J.Ratzinger-Benedetto XVI Riflessioni sulla creazione e il peccato (4)

In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato  (*)

IV Peccato e redenzione

Ora il serpente era la più astuta di tutte le fiere della steppa che il Signore Dio aveva fatto, e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”». La donna rispose al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che sta nella parte interna del giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, per non morirne”». Ma il serpente disse alla donna: «Voi non morirete affatto! Anzi! Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, seducente per gli occhi e attraente per avere successo; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture. Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio, allorché passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo fuggì con la moglie dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Allora il Signore Dio chiamò l’uomo e gli domandò: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo rumore nel giardino, ed ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha indicato che eri nudo? Hai dunque mangiato dell’albero quale ti avevo comandato di non mangiarne?». Rispose l’uomo: «La donna che tu hai messo vicino a me, mi ha dato dell’albero e io ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Come hai fatto questo?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannato ed ho mangiato». […] E ad Adamo disse: «Perché hai mangiato dell’albero, circa il quale t’avevo comandato: “Non ne devi mangiare”: Maledetto sia il suolo per causa tua! Con affanno ne trarrai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, mentre tu dovrai mangiare le graminacee della campagna. Con il sudore della tua faccia mangerai pane, finché tornerai nel suolo, perché da esso sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere devi tornare!». […]

E il Signore Dio lo mandò via dal giardino di Eden, per lavorare il suolo donde era stato tratto. Scacciò l’uomo, e dinanzi al giardino di Eden fece dimorare i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire l’accesso all’albero della vita (Gn.3,1-13; 17- 19; 23-24).

Sul tema del peccato (1)

Al termine del Sinodo dei vescovi dedicato al tema della famiglia, trovandoci a riflettere in un gruppo ristretto sui possibili temi del Sinodo successivo, la nostra attenzione fu richiamata dalle parole con le quali Gesù, all’inizio del Vangelo di Marco, riassume l’intero suo messaggio: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto: convertitevi e credete al Vangelo». Allora uno dei vescovi si fece pensieroso e disse a proposito di tali parole: «Ho l’impressione che da tempo abbiamo addirittura dimezzato il messaggio di Gesù qui riassunto». Parliamo tanto e facilmente di evangelizzazione e di lieta novella, per rendere il cristianesimo attraente agli uomini. Ma quasi nessuno, a giudizio di quel vescovo, ha ancora il coraggio di proclamare il messaggio profetico: convertitevi! Quasi nessuno osa più ripetere al nostro tempo questo invito elementare del Vangelo, con cui il Signore intende dirci che ognuno deve riconoscersi personalmente peccatore e colpevole, fare penitenza e divenire un altro. E aggiunse: «L’odierna predicazione cristiana mi sembra la registrazione di una sinfonia, cui è stata tagliata la parte iniziale con il primo tema fondamentale, sicché tutta la sinfonia risulta amputata e il suo andamento incomprensibile».

Con queste parole il vescovo aveva effettivamente toccato un punto dolente dell’attuale situazione storico-culturale. Il tema del peccato è uno dei temi su cui oggi regna un perfetto silenzio. La predicazione religiosa cerca di evitarlo accuratamente.

Il teatro e la cinematografia utilizzano il termine in senso ironico o come tema di intrattenimento. La sociologia e la psicologia cercano di smascherarlo come un’illusione o un complesso.

Persino il diritto tenta di fare sempre più a meno della nozione di colpa e preferisce servirsi di una terminologia sociologica, che riduce l’idea del bene e del male a un dato statistico e si limita a distinguere tra comportamento normale e comportamento deviante. Ciò implica che le proporzioni statistiche possono anche capovolgersi: quel che oggi è la deviazione può un giorno diventare la regola, anzi, forse bisogna addirittura tendere a fare della deviazione la norma. Riducendo così tutto alla quantità, la nozione di moralità scompare. Ciò è logico, se per l’uomo non esiste alcuna misura a lui preesistente, una misura non escogitata da noi, bensì derivante dalla bontà intrinseca del creato.

In questo modo siamo già arrivati al nucleo vero e proprio di questo procedimento. L’uomo odierno non conosce alcuna misura, non vuole riconoscerne alcuna, perché vede in essa una minaccia alla propria libertà. Al riguardo si potrebbero citare le parole dell’ebrea francese Simone Weil che una volta disse: «Facciamo l’esperienza del bene solo quando lo compiamo […]. Quando invece facciamo il male, non lo conosciamo, perché il male aborre la luce» (2). Riconosciamo il bene solo se lo facciamo. Riconosciamo il male solo se lo evitiamo.

Così il tema del peccato è diventato un tema rimosso, ma dall’altro lato vediamo che esso è appunto solo rimosso, mentre in realtà è rimasto. Indicativa al riguardo mi sembra l’aggressività sempre pronta a scattare che sperimentiamo in maniera crescente nella nostra società, la prontezza impaziente a denigrare l’altro, a riconoscerlo colpevole della propria sventura, a bollare d’infamia la società e a voler cambiare con la violenza il mondo. Mi sembra che tutto questo possa essere capito solo come espressione della verità rimossa della colpa, di cui l’uomo non vuole prendere atto. Ma poiché essa esiste, ecco che egli si vede costretto ad attaccarla e calpestarla.

E poiché l’uomo può sì rimuovere la verità ma non eliminarla ed egli si ammala per la verità rimossa, ecco allora che uno dei compiti dello Spirito Santo consiste nel convincere «il mondo quanto al peccato» (Gv.16,8). Non si tratta di guastare la vita agli uomini, di comprimerli con divieti e negazioni. Si tratta semplicemente di guidarli alla verità e così guarirli. L’uomo può divenire sano solo se diviene vero, se smette di rimuovere la verità e di calpestarla.

Il terzo capitolo del libro della Genesi, che sta alla base della nostra meditazione, è un frammento di questa azione dello Spirito Santo che permea la storia. Egli convince il mondo e noi di peccato non per umiliarci, ma per renderci veri e sani, per «redimerci».

_09 Dio Creò Cielo e terra Ratzinger 8Limiti e libertà dell’uomo

Questo testo ci parla di una verità che oltrepassa la nostra intelligenza soprattutto con due grandi immagini: quella del giardino, che include l’immagine dell’albero, e quella del serpente. Il giardino è l’immagine di un mondo che non è una foresta selvaggia, un pericolo e una minaccia per l’uomo, bensì una patria che lo protegge, lo nutre e lo sorregge. Esso è l’espressione di un mondo che porta i tratti dello Spirito, di un mondo che è cresciuto conforme alla volontà del Creatore.

In esso si intrecciano perciò due movimenti. Anzitutto la volontà che l’uomo non saccheggi il mondo, non ne faccia una proprietà privata indipendente dalla volontà del Dio creatore, bensì lo riconosca come dono del Creatore e lo coltivi secondo le finalità per cui è creato. In secondo luogo il fatto che il mondo, considerato in unità con il suo Signore, non è una minaccia, bensì un dono, un regalo, un segno della bontà salvifica e unitiva di Dio.

La figura del serpente è desunta dai culti orientali della fecondità. Esso rappresenta quindi anzitutto le religioni della fecondità, che furono per secoli la vera tentazione d’Israele, il pericolo di infrangere l’alleanza e di immergersi nella generale storia religiosa dell’epoca. Attraverso i culti della fecondità il serpente dice all’uomo: Non attenerti a questo Dio lontano, che non ha nulla da darti; non attenerti a questa alleanza, che è così lontana e ti pone tanti limiti; immergiti nella corrente della vita, nella sua ebbrezza e nella sua estasi, così parteciperai personalmente alla sua realtà e alla sua immortalità (3).

Nel periodo in cui il racconto del paradiso terrestre prese la sua definitiva forma letteraria, grande era per Israele la tentazione di cedere alla vicinanza di quelle religioni che affascinavano i sensi e lo spirito, mentre il Dio delle promesse e della creazione, che appariva tanto lontano, correva il rischio di svanire ed essere dimenticato. Sullo sfondo della storia come la conosciamo, per esempio, dai racconti del profeta Elia si può comprendere molto meglio questo testo: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, seducente per gli occhi e attraente per aver saggezza» (Gn.3,6). In quella religiosità il serpente era il simbolo dell’astuzia che domina il mondo e il simbolo della fecondità, mediante il quale l’uomo si immerge nella corrente divina della vita e si sa per un istante fuso con la sua potenza divina. Così il serpente diventa anche il simbolo dell’attrazione che quelle religioni esercitavano su Israele a confronto della realtà misteriosa del Dio dell’alleanza.

Alla luce della tentazione d’Israele, la Sacra Scrittura presenta la tentazione di Adamo come l’essenza della tentazione e del peccato di tutti i tempi. La tentazione non comincia con la negazione di Dio, con la caduta nell’ateismo dichiarato. Il serpente non nega Dio; comincia piuttosto con una domanda apparentemente del tutto ragionevole, che però contiene una insinuazione, trascina l’uomo in tale insinuazione e lo fa passare dalla fiducia alla diffidenza: «È vero che non dovete mangiare di nessun albero del giardino?».

All’inizio non c’è la negazione di Dio, bensì il sospetto sulla sua alleanza, sulla comunione di fede, di preghiera e dei comandamenti, in cui viviamo in virtù del Dio dell’alleanza. Quando cominciamo a sospettare dell’alleanza, infatti, scopriamo tante intuizioni che suscitano la diffidenza, sollecitano la libertà e denunciano così l’obbedienza dell’alleanza come una catena che ci tiene lontani dalle autentiche promesse della vita. È così facile convincere l’uomo che questa alleanza non è un dono, bensì l’espressione di un’invidia nei suoi confronti, che l’alleanza lo priva della sua libertà e delle cose più preziose della vita. Tale sospetto sull’alleanza spinge poi l’uomo a fabbricarsi da solo il suo mondo. In altre parole: esso propone all’uomo di non accettare i limiti del proprio essere, di non considerare i limiti del bene e del male, i limiti della moralità in generale, bensì di potersene e doversene semplicemente liberare ignorandoli (4).

Questo sospetto sull’alleanza e il connesso invito all’uomo a liberarsi dei propri limiti percorrono in molte varianti la storia e caratterizzano anche il panorama del nostro tempo (5).

Menziono solo due varianti: quella estetica e quella tecnica. Cominciamo con la variante estetica. Essa inizia con la domanda: che cosa può propriamente permettersi l’arte? La risposta sembra quanto mai semplice: essa può permettersi tutto quel che riesce a creare «artisticamente». Essa può avere una sola regola: sé stessa, la capacità artistica, così come esiste una sola mancanza contro di essa: l’errore artistico, l’incapacità artistica. Di conseguenza non esistono più libri buoni e cattivi, bensì solo libri scritti bene o male, film fatti bene o male ecc. Qui, a quanto pare, non contano il bene, la moralità, bensì solo la capacità, il potere: arte deriva infatti dal latino «ars», «abilità», «capacità», «mestiere»; tutto il resto è violenza. Sembra così chiaro! Ma se vogliamo essere coerenti, ciò significa che qui esiste uno spazio in cui l’uomo può ergersi al di sopra dei propri limiti: quando egli fa dell’arte, non ha limiti; può fare quanto è in grado di fare. Ciò significa poi che misura dell’uomo è solo il suo potere, non il suo essere, non il bene e il male. Se è così, ciò che riesce a fare gli è anche consentito.

Quel che significa lo vediamo oggi molto più chiaramente considerando la seconda variante, quella tecnica; si tratta comunque di una variante della stessa idea e della stessa realtà, poiché anche il termine greco «techne» significa «arte», «abilità», «capacità», «destrezza». Perciò ci si domanda anche qui: che cosa può permettersi la tecnica? Per lungo tempo la risposta è stata molto chiara: essa può permettersi tutto quello di cui è capace; l’unico errore che essa conosce è l’errore tecnico. Robert Oppenheimer racconta che quando si prospettò la possibilità della bomba atomica, essa fu per i fisici atomici il technically sweet, l’attrattiva, il fascino tecnico, come un magnete che li attirava a volere, e fare, il tecnicamente possibile. Hòss, l’ultimo co-mandante di Auschwitz, ha affermato nel suo diario che quel campo di sterminio fu uno straordinario capolavoro di tecnica. Era stato il piano del ministero a valutare l’ampiezza dei forni crematori e la loro potenza di fuoco, accordandole in modo da ottenere un funzionamento sincronizzato e ininterrotto: ciò costituiva un programma così affascinante e coerente da giustificarsi da solo (6).

E potremmo allungare la lista di questi esempi. Ma tutte le progettazioni dell’orrore, alla cui moltiplicazione incessante assistiamo oggi sbalorditi e in fondo impotenti, hanno questo unico fondamento comune. Eppure dalle conseguenze di questo principio dovremmo oggi finalmente riconoscere che si tratta di un inganno di Satana, il quale vuole distruggere l’uomo e il mondo. Dovremmo capire che l’uomo non può mai rifugiarsi in uno spazio fatto solo di arte e di tecnica. In tutto quel che fa, fa sempre sé stesso. Perciò egli stesso, la creazione, il bene e il male di questa sono sempre presenti come sua misura, e quando egli rinnega tale misura, inganna sé stesso. Non si rende libero, ma si schiera contro la verità, il che significa che distrugge sé stesso e il mondo.

Questa è pertanto la realtà prima e fondamentale che emerge dalla storia di Adamo, sull’essenza della colpa umana e quindi su tutta la nostra esistenza. Si getta il sospetto sull’ordinamento dell’alleanza, sul Dio vicino dell’alleanza e, con lui, sui limiti del bene e del male, sulla misura intrinseca dell’essere umano e sulla creaturalità.

Su questa base possiamo addirittura dire: il contenuto più profondo del peccato sta nel fatto che l’uomo nega la propria creaturalità, perché non vuole accettare la misura e i limiti in essa presenti. Egli non vuole essere una creatura, non vuole essere misurato, non vuole essere dipendente. Interpreta la propria dipendenza dall’amore creatore di Dio come eteronomia. Ma l’eteronomia è una schiavitù, e dalla schiavitù bisogna liberarsi. Così l’uomo vuole diventare Dio stesso, e dove tenta di farlo tutto cambia. Cambia il rapporto dell’uomo con sé stesso, cambia il suo rapporto con l’altro: per colui che vorrebbe essere Dio, anche l’altro diventa il limite, il rivale, la minaccia. Il rapporto con lui diventa un’incriminazione e una lotta reciproca, come illustra magistralmente il racconto del paradiso terrestre quando descrive il dialogo tra Dio, Adamo e Eva (Gn.3,8-13).

Infine cambia in maniera tale il rapporto con il mondo da divenire uno sfruttamento e un vero saccheggio. L’uomo che considera la dipendenza dall’amore supremo come una schiavitù e nega la propria verità – la propria creaturalità – non diventa libero, ma distrugge la verità e l’amore. Non diventa Dio, non lo può, ma la sua caricatura, uno pseudodio, schiavo del proprio potere che lo distrugge.

Il peccato è, nella sua essenza, – ora lo vediamo con chiarezza – rinuncia alla verità. Ora comprendiamo anche che cosa significano queste parole misteriose: «Se ne mangerete [cioè se negherete i vostri limiti, se rifiuterete di avere una misura], morirete» (cfr.Gn.3,3). Esse significano: l’uomo che non riconosce i limiti del bene e del male, la misura intrinseca del creato, rinnega la verità. Egli vive nella menzogna e nell’irrealtà. La sua vita diventa un’apparenza e cade sotto il dominio della morte. Noi che ci troviamo in larga misura in un simile mondo di menzogne e di non vita sappiamo quanto potente sia questo dominio della morte, che fa della vita stessa una negazione e un essere morto.

_09 Dio Creò Cielo e terra Ratzinger 7Il peccato originale

Nel racconto della Genesi, che stiamo considerando, a questa descrizione dell’essenza del peccato si aggiunge un altro tratto fondamentale. Il peccato non è descritto in termini generali come una possibilità astratta, bensì come un dato di fatto, come il peccato di qualcuno, come il peccato di Adamo, che sta all’inizio dell’umanità e da cui si diparte una storia di peccato. Il racconto ci dice: il peccato genera peccato, e tutti i peccati della storia sono così collegati tra di loro. Per indicare questa situazione la teologia ha coniato l’espressione «peccato originale», un’espressione sicuramente fraintendibile e imprecisa.

Qual è il suo vero significato? Oggi nulla ci appare più estraneo e assurdo dell’affermazione di un peccato originale, perché secondo la nostra concezione la colpa può solo e sempre essere una realtà personalissima, perché Dio non comanda un campo di concentramento in cui regna la corresponsabilità, bensì è il Dio libero dell’amore che chiama ognuno per nome. Che significa dunque «peccato originale» nella sua giusta accezione?

Per rispondere non si richiede di meno che imparare nuovamente a comprendere meglio l’uomo. Dobbiamo di nuovo renderci conto che nessun uomo è chiuso in sé stesso, che nessuno può vivere solo di sé e per sé. Riceviamo la nostra vita dall’esterno, dall’altro, da chi non è noi stessi eppure ci appartiene, e la riceviamo non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. L’uomo ha il proprio sé non solo in sé stesso, bensì anche al di fuori di sé: vive in coloro che ama, in coloro di cui vive e per cui esiste. L’uomo è relazione e ha la propria vita e sé stesso solo nel modo della relazione. Da solo io non sono affatto me stesso, ma lo sono soltanto nel tu e mediante il tu. Essere veramente uomo significa stare nella relazione dell’amore, del da e del per.

Invece il peccato significa turbare o distruggere la relazione. Il peccato è negazione della relazione, perché vuol fare dell’uomo Dio. Il peccato è perdita della relazione, turbamento della relazione e per questo non è a sua volta unicamente rinchiuso nel singolo io. Se turbo la relazione, questo evento – il peccato – inficia anche gli altri poli della relazione, inficia il tutto. Per questo il peccato significa sempre peccaminosità che colpisce anche l’altro, trasforma e turba il mondo.

Data questa situazione, possiamo dire: se la struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra da allora in poi in un mondo caratterizzato dal turbamento delle relazioni. Con il fatto stesso di essere uomo, che è cosa buona, egli viene a trovarsi contemporaneamente in un mondo turbato dal peccato. Ognuno di noi finisce in un intreccio in cui le relazioni sono falsate. Ognuno è perciò turbato fin dall’inizio nelle proprie relazioni, non le riceve così come esse dovrebbero essere.

Il peccato si estende fino a lui ed egli ne diviene compartecipe. Questo ci dice anche che l’uomo non può redimersi da solo. Ciò che vi è di errato nella sua esistenza consiste appunto nel fatto che egli vuole soltanto sé stesso. Possiamo essere redenti, divenire cioè liberi e veri, solo se smettiamo di voler essere Dio, solo se rinunciamo all’illusione dell’autonomia e dell’autarchia. Possiamo essere redenti, cioè diveniamo noi stessi solo se accogliamo e accettiamo le giuste relazioni.

Ma le nostre relazioni interumane dipendono dal fatto che la misura della creaturalità sia in ordine da tutte le parti, ma precisamente qui risiede il turbamento. Dato che le relazioni creaturali sono turbate, solo il Creatore può essere il nostro Redentore. Possiamo essere redenti solo se colui da cui ci siamo allontanati torna di nuovo a noi e ci porge la mano. Solo quando si è amati si è redenti, e solo l’amore di Dio può purificare l’amore umano disturbato e restaurare una struttura di relazioni alienata fin dal suo fondamento.

La risposta del Nuovo Testamento

Così il racconto veterotestamentario sull’inizio dell’uomo rimanda, pieno di interrogativi e di speranza, al di là di sé, verso colui in cui Dio ha sostenuto la nostra dismisura, è entrato nella nostra misura, per riportarci nuovamente a noi stessi. La risposta neotestamentaria al racconto della caduta nel peccato è sintetizzata nella maniera più breve e incisiva nell’inno prepaolino, che Paolo ha inserito nel capitolo secondo della lettera ai Filippesi. Giustamente perciò la liturgia della Chiesa ha collocato questo testo al centro della liturgia della Settimana Santa, del periodo più sacro dell’anno liturgico. «Coltivate in voi questi sentimenti che furono anche in Cristo Gesù, il quale, essendo per natura Dio, non stimò un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma annichilò sé stesso prendendo natura di servo, diventando simile agli uomini: ed essendo quale uomo, si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio lo ha sopraesaltato ed insignito di quel nome che è superiore a ogni nome, affinché, nel nome di Gesù, si pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, dei terrestri e dei sotterranei e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,5-11; cfr. Is 45,23).

Non possiamo qui considerare in maniera dettagliata questo testo straordinariamente ricco e profondo. Limitiamoci alla sua connessione con la storia della caduta nel peccato, cui chiaramente allude, anche se sembra aver avuto sotto gli occhi una versione un po’ diversa da quella riportata in Genesi 3 (cfr. ad esempio Gb 15,8) (7).

Gesù Cristo percorre in senso inverso il cammino di Adamo. Diversamente da questi egli è veramente «come Dio». Ma questo essere come Dio, questa uguaglianza con Dio, è essere Figlio e quindi totalmente relazione. «Il Figlio non fa nulla da sé stesso.» Per questo colui che è realmente uguale a Dio non si aggrappa alla propria autonomia, alla illimitatezza del proprio potere e volere. Egli percorre la via inversa: diventa il totalmente dipendente, diventa il servo. Percorrendo non la via del potere, ma la via dell’amore egli può ora discendere fin nella menzogna di Adamo, fin nella morte e stabilire là la verità, dare la vita.

Così Cristo diventa il nuovo Adamo, con cui ha inizio la nuova umanità. Egli, che è radicalmente relazione e rapporto – il Figlio -, rimette in ordine le relazioni. Le sue braccia spalancate sono la relazione aperta, che sta sempre a nostra disposizione. La croce, il luogo della sua obbedienza, diventa così il vero albero della vita. Cristo diventa la figura opposta al serpente, come Giovanni afferma nel suo Vangelo (Gv.3,14). Da questo albero non discende la parola della seduzione, bensì la parola dell’amore redentore, la parola dell’obbedienza, in cui Dio stesso è divenuto obbediente e ci offre la sua obbedienza come spazio della libertà. La croce è l’albero della vita divenuto nuovamente accessibile. Con la passione Cristo ha messo via la spada fiammeggiante, ha attraversato il fuoco ed eretto la croce come il vero asse del mondo, che permette a questo di stare nuovamente in piedi.

Per questo l’Eucaristia, quale presenza della croce, è l’albero permanente della vita, che sta in ogni tempo in mezzo a noi e ci invita a ricevere il frutto della vita vera.

Questo implica che l’Eucaristia non può mai essere solamente una specie di pratica della comunione fraterna. Riceverla, mangiare dell’albero della vita, significa invece ricevere il Signore crocifisso, la sua forma di vita, la sua obbedienza, il suo sì, significa accettare la misura della nostra creaturalità. Significa accogliere l’amore di Dio, che è la nostra verità, accogliere la nostra dipendenza da Dio, che non significa per noi eteronomia, così come la figliolanza non significa eteronomia per il Figlio: al contrario, proprio questa «dipendenza» è libertà, perché è verità e amore.

Possa questo tempo quaresimale aiutarci ad uscire dalle nostre negazioni, dal sospetto dell’alleanza con Dio, dalla nostra dismisura, dalla menzogna della nostra «autodeterminazione», per avviarci verso l’albero della vita, che è la nostra misura e la nostra speranza. Possa far sì che rimaniamo di nuovo colpiti dall’intera frase di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto: convertitevi e credete al Vangelo» (Me 1,15). Amen.

____________

NOTE

(*) tratto da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI – In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato –  Lindau, Torino 2006

Note al IV capitolo

1)‘Debbo alcuni suggerimenti importanti per questa predica a J. Pieper, Uber den Begriffder Stinde, Miinchen 1977.

2) S. Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002; Pieper, Uber den Begriff cit., p. 69. Pieper ricorda anche le parole di Goethe orientate nella medesima direzione: «Noi non riusciamo a vedere un errore fintanto che non ce ne siamo liberati» (“Goethe, Dichtung und Wahrheit, p. 8).

3) Sul retroterra storico-religioso della figura del serpente, cfr. J. Scharbert, Genesis 1-11, Wùrzburg 1983, p. 55; ampia (anche se non sempre convincente) la trattazione di C. Westermann, Genesis, vol. I, pp. 323-328; in G. von Rad, Des erste Buch Mose (ATD 2-4), Gòttingen 1964, non si approfondisce il significato del serpente, però si illustra molto bene il nucleo della tentazione come estensione dell’essere umano al di là dei limiti posti da Dio nella creazione (p. 72).

4) Cfr. von Rad, Des erste Buch Mose cit., pp. 70-74; riflessioni affini, più brevi, in J. Auer, Die Welt – Gottes Schópfung, Regensburg 1975, p. 527 sgg.

5) Queste considerazioni sono basate sulle riflessioni contenute in Pieper, Uber den Begriff cit., pp. 27-47, a proposito del concetto di peccato.

6) I due esempi sono desunti dal libro di Pieper appena citato, pp. 38,41.

7) Su questa variante della tradizione della caduta nel peccato e sulle sue varie forme bibliche, nonché sul suo sfondo non israelitico, succinte informazioni sono contenute in A. Weiser, Das Buch Hiob, Gòttingen 19634, p. 113 sgg.

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INDICE

Premessa di Joseph Ratzinger – p. 7

I. Dio creatore – p. 13

La distinzione tra forma e contenuto del racconto della creazione – p. 17

L’unità della Bibbia come criterio di interpretazione – p. 21

Il criterio cristologico – p. 30

II. Il senso dei racconti biblici della creazione – p. 37

La ragionevolezza della fede nella creazione – p. 39

Il significato permanente degli elementi simbolici del testo – p. 43

Creazione e culto – p. 45

La struttura sabbatica della creazione – p. 50

Sfruttamento della terra? – p. 52

III. La creazione dell’uomo – p. 61

L’uomo tratto dalla terra – p. 62

Immagine di Dio – p. 65

Creazione ed evoluzione – p. 71

IV. Peccato e redenzione – p. 83

Sul tema del peccato – p. 85

Limiti e libertà dell’uomo – p. 89

Il peccato originale – p. 97

La risposta del Nuovo Testamento – p. 101

Conseguenze della fede nella creazione – p. 107

 

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