riciclarsi e a rilanciarsi in una situazione, apparentemente, infausta per lei?

Possiamo spiegarlo solo inquadrandola nel contesto nel quale nacque e si affermò, prima ancora risalendo alle sue origini, che sono più antiche e più illustri di quanto si crede. Lo vedremo fra poco.

Parimenti, solo colpendo alle radici è possibile sradicare questa zizzania dal campo della Chiesa e impedire che soffochi, nuovamente, il buon grano.

Per esempio, non basta denunciare idee e metodi marxisti usati, ieri, dalla teologia della liberazione, bisogna denunciare la teologia della liberazione così come oggi si presenta e agisce, neutralizzando, il virus originario che ha prodotto l’infezione.

Una piccola parentesi. Proprio recentemente, in un piccolo libretto intervista che mons. Crepaldi, vescovo di Trieste, che si occupa della Dottrina sociale della Chiesa, ha pubblicato per la Cantagalli, c’è appunto questa valutazione sulla pericolosità di questi mutamenti della teologia della liberazione. Mutano, in parte il linguaggio e il metodo, ma il fine rimane lo stesso.

Perché pubblicare un libro sulla teologia della liberazione in Italia?

Ci si illude, in Italia, che quello della teologia della liberazione sia un fenomeno lontano nel tempo e nello spazio, come se riguardasse solo il passato e il continente latino-americano.

In realtà, la teologia della liberazione è nata in Europa. Ad esempio, è nata dall’università belga di Lovanio, ed è stata preparata dalla nouvelle theologie – di cui si è accennato prima – francese e tedesca, specialmente.

Yves Congar (1904-1995)
Yves Congar (1904-1995)

Infatti, la teologia della liberazione fu preannunciata – questa è una chicca storica ed è interessante saperla – da un noto perito conciliare domenicano, Yves-Marie Congar, poi cardinale.

In una serie di sue conferenze, tra il 1962 e il 1963, rivolte ai padri conciliari riuniti a Roma (appunto per il Concilio Vaticano II) – conferenze che lo stesso P. Congar pubblicò con il titolo Per una chiesa serva e povera. Ho letto il testo perché è stato ripubblicato, non a caso, recentemente dalle edizioni dalla Comunità di Bose, cioè da Enzo Bianchi. Dunque, tutto quadra.

A queste conferenze – conferenze, diciamo, preparatorie del P. Congar durante il Concilio – seguì il significativo giuramento della Catacombe.

Che cos’è?

È riportato sempre in quel libro, pubblicato dalla Comunità di Bose, che raccoglie i testi delle conferenze di P. Congar.

Si tratta di un giuramento pronunciato da un gruppo di vescovi il 16 novembre del 1965 nelle catacombe romane di San Callisto.

Giuramento, durante il quale, questi vescovi enunciarono un programma post-conciliare per realizzare la chiesa dei poveri. È interessante leggere quel breve testo che è stato pubblicato, come dicevo, in appendice al libro.

Infatti, cosa successe dopo? Tra il 1964 e il 1966 si tennero, in America Latina, i primi congressi ufficiosi della teologia della liberazione. Poi lanciata dal peruviano padre Gustavo Gutierrez, di cui mons. Livi ha parlato prima, con tre famosi libri, pubblicati in Perù, tra il 1968 e il 1971.

Dunque la teologia della liberazione non è così lontana nel tempo, né nello spazio: è nata in Europa e non tanto tempo fa.

L’associazione Tradicion y Accion fu la prima ad opporsi alla teologia della liberazione.

A studiarla e a confutarla si è dedicato a lungo Julio Loredo, giornalista, saggista e conferenziere; egli discende da un’antica famiglia spagnola, però è nato proprio in Perù. Dove è stato, a suo tempo, tra i fondatori dell’associazione cattolica giovanile Tradicion y Accion. Quest’associazione fu tra le prima a reagire al lancio della teologia della liberazione.

Quest’associazione diffuse, nel 1973, un breve saggio, un numero speciale della rivista, che denunciava il filo-comunismo dei citati libri del P. Gutierrez, da poco pubblicati a Lima.

Ci fu una dura reazione del governo peruviano – che era filo-comunista – che costrinse quei giovani, quell’associazione di giovani, all’esilio. Tra loro c’era appunto il diciottenne Julio Loredo, che però continuò a seguire il problema e a studiarlo. E a combatterlo.

Molto più tardi si trasferì in Italia, dove oggi difende la civiltà cristiana. E non solo in Italia, visto che viaggia parecchio.

Il libro che Julio Loredo ha pubblicato e che presentiamo, s’intitola Teologia della liberazione, un salvagente di piombo per i poveri. È a carattere scientifico, perché raccoglie i risultati di studi e di ricerche sul campo, documentando idee e fatti, ricorrendo alle fonti originarie, e spesso anche nella lingua originale.

Eppure, nonostante questo suo carattere scientifico, il libro è scritto con chiarezza, quindi si legge con una certa facilità.

L’autore – qual è la tesi fondamentale del libro? – ammonisce che, contrariamente a quanto si crede, il problema della teologia della liberazione consiste più nella sua perversa ideologia, che nelle sue devastanti conseguenze sociali.

Torniamo quindi al problema della dottrina, di cui parlava prima mons. Livi.

Perché tutti si spaventano delle conseguenze sociali (occupazioni di terre, sequestri delle case, espropri proletari, la spesa proletaria che abbiamo avuto anche in Italia per un certo periodo), però, in realtà, queste conseguenze pesanti, dal punto di vista sociale ed economico, sono prodotte dall’ideologia che li giustifica e le programma.

Pertanto, cosa fa l’autore, Julio Loredo? Si concentra nel descrivere e confutare il progetto religioso e politico del movimento.

Il libro è diviso in due parti, ve ne accorgerete subito.

La prima metà passa in rassegna la origini storiche e gli sviluppi politici della teologia della liberazione, andando molto indietro nel tempo.

La seconda metà analizza le radici e la basi teologiche e filosofiche della teologia della liberazione.

Voi che siete, non dico bibliomani, ma amanti della lettura come me, vi accorgerete che vi sono molti libri che promettono tanto al lettore, ad esempio nel titolo, ma poi mantengono molto poco, quando uno li legge. Risultano deludenti.

Quello di Loredo è esattamente un esempio rovesciato. È un libro che promette poco nel titolo, ma mantiene molto di più nella lettura.

Infatti, come dicevo, solo nella seconda metà del saggio analizza specificatamente la teologia della liberazione. Sono sempre più di duecento pagine, è molto documentata.

Ma nella prima metà questo libro delinea i presupposti storici e dottrinali, ripercorrendo la storia lunga e tribolata dei movimenti culturali, politici e sociali cattolici, lungo i secoli XIX e XX.

Ed è questo anche un punto molto interessante, per noi italiani ed europei, perché appunto è una rievocazione che riguarda proprio la storia della presenza e dell’azione cattolica nel campo politico-sociale, soprattutto in Europa (e si parla anche dell’Italia).

Questa vicenda – tribolata, come dice giustamente Julio Loredo, – presuppone la grande questione del rapporto tra la Chiesa il cosiddetto mondo moderno, e culmina nel problema di come rimediare alla secolarizzazione della società, avanzata anche dai movimenti politici come il liberalismo e socialismo.

L’autore, quindi, parte da lontano, ma lo fa per spiegare come mai l’impegno politico dei cattolici sia gradualmente declinato, compromesso; diventando subalterno ai progetti sovversivi, più o meno gravi, fin quasi a scomparire nei nostri tempi.

Per motivi di brevità, non posso fare il riassunto di questa storia, però c’è un punto, abbastanza importante, che riguarda proprio la teologia della liberazione.

Pregare non basta...
Pregare non basta…

I teologi della liberazione, anche quelli “riciclati”, vedono nei movimenti sovversivi del terzo mondo le truppe che potranno imporre il regno di Dio sulla terra, facendo sì che la liberté e la égalité rivoluzionarie finalmente si compiano nella fraternité.

Ossia, in quello che potremo chiamare il solidarismo. Un solidarismo dalle caratteristiche anche post-marxiste.

Ciò presuppone, secondo la teologia della liberazione, diciamo, un’opera di “pulizia”. Cioè presuppone di abbattere tutte le tirannie e le superstizioni che ostacolano l’autoliberazione del popolo, perché il popolo si deve liberare da solo.

Ovvero, che cosa bisogna abbattere secondo la teologia della liberazione? Tutte le istituzioni, non solo politiche (famiglia, proprietà, classe, stato, esercito, magistratura, etc.), ma anche le istituzioni religiose (dogma, morale, gerarchia, Chiesa); quindi anche tutta la disciplina che ne deriva, compreso il diritto canonico.

A questo scopo, per ottenere il favore della gente semplice e l’approvazione dei moderati, la teologia della liberazione si presenta – lo sappiamo tutti – come paladina del popolo. Specialmente paladina dei poveri. In questo la teologia della liberazione non è cambiata, neppure quella “riciclata”.

Però, ci avverte Julio Loredo, che nella logica della teologia della liberazione, “povero” non è il miserabile.

“Povero” è chiunque sia oppresso, discriminato ed emarginato; chiunque sia vittima di una disuguaglianza. Quindi i “poveri” sono quelli che possono impegnarsi nella rivolta rivoluzionaria. I “veri poveri” sono quelli che si ribellano alle autorità costituite – anche religiose –, organizzandosi nei movimenti di liberazione, anche armati.

Invece, i poveri che restano pacifici, rispettosi dell’autorità, refrattari alla mobilitazione sovversiva – che sono poi la grande maggioranza –, sono solo poveraccio ignoranti, incoscienti, complici degli oppressori, quindi nemici dei “veri poveri”. Per loro, i teologi della liberazione, non hanno altro che disprezzo.

Come, per altro, facevano i marxisti per i proletari che non si mobilitavano per la rivoluzione sovietica.

Dunque ciò che vale, per la teologia della liberazione, non sono tanto i poveri, quanto la “povertà” così intesa; vista come un’energia rivoluzionaria, un’energia sociale potenzialmente sovversiva che, quindi, non va lenita – non va curata, la povertà –, ma anzi va aggravata, allo scopo di alimentare quell’universale esplosione di rivolta che, secondo loro, produrrà il salto di qualità.

Cioè – anche questa, il salto di qualità, è un’espressione marxista – il violento rovesciamento dall’oppressione alla liberazione. Il passaggio – sempre per usare categorie marxiste che non sono cambiate – dal regno dell’oppressione al regno della libertà.

Questo spiega come mai, quando conquista il potere, la teologia della liberazione si disinteressa dei poveri reali, per favorire i propri settari, i propri burocrati.

Ma oggi che il proletariato si è imborghesito – economicamente e psicologicamente – chi sono, secondo i teologi della liberazione, i “nuovi poveri”, le nuove classi sfruttate?

Quelli che loro chiamano i “proletari morali” – quindi possono essere anche ricchi –, potenzialmente rivoluzionari, che la teologia della liberazione vuole non solo difendere ma anche portare al potere.

Leonardo Boff, "liberazionista" dalla prima ora.
Boff oggi ha aderito alla teologia della liberazione ecologista.

Chi sono?

Nel mondo umano sono i discriminati o emarginati nelle periferie urbane ed esistenziali, cioè i gruppi etnici, le tribù indigene, gli immigrati, i disoccupati, le donne discriminate, gli omosessuali, i transessuali, i disabili, i pazzi. Questo per quanto riguarda il mondo umano, ma c’è di più.

Ma la “nuova” teologia della liberazione vuole anche liberare il mondo animale, vuole liberare l’intera natura. Abbiamo accennato alla svolta ecologista di questa “teologia”.

Quali sono le specie maltrattate, oppresse dall’uomo? Le varie specie animali, sottomesse col pretesto del cosiddetto “specismo”, la superiorità dell’uomo sugli animali.

Quindi si tratta di liberare anche l’intera terra, il globo terracqueo, inquinato da tecnologia, produzione e consumo. E la soluzione sarebbe, appunto, in teoria ridurre, ma in pratica cancellare, tecnologia, produzione e consumo.

È davvero un vasto campo di azione per gli agit-prop della nuova rivoluzione clericale.

Qui sono costretto a ridurre – sia per motivi di tempo, sia per non togliere il piacere di leggere l’analisi che Julio Loredo fa nel suo libro – quella che è la matrice teologica-filosofica, però c’è un punto importante, il quadro storico – ovviamente inventato – della teologia della liberazione.

L’errore radicale della teologia della liberazione consiste in una eretica concezione di Dio, della Rivelazione e della Chiesa, è stato accennato prima proprio da monsignor Livi.

Riassumo in slogan.

Secondo la teologia della liberazione:

  • Dio non è trascendente, ma immanente, dunque si evolve nel tempo e nello spazio (come, per altro, la natura);
  • la Divina Rivelazione si esprime non in una verità immutabile, ma nella mutevole storia umana, a cominciare – ecco lo storicismo di cui si parlava prima – dall’evento di un Cristo che è desacralizzato e secolarizzato (quindi non è più il Cristo dei vangeli);
  • la Chiesa si realizza non in una società perfetta divinamente fondata, ma nel “popolo di Dio” inteso come comunità, composta da poveri e ignoranti (quelli che abbiamo descritto prima), animata dall’amore fraterno e solidale; una comunità che però non tollera né dogmi, né leggi, né istituzioni.

Secondo la teologia della liberazione, questa è la giustificazione “storica” che in realtà è solo mitologica – un po’ come quella fatta da Rousseau per giustificare il contratto sociale –, proprio questa comunità informe fu la “Chiesa delle origini”, la mitica “Chiesa” delle origini. E, prima ancora, fu la comunità primitiva, composta, potremo dire, da “buoni selvaggi”.

Poi, secondo l’analisi pseudo-storica della teologia della liberazione, uno strano “peccato originale” s’impadronì di questa comunità idilliaca, pacifica e solidale, del tutto amorosa.

Questo “amore” s’indebolì, gli uomini cominciarono a sentirsi estranei, a temersi, dunque a difendersi, a cercare certezze e sicurezze, sottomettendo l’amore alla ragione, la passioni alla volontà, la spontaneità alla norma morale, la libertà alla legge giuridica, l’uguaglianza alle gerarchie religiose e politiche, infine sottomettendo la natura allo sfruttamento tecnologico-produttivo.

A questo scopo, secondo la teologia della liberazione, l’umanità costruì “strutture di separazione, di disuguaglianza e potere” – le chiamano così –. insomma, strutture di “peccato”.

Quali sono queste “strutture di peccato”? Per esempio la famiglia patriarcale, proprietà privata, classi sociali, esercito, magistratura, stato, etc. Ma potremo aggiungere clero.

La teologia della liberazione sostiene di avere una “sacra missione” – di essere mossa da un “sacro fuoco” –, la “sacra missione” di restaurare la comunità primitiva, la “Chiesa” delle origini, abbattendo quelle “strutture di peccato”.

Non solo. Abbattendo anche le leggi che le hanno imposte e i dogmi che le hanno giustificate.

A questo scopo, i teologi debbono liberare le classi oppresse dai loro pregiudizi, sia sociali che religiosi, togliendo loro ogni remora morale all’imporsi con la violenza e la menzogna. Le due caratteristiche del demonio di cui si parlava prima.

Sì, anche con la menzogna. Anzi, potremo dire, soprattutto con la menzogna. Com’è menzognera questa costruzione mitologica della Chiesa primitiva.

Per quei “teologi”, infatti, la Verità non è una rivelazione oggettiva, neanche una scoperta soggettiva, ma una mera creazione arbitraria. Ossia un’ideologia finalizzata ad una prassi che deve garantire un certo successo.

Per cui, che cosa è vero? È vero ciò che favorisce la sovversione ed è falso ciò che la ostacola.

Lenin, punto di riferimento dei liberazionisti.
Nicolaj Lenin, punto di riferimento dei “liberazionisti”.

Ma la stessa frase – voi direte – fu detta da Lenin. Appunto. “È vero ciò che favorisce il partito proletario – disse Lenin – è falso ciò che lo ostacola”.

Però, voi direte, c’è sempre il Magistero della Chiesa davanti agli occhi dei teologi della liberazione. Sì, ma il Magistero stesso della Chiesa è accettato da essi solo se conferma le aspirazioni e le esigenze popolari.

Il governo ecclesiale stesso è ammesso solo se collabora all’azione liberatrice del movimento filosofico e rivoluzionario.

Per tanto, il fatto che quell’analisi, la marxista vecchio stampo, sia stata recentemente messo da parte, dalla teologia della liberazione, non basta affatto a correggerne l’errata teoria – quella che ho descritto adesso – e la colpevole prassi.

Il fatto che oggi, al metodo della violenza, sembra preferirsi il “gioco libero e gioioso”, come dice il teologo spagnolo Eugenio Fernandez, o piuttosto l’influenza psicologica mass-mediatica – che fa parte di quella retorica di cui parlava prima mons. Livi –, non basta affatto a spegnere i timori di un espediente ingannevole e pericoloso.

Veniamo alla conclusione. Abbiamo già detto che la teologia della liberazione non è un problema geografico dell’America Latina, non è un problema storico, lontano nel tempo, o scongiurato, dal nostro punto di vista.

Abbiamo anche accennato che, anche recentemente, che ci sono stati appoggi, anche da autorità vaticane, ai nuovi esponenti della teologia della liberazione. O meglio, ai vecchi, perché si parla sempre di Gutierrez, di Leonardo Boff, etc.

Proprio questo dimostra che la teologia della liberazione non è un problema lontano nel tempo e nello spazio. È un prodotto poco latino-americano e molto europeo. Un po’ come il pensiero o la prassi marxista, che non è affatto nord-americano, ma è effettivamente europea.

Per noi europei tutto questo deve essere motivo di autocritica. E anche di timore. C’è un sospetto, difatti, che qui avanziamo.

Non sarà che, nel tentativo di superare la crisi del modello lib-lab (liberale laburista), dimostrata dal fallimento dell’Unione Europea, non sarà che la nostra intellighenzia progressista, anche cattolica, sta rilanciando la teologia della liberazione per illudere la popolazione preoccupata dell’incerto futuro?

Perché, appunto, ad un reale problema si potrebbe tentare di rispondere con una falsa soluzione. Un’altra, anche se imparentata con la vecchia teologia della liberazione.

Per evitare questi pericoli, libri, come quello di Loredo, sono utili sia come ammonimento sul passato, sia come incoraggiamento per l’avvenire.

Concludo con un piccolo aneddoto, che riguarda proprio Genova, che riguarda anche me, perché l’ho scoperto, diciamo così, io.

Quando si parla di poveri si ha spesso un’immagine ideologica, che è dettata sostanzialmente da tutta una propaganda mass-mediatica, e anche di tutta una certa sociologia, sociometria, antropologia, solidarismo vario, etc.

Ma che i poveri siano una cosa molto diversa, molto lontana dalle false aspirazioni, di cui parla la teologia della liberazione, lo fatto io stesso esperimento molte volte. Una volta proprio qui a Genova.

Anni fa, stavo facendo degli incontri, nella parte nord di Genova; stavo incontrando una famiglia, abbonata alla rivista a cui collaboro, una rivista in difesa della famiglia.

Incontrando questi genitori, notai che la loro casa era molto semplice. Lui era un portuale, lei una massaia. Eppure avevano quattro figli, più uno adottato, un bambino handicappato che loro avevano adottato perché potesse crescere in un ambiente familiare. Cattolicissimi, ovviamente.

Io chiesi loro una curiosità, anche per sapere i gusti dei nostri lettori. Chiesi: “Fra gli articoli apparsi negli ultimi anni nella nostra rivista, qual è quello che vi è piaciuto di più?”. Io, sinceramente, mi aspettavo mi dicessero, per esempio, la difesa della famiglia, i minori, etc…

Loro invece mi dissero, con mio grande stupore: “È bellissimo quell’articolo che voi avete fatto sugli splendori della monarchia francese antica”.

Effettivamente avevamo fatto un articolo, anche illustrato, in cui illustrava gli splendori della monarchia di Francia, proprio l’Ancienne Regime. Quindi prima della rivoluzione francese, come inizio dei guai per la civiltà europea.

L’articolo che più era piaciuto a questa famiglia semplicissima, povera, ma generosissima, era un articolo sugli splendori della cristianità antica.

Questo mi fece molto riflettere. E capì che, evidentemente – teologia della liberazione o no, solidarismo o no –, i veri poveri sono una cosa molto diversa. E non sono poi così citrulli come spesso si vuole dipingerli.

Grazie.

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