Pater Noster: non un problema di traduzione ma di comprensione e preghiera

Lo spiega bene anche san Paolo: «Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1Cor.10,12-13). Inoltre, il messaggio che si è fatto passare è che la Chiesa Cattolica “ha sbagliato” per duemila anni sulla traduzione. La conseguenza di questa scelta è apocalittica! Se la Chiesa e la Tradizione ha sbagliato su questa traduzione, chi ci dice che non abbia sbagliato nel resto?

Risuonano come una eco assordante i tentativi, antichi e nuovi, di voler cambiare le parole finali del Padre Nostro e diverse sono state le reazioni in difesa della frase scelta dalla Tradizione della Chiesa, vedi qui il domenicano Padre Riccardo Barile, e vedi qui per una comprensione più tecnica della traduzione.

TRADIZIONE DELLA CHIESA

Sì, purtroppo è chiaro il disegno avviato da Lutero e dal protestantesimo di voler modificare la traduzione per motivazioni legate alla sofferenza dell’uomo, alla sua conversione, alla prova che deve affrontare se vuole diventare Santo e, di conseguenza, alla Croce. Infatti così sottolinea Padre Riccardo Barile:

“Il termine usato nel Padre nostro sia in Mt 6,13 sia in Lc 11,4, è l’aoristo attivo del verbo “eis-fero” (εσενέγκς” – eisenekes), che alla lettera significa “portare verso/dentro” e quindi introdurre/indurre. Sono interessanti gli usi – pochi – dello stesso verbo nel Nuovo Testamento con il senso inequivocabile di portare dentro.”

L’errore che la maggior parte della gente tende a portare avanti è quel giustificare il cambiamento della frase perché, dicono: “non è Dio che ci induce alla tentazione”. Bene! Uno si ferma un attimo e chiede con coscienza: ” ma quando mai la Chiesa ha detto il contrario? MA LO LEGGETE IL CATECHISMO? Lo avete mai letto per davvero?”

Da sempre, la Tradizione della Chiesa, attraverso i Padri, i Dottori e santi esegeti, ha cercato di comprendere e trasmettere il senso della frase e non di tradurla “secondo la personale comprensione”. Quanto sta accadendo da ieri con Lutero, ed oggi con il Modernismo che regna nella Chiesa, è un tentativo squallido e perverso di voler andare a toccare il “senso delle Scritture” pur di non fare la fatica di studiare cosa ci dicono quelle parole, e in quale modo viverle nella nostra quotidianità.

Discutere sulle varie TRADUZIONI ha poco senso perché gli stessi Padri della Chiesa compresero da subito la difficoltà della comprensione della frase, e furono ispirati quando compresero che bisognava lavorare sul suo significato e non già sulla traduzione. Se si studiasse la storia dell’esegesi biblica si comprenderebbe subito che TUTTI GLI ERETICI hanno sempre tentato di modificare l’interpretazione usata dalla Chiesa Cattolica, sempre…. e non c’è una sola eccezione. Bisognerebbe perciò concentrarsi sulla triste realtà che a dar fastidio non è una traduzione, ma LA COMPRENSIONE DOTTRINALE di una traduzione scelta dalla Chiesa.

Dice san Paolo: “Tutto mi è lecito, ma non tutto giova….” (1Cor.6,12). Se i commenti e le dispute sulla traduzione al Padre nostro sono innumerevoli, non è stata invece rivolta la dovuta attenzione all’impatto che la “preghiera di Gesù”, tramandata dalla Tradizione della Chiesa, ha avuto sulla vita dei Santi, per il suo autentico significato. Non possiamo sottovalutare che da ben duemila anni, tutta la Chiesa sparsa nel mondo, prega e canta all’unisono, con un cuor solo e una anima sola, la medesima versione del Pater Noster, concludendo con il “così sia”.

Tanto per fare un esempio, leggiamo riguardo ad Abramo: «Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”» (Gn.22,1). Forse che Dio inducesse Abramo alla tentazione? La risposta ce la offre Giacomo: «nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male»(Gc.1,13), né Abramo ha mai pensato che Dio lo volesse portare alla tentazione, ma piuttosto, attraverso QUELLA PROVA, egli dimostrerà a Dio la sua Fede in Lui, e Dio gli dimostrerà la Sua fedeltà e la Sua promessa. Su questa lunghezza d’onda si deve leggere il libro di Giobbe e la frase del Pater Noster.

Dal 2008 invece, complice la scelta della CEI – per l’Italia – di rifare la traduzione biblica senza tener conto del Catechismo della Chiesa Cattolica, leggi qui, e del desiderio di Benedetto XVI a “non modificare” il finale del Padre Nostro, assistiamo oggi ad una vera Babele della Preghiera più bella che Gesù stesso ci ha insegnato. Benedetto XVI, nel Gesù di Nazaret, vedi qui, ha tentato di spiegare come la frase tradotta dalla Chiesa abbia il suo “senso delle Scritture” e, da Pontefice regnante, impedì che la nuova traduzione della CEI venisse usata durante la Messa, in modo tale che tutto il “popolo di Dio” potesse continuare a pregare INSIEME CON LE MEDESIME PAROLE DELLA TRADIZIONE.

Da qualche anno assistiamo ad un vero ammutinamento perchè, la nuova traduzione, è stata ora imposta e chi assiste alla Messa sentirà, al termine della Preghiera di Gesù, la vera Babele di una frase conclusiva non più comprensibile, dove ognuno dice e ripete a pappagallo una frase che non solo continua a non comprendere, ma diversa a seconda di come la ripete il fedele. Non lo diciamo per sentito dire, alla Messa il finale del Padre Nostro che ne scaturisce è il conseguente coro: «non abbandonarci alla tentazione (ma liberaci dal male)», la nuova versione CEI; con quanti continuano nella tradizione «non indurci in tentazione (ma liberaci dal male)», imponendo a questi ultimi l’obbligo di doversi adeguare alle mode dei tempi, “stanchi di udire la solita dottrina” (2Tim.4,1-5).

Inoltre, il messaggio che si fa passare è che la Chiesa Cattolica “ha sbagliato” per duemila anni sulla traduzione. La conseguenza di questa scelta è apocalittica! Se la Chiesa e la Tradizione ha sbagliato su questa traduzione, chi ci dice che non abbia sbagliato nel resto?

A dirlo, per altro, fu un articolo di Famiglia Cristiana del 2013 che affermava quanto segue: “Quanto alla terza e ultima versione della frase Padre nostroaiutaci nella tentazione», oppure «non abbandonarci alla tentazione»), si riconduce ad un lettura non tanto letterale quanto interpretativa della preghiera del Signore, per venire incontro ad una lettura più adatta ai nostri tempi…

E dunque una nuova traduzione PIU’ ADATTA AI NOSTRI TEMPI? E da quando in qua, la Sacra Scrittura la si interpreta a seconda delle mode e dei tempi? E’ evidente, allora, che il cambiamento riguarda quel “prurito di cose nuove… stanchi di udire la solita dottrina” (2Tim.4,1-5). Il Canone della Scrittura fu chiuso una volta per tutte dalla Chiesa Cattolica e da allora, più che alla traduzione si è dato spazio alla comprensione del senso delle Scritture, compito affidato da Cristo alla Sua Chiesa.

Quanto sta accadendo fu già denunciato da Leone XIII prima, da Pio XII e da Benedetto XVI poi come “archeologismo esegetico della Scrittura” nel Documento Verbum Domini, dove leggiamo: “San Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore… Un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Così san Girolamo si rivolgeva ad un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono».” (n.30)

Santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, sul Padre Nostro insegnava alle discepole: «Non pensavo nemmeno che questa preghiera potesse racchiudere così grandi segreti. Eppure contiene tutta la vita spirituale, dal suo punto di partenza fino a quello in cui l’anima si immerge in Dio, e Dio l’abbevera in abbondanza di quell’acqua viva che si trova soltanto al termine del cammino…. Tra coloro che recitano come si deve il Padre nostro, sono così pochi quelli che si lasciano ingannare dal demonio…».

Quel “non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Male”: è il punto di partenza è l’affrancamento da ogni schiavitù di male e il superamento delle tentazioni. Superata la prova allora diventa effettiva quella supplica che Gesù ci ha insegnato nel suo Getsemani: “Sia fatta la tua volontà“. Il contenuto della Preghiera del Padre Nostro, che Gesù stesso ha voluto insegnarci e che, molto probabilmente era la Sua Preghiera al Padre, reca in se stessa una profonda teologia celeste atta proprio ad evitare che l’uomo, con il passare dei tempi, vi introducesse un’altro pensiero.

Infatti, l’essenza di questa Preghiera contiene piuttosto LA VOLONTA’ DIVINA, la volontà del Padre al quale ricorriamo, come spiegherà bene san Tommaso d’Aquino nel suo commento a questa Preghiera: bisogna rilevare che nella Preghiera del Signore sono contenute tutte le cose da desiderare e tutte quelle da fuggire. Benedire il Suo Nome, attendere e desiderare il Suo regno, che si compia la Sua volontà, che non ci faccia mancare il pane sia quello in sostentamento del corpo, quanto maggiormente il Pane della vita, che ci perdoni come noi perdoniamo agli altri, e che ci sostenga NELLE PROVE CHE EGLI VORRA’ MANDARCI, liberandoci dal male, dal demone, dal fallimento, dalla disperazione, dal suicidio… le cui espressioni non indicano un puro desiderio condizionato alla fallibile volontà dell’uomo, ma contengono un’affermazione di fede nella quale si riflettono gli immutabili disegni divini.. e conclude san Tommaso d’Aquino: “Il terzo bene è costituito dalla giustizia e dalle opere buone, e a questo bene sono contrarie le tentazioni, perché esse ci impediscono di fare il bene. Per rimuovere questo male chiediamo: “non ci indurre in tentazione”. Il quarto bene sono le cose necessarie alla vita, alle quali si oppongono le avversità e le tribolazioni. Per rimuoverle chiediamo: liberaci dal male. Amen”.

Del resto Gesù stesso afferma che: “senza di me non potete far nulla” (Gv.15,1-8). Non c’è comunque nessun errore da correggere alla scelta della Tradizione della Chiesa, tutte queste traduzioni sono oggi ulteriormente incomplete e frutti del tempo caotico in cui ci si vuole esprimere. Tutto sta a vedere che cosa intendiamo con la parola «tentazione», o per meglio dire «prova», tutto il resto è solo frutto della grave apostasia che stiamo vivendo con la quale si pretenderebbe di piegare la Parola di Dio attraverso traduzioni sempre più “umanizzate”, calate all’interno della comprensione umana, mentre dovrebbe accadere il contrario: la Parola di Dio è perfetta ed è l’uomo di ogni tempo a  dover fare lo sforzo di comprenderla, e non piuttosto di modificarla per renderla più comprensibile.

Infine deve essere insegnato, visto che oggi si dispensa con tanto buonismo e faciloneria la misericordia di Dio, che è proprio quella frase del Pater Noster che spiega l’intervento misericordioso di Dio vero le nostre debolezze. Dopo la Preghiera del Padre Nostro, infatti, così prega il Sacerdote:

Libera nos, quaesumus, Domine, ab omnibus malis, da propitius pacem in diebus nostris, ut, ope misericordiae tuae adiuti, et a peccato simus semper liberi et ab omni perturbatione securi: exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi.

Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni; e con l’aiuto della tua misericordia, vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento, nell’attesa che si compia la beata speranza, e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo.

Tuo é il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli.

Possiamo offrire un consiglio ai nostri lettori:

impariamo il Pater Noster in latino, la lingua di san Girolamo e dei nostri Padri, e non lasciamoci cadere nella tentazione di cambiare la Preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato e che i Santi hanno recitato anche per noi, oggi, e per i Cristiani di domani. Leggiamo nella prima Lettera di san Paolo ai Corinti: “Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (1Cor.10,12-13). Quando preghiamo: “Liberaci dal male (o dal maligno)” dobbiamo renderci conto a quale male andiamo incontro quando ci imbattiamo in satana. Quest’ultima invocazione al Padre nostro è seria e grave: chiediamo al Padre di essere liberati dal potere delle tenebre, dalla dannazione, dalla morte eterna. Tutti, prima o poi, avremo il nostro Getsemani, la nostra parte di tentazioni, le prove da superare e di pericoli mortali. La vita è una guerra continua e per salvarci dobbiamo combattere e vincere. Noi siamo tanto deboli e i nemici sono molti e assai forti. Ma attraverso la preghiera il Signore ci darà quella forza che noi non abbiamo.

Pater Noster qui es in cælis: sanctificetur nomen tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua, sicut in cælo, et in terra.

Panem nostrum cotidianum da nobis hodie; et dimítte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;

et ne nos inducas in tentationem; sed libera nos a malo. Amen.

Laudetur Jesus Christus


AGGIORNIAMO con un bellissimo articolo di Padre Giovanni Scalese, vedi qui, sullo stesso argomento.

Hanno fatto molto scalpore le dichiarazioni rilasciate da Papa Francesco durante il programma di TV2000 Padre nostro andato in onda mercoledí scorso 6 dicembre. «Non ci indurre in tentazione» non sarebbe, secondo il Pontefice, una buona traduzione:

Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non lasciarmi cadere nella tentazione”, sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito.

Sembrerebbe che si tratti di una novità (l’unica vera novità è il fatto che dal 3 dicembre scorso, prima domenica di Avvento, in Francia è stata introdotta nella liturgia la nuova traduzione del Padre nostroqui); in realtà, si tratta di una questione che si trascina da decenni.

Da un punto di vista filologico, Padre Zerwik (Analysis philologica Novi Testamenti graeci, Pontificio Istituto Biblico, 1953) scriveva a proposito del verbo greco originale εἰσενέγκῃς: «Congiuntivo aoristo secondo di εἰσφέρωin-duco; anche in senso permissivo: “lascio entrare”: “fa’ che non entriamo”». Le varie traduzioni bibliche pubblicate negli ultimi decenni si sono sbizzarrite nel proporre nuove soluzioni.

In francese, la Bible de Jérusalem, nella sua prima (1956) e seconda (1973) edizione, riteneva la versione tradizionale («Et ne nous soumets pas à la tentation»), senza neppure aggiungere una nota esplicativa. La terza edizione (1998) invece ha tradotto: «Et ne nous laisse pas entrer en tentation», spiegando in nota:

Il senso permissivo del verbo aramaico, impiegato da Gesú, non è stato reso né dal greco né dalla Volgata, da qui la traduzione usuale «non ci indurre». Ma fin dai primi secoli molti manoscritti latini sostituivano Ne nos inducas con Ne nos patiari induci.

La TOB (1972), da parte sua, ha tradotto: «Et ne nous expose pas à la tentation», aggiungendo una lunga nota di commento, che può essere utilmente letta anche nell’edizione italiana (p. 2196). La nuova traduzione ufficiale della Bibbia in francese per l’uso nella liturgia nei paesi francofoni rende il testo, come la 3ª ed. della Bible de Jérusalem: «Et ne nous laisse pas entrer en tentation», che è appunto la traduzione introdotta una settimana fa nella liturgia.

In inglese, tanto la Douay-Rheims (cattolica) quanto la King James Version (protestante) avevano «And lead us not into temptation», traduzione conservata dalla Revised Standard Version e dalle sue “eredi” conservatrici English Standard Version (2001) e RSV-Second Catholic Edition (2006). Solo la progressista New Revised Standard Version (1990), anche nella sua edizione cattolica (1993), ha deciso di proporre una nuova traduzione: «And do not bring us to the time of trial». La New American Bible (Revised Edition, 1986) traduce: «And do not subject us to the final test», specificando in nota che «questa domanda chiede che ai discepoli sia risparmiata le prova finale». La ELLC (English Language Liturgical Consultation) nel 1988 pubblicò un nuovo testo “ecumenico” del Padre nostro (se c’era un testo ecumenico della preghiera del Signore, esso era proprio il testo tradizionale), in cui la nostra invocazione è tradotta, piuttosto liberamente, con «Save us from the time of trial». Nei paesi di lingua inglese (ma non in quelli di antica tradizione, che avevano sempre conservato la vecchia versione) fu successivamente adottata nella liturgia una nuova traduzione del Padre nostro, simile ma non identica a quella “ecumenica”, dove la sesta domanda suonava: «Do not bring us to the test». Tutto è cambiato con la pubblicazione del nuovo Messale in inglese (2011): ora, in tutti i paesi anglofoni, si è tornati a recitare la preghiera del Signore nella formula tradizionale.

In spagnolo pare (ma ne non sono sicuro) che abbiano sempre pregato il Padre nostro dicendo: «No nos dejes caer en la tentación». A mio parere, questa traduzione, piú che qualsiasi altra considerazione, spiega l’intervento di Papa Francesco. Si tenga però presente che nell’originale εἰσενέγκῃς è assente qualsiasi idea di “caduta”.

In italiano, la prima edizione della Bibbia della CEI (1974) conservava la versione tradizionale del Padre nostro. L’edizione del 2008 ha invece sentito il bisogno di modificarla, traducendo la sesta invocazione con un originale «E non abbandonarci alla tentazione». E, in tale forma, è entrata a far parte del nuovo lezionario (2009). Sicché, quando nella liturgia si legge Mt 6:7-15 (martedí della I settimana di Quaresima e giovedí dell’XI settimana del tempo ordinario), sentiamo quella traduzione. Nel post del 13 marzo scorso facevo notare il diverso trattamento riservato, a questo proposito, dalla Congregazione del culto divino al lezionario inglese e a quello italiano in base alle norme, allora in vigore, di Liturgiam authenticam.

Questa veloce carrellata di traduzioni dovrebbe dimostrare che non c’è un consenso unanime sul modo di rendere nelle lingue volgari il Ne nos inducas in tentationem. Semplificare troppo, facendo credere che si possa facilmente sostituire la versione tradizionale con una nuova che renderebbe adeguatamente il senso inteso da Gesú, significa non solo illudersi, ma anche ingannare i fedeli: non appena decisa una nuova traduzione, ci sarebbe qualche esegeta che si direbbe insoddisfatto e proporrebbe una nuova traduzione a suo parere piú fedele. Credo che tutta questa storia si basi su un equivoco di fondo, oggi molto diffuso: pensare che “tradurre” sia sinonimo di “interpretare”, mentre si tratta di due azioni complementari, ma distinte. “Tradurre” significa rendere un testo il piú fedelmente possibile in un’altra lingua. Non possiamo affidare alla traduzione un compito che non le compete. L’interpretazione di un testo spetta agli esegeti, non ai traduttori. Ora, se vogliamo un’interpretazione sicura — e anche recente — del Padre nostro, ce l’abbiamo: basta andare a leggersi il Catechismo della Chiesa Cattolica, che dedica alla preghiera del Signore la sezione seconda della parte quarta. La spiegazione della sesta domanda la troviamo ai nn. 2846-2849 (tra l’altro, vi si dice molto responsabilmente: «Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile»). Una volta che abbiamo capito il senso di quella invocazione, che bisogno c’è di cambiare traduzione? Ancora una volta, mi pare di essere tornato alle discussioni, puramente verbali, che erano tanto di moda negli anni Settanta-Ottanta.

Sembrava che Liturgiam authenticam avesse superato definitivamente quelle inutili diatribe; e invece, con la sua rottamazione, ce le ritroviamo di nuovo fra i piedi. Sarà un caso che in Francia abbiano introdotto nella liturgia la nuova traduzione del Padre nostro, con l’assist di Papa Francesco, giusto tre mesi dopo la pubblicazione del motu proprio Magnum principium? Visto come si sono messe le cose, è prevedibile che anche la terza edizione del Messale in italiano, rimasta nel freezer per anni, verrà presto scongelata e dovremo cosí anche noi lasciare la formula tradizionale per dire: «E non abbandonarci alla tentazione». Chiedo: Ma se un Dio che è Padre non può indurci in tentazione, può forse abbandonarci ad essa?


Vi offriamo in video il Pater Noster recitato dal Venerabile Pio XII, san Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI. Restiamo saldi e radicati nella Fede che abbiamo ricevuto, per noi oggi e per i cristiani che verranno dopo di noi.


AGGIORNAMENTO 23 NOVEMBRE 2020

Ecco perché continuerò a dire “e non ci indurre in tentazione” di Aldo Maria Valli, qui anche l’audio

Vorrei spiegare in due parole perché continuerò a recitare il Padre nostro dicendo “e non ci indurre in tentazione” e quindi non adotterò la nuova traduzione secondo la quale dovrei dire “e non abbandonarci alla tentazione”.

Dio può indurci in tentazione? Certo che può. Lo fa per il nostro bene. Indurci in tentazione significa metterci alla prova, e ogni buon educatore mette alla prova il discepolo, per vedere a che punto è nel cammino di formazione.

A causa del peccato originale, io sono continuamente tentato dal peccato. E Dio è liberissimo di indurmi in tentazione per verificare la mia fedeltà, per testare la mia fortezza, per consentirmi di misurare la mia disponibilità a spogliarmi di me stesso al fine di seguire e servire solo Lui.

La tentazione serve a valutare. È come un’interrogazione, come un compito in classe.

Il fedele che chiede al Padre “non mi indurre in tentazione” è come l’alunno che implora l’insegnante: “Per favore, non mi interroghi!”. Lo studente sa benissimo che l’insegnante, se è tale, dovrà interrogarlo, però, piccolo e debole com’è, ci prova lo stesso.

Esattamente come lo studente nei confronti dell’insegnante, anche noi fedeli sappiamo benissimo che, prima o poi, il Padre ci indurrà in tentazione, però, piccoli e deboli quali siamo, ci proviamo lo stesso: “Per favore, Padre, ti supplico; siccome non ho studiato e non sono pronto, non mi mettere alla prova, non mi interrogare”.

Ma allora, mi chiederete, perché, subito dopo, diciamo al Padre “ma liberaci dal Male”?

Lo diciamo – per restare al paragone scolastico – perché, sapendo di essere perennemente impreparati ed essendo ben coscienti della nostra ignoranza, ci rivolgiamo al Padre in questo modo: “Senti, invece di interrogarmi, di mettermi alla prova, per favore liberami del tutto dall’ignoranza in cui mi trovo”. Richiesta comprensibile, e anche legittima se e quando è motivata non da opportunismo ma da sincero desiderio di superare l’ignoranza. Richiesta, tuttavia, che per il nostro bene è impossibile da soddisfare. Perché, a causa del peccato originale, io sono completamente esposto al rischio del peccato e ho bisogno del decisivo aiuto del Padre per non esserne fagocitato.

Secondo me il “non ci indurre in tentazione” non solo non andava cambiato, ma è molto bello. Esprime tutta la nostra piccolezza, la nostra inadeguatezza. Ma esprime anche la confidenza con il Padre. Pur sapendo che non potrà accogliere la nostra richiesta (perché è chiaro che, se è veramente Padre, Egli ci indurrà in tentazione, e lo farà per il nostro bene, per la nostra crescita), noi gli chiediamo ugualmente di risparmiarci la prova e di liberarci dall’ignoranza, ovvero dal peccato. La richiesta non sta in piedi, perché il Padre, proprio in quanto tale, ha non solo il diritto ma il dovere di metterci alla prova, ma noi la formuliamo come fanno i piccoli alunni nei confronti del maestro. È una richiesta insieme assurda e tenera, con la quale diciamo quanto siamo piccoli e, nello stesso tempo, ci mettiamo del tutto nelle mani del Padre.

Se invece dico “non abbandonarmi alla tentazione” affermo due cose. Primo, che la tentazione, la prova, non ha alcun valore educativo ma è solo una cattiveria. Secondo, che il Padre può in effetti abbandonarmi, cioè togliersi di mezzo, sparire, lasciarmi solo di fronte al peccato. E, in questo modo, dico una cosa terribile, perché implicitamente accuso il Padre di potersi disinteressare di me.

Io preferisco di gran lunga un Padre che, per il mio bene, mi induce in tentazione piuttosto di uno che mi può abbandonare al peccato. Il primo è un educatore. Certamente severo, ma tutto dalla mia parte, tutto schierato con me nella lotta al peccato, uno che mi è sempre accanto. Il secondo, visto che mi può abbandonare, non è un vero educatore. Magari apparirà più simpatico, meno arcigno, ma non è veramente dalla mia parte.

I sostenitori della necessità della nuova traduzione dicono è stato fatto un grande passo avanti teologico, perché si è resa giustizia a Dio, il quale “può volere solo il nostro bene”. E aggiungono: “Prevale la visione di Dio misericordioso, Dio amore, quella che piace a papa Francesco”. Infatti “quando Gesù insegnò la sua preghiera agli apostoli non trasmise un’immagine arcigna di Dio, ma lo chiamò Padre”.

Mi sembra che qui siamo di fronte a un grande fraintendimento.

È proprio perché Dio è amore, e vuole il nostro bene, che può indurci in tentazione. Se non lo facesse, se non ci mettesse alla prova, non sarebbe veramente Padre e non dimostrerebbe autentico amore.

Il santo Curato d’Ars scrisse che “la tentazione è per noi molto necessaria, per poter conoscere chi siamo veramente”. È proprio così. È necessaria in quanto verifica, in quanto prova. “Niente è più necessario della tentazione – aggiungeva san Jean-Marie Vianney – per renderci convinti del nostro nulla e per impedirci di lasciarci dominare dall’orgoglio”.

Se gli chiedo di non abbandonarmi alla tentazione dimostro di non avere una grande considerazione del Padre. Come immaginare che possa abbandonarmi se Egli è Amore?

Ho l’impressione che l’abolizione del “non indurci in tentazione” nasca da quella mentalità sessantottina che all’epoca nelle università pretese di eliminare gli esami e di imporre il “diciotto politico”. Così come allora il presunto diritto dello studente alla promozione veniva fatto prevalere sul dovere, che il docente in quanto tale ha, di valutarne la preparazione, oggi il presunto diritto del credente di essere perdonato viene fatto prevalere sul dovere di Dio di metterne alla prova la fede. Non a caso, i paladini dell’abolizione del “non indurci in tentazione” appartengono allo stesso filone teologico che ha messo in soffitta il peccato. In primo piano non c’è più Dio, non c’è più il giudizio divino, ma c’è l’uomo, con la sua pretesa di essere comunque perdonato.

Ecco perché, con buona pace della Conferenza episcopale e del papa, continuerò a pregare come ci ha insegnato Gesù.


RICORDA CHE:

Non dobbiamo semplificare i termini, soprattutto nelle Preghiere della santa Tradizione, perchè oggi non si comprendono più…🤓 piuttosto dobbiamo sforzarci di capire il perché si usano certi termini! Perciò, continuiamo serenamente a dire il Pater Noster come Gesù ha insegnato e i Santi Padri ci hanno grandemente spiegato.🙏😇


AGGIORNAMENTO marzo 2024

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Regis Martin e pubblicato su Crisis Magazine. 

Quando si parla di tentazioni, siamo tutti esperti. È una materia che tutti padroneggiamo, un corso che tutti potremmo insegnare. È anche, paradossalmente, un’area della nostra vita in cui il fallimento è fin troppo frequente. L’insegnante non è migliore dell’allievo; anzi, sono due facce della stessa medaglia.

Voglio dire, chi di noi non ha mai provato il minimo senso di colpa risvegliato dal divario tra le virtù che professa e i vizi che pratica? Non c’è nessuno là fuori che non si sia commosso per la grandezza a cui aspiriamo nei nostri momenti migliori, seguita dalla miseria in cui siamo così spesso impantanati? Con l’eccezione della Beata Madre – “il vanto solitario della nostra natura”, ci ricorda il poeta Wordsworth – abbiamo tutti le mani sporche di sangue. Per quale altro motivo Cristo sarebbe morto per la razza umana se ogni membro di essa non avesse già cospirato per crocifiggerlo?

E così, sia che ci arrendiamo sia che riusciamo per un po’ di tempo a farla sparire, non c’è via d’uscita, non si può sfuggire alla rete della tentazione. Nemmeno il cinismo è un’opzione. Quando Oscar Wilde annunciava allegramente: “L’unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi”, era solo furbo. “Posso resistere a tutto”, aggiungeva divertito, “ma non alla tentazione di fare una battuta intelligente”.

L’esperienza di essere tentati, quindi, è un evento che riguarda tutti; non è stato risparmiato nemmeno il più piccolo dei bambini che, se dobbiamo credere a Sant’Agostino, non pecca solo per mancanza di opportunità. Perché anche il nostro Signore è stato tentato, non una volta, ma più volte. Ciò che conta, ovviamente, è cosa fare quando succede. E troppo spesso, ovviamente, non riusciamo a resistere affatto, trasformando così i nostri peccati in abitudini che minacciano seriamente l’anima, oppure quando opponiamo una qualche resistenza, per quanto tiepida, il risultato è spesso una sorta di moralismo disperato che conosce troppo bene la propria debolezza per immaginare di poterla mai superare del tutto.

Perché? È possibile che chiedendo a Dio: “Dammi la grazia oggi di resistere alle tentazioni in ogni modo”, non stiamo facendo la domanda giusta, non stiamo supplicando Dio per la cosa giusta? La cosa giusta, in altre parole, che si dimostrerebbe più grande persino della forza più vantata che riusciamo a evocare per resistere a questa o quella tentazione?

Affrontare le tenebre di petto potrebbe non essere la mossa più intelligente, ecco cosa voglio dire. Certo, è un gesto eroico, un colpo di sfida contro le forze del male che sono così spesso e pericolosamente schierate contro di noi. Ma perché mai dovremmo sentire il bisogno di tenerle sempre a bada? Hanno forse una qualche presa su di noi che ci obbliga a scacciarle continuamente? Perché non chiedere invece che Dio si mostri in modo tale che qualsiasi peccato che siamo tentati di commettere si ritrovi tutto in una volta spogliato del suo falso fascino? Che i nostri occhi siano immersi in una luce così celestiale da non riuscire più a vedere il peccato, tanto meno a soccombere alle sue spurie seduzioni?

Non potrebbe essere una strategia migliore? Sarebbe certamente meno faticosa. E poi, a cosa ci sono serviti i peccati che abbiamo commesso? Sulla scala dell’essere che misura il peso di tutto ciò che è, non sono nulla, l’ombra dell’amore, non di più. Perché, allora, dovremmo dare al peccato un palcoscenico su cui esibire il suo nulla? Per analogia, non è altro che un piatto vuoto sul quale non apparirà mai alcun cibo. Perché ci si aspetta che paghiamo per un pasto che non mangeremo mai, un hamburger da niente? Non importa che il ristorante sia affollato e rumoroso, non c’è ancora nulla.

In un bellissimo inno composto nel IV secolo da Sant’Ambrogio, intitolato “O splendore della gloria di Dio”, tra le tante strofe ce n’è una che chiede a Dio proprio quella cosa che, con la sua pura intensità luminosa, priverà il peccato di tutta la sua apparente dolcezza e delizia:

Anche il Padre che le nostre preghiere implorano,
Padre della gloria eterna,
Padre di ogni grazia e potenza,
di bandire il peccato dalle nostre delizie…

Pensateci! Una grazia che permette all’anima, come ci esorta Ambrogio a chiedere a Dio, “di bandire il peccato dalla nostra gioia”. In altre parole, di diventare non solo indifferenti al falso fascino del peccato, ma di essere talmente concentrati su Dio, talmente inghiottiti dalla gloria divina che risplende sul volto di Cristo, che il peccato non ha più alcun appiglio di quanto non ne abbia, ad esempio, il richiamo delle feci per un uomo intento a gustare un filetto.

Questa è la lezione che Dante, il poeta-pellegrino, impartisce nel corso del suo lungo viaggio sul monte del Purgatorio in quella grande sezione centrale della Divina Commedia. Non è un percorso facile. Ma il risultato lo renderà libero, benedettamente e finalmente libero – non solo dalla pratica del peccato, che è lo scopo del viaggio in primo luogo; liberarlo completamente dal peccato è il motivo per cui è venuto. Ma, cosa ancora più importante, lo libererà da qualsiasi ricordo persistente dei piaceri assaporati un tempo. Questa sarà la liberazione più dolce e soddisfacente di tutte.

E così, una volta raggiunta la vetta, cade in un svenimento di tale dolore per i suoi peccati da perdere completamente i sensi. Al suo risveglio, però, avverte la presenza di un altro, di una persona che ha fatto il viaggio in prima persona e che ora è venuta ad offrirgli conforto nella sua angoscia. Ma non solo. In realtà è venuta per attirarlo nel ruscello sacro dove lo attende l’oblio del peccato. È Matilde, naturalmente, la prima delle anime redente a salire sul monte del Purgatorio dopo la completa vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Così, le viene affidato il compito di immergere tutti coloro che hanno intrapreso il viaggio in quelle stesse acque purganti che un tempo la purificarono. “Tieni duro!”, mi disse, “Tieni duro”!

Mi aveva trascinato nel torrente fino alla gola e, tirandomi dietro di sé, sfrecciava sull’acqua, leggera come una barca.

In prossimità della riva sacra, la sentii dire con toni così dolci che non posso richiamarli e tanto meno descriverli qui: “Asperges me”.

È la preghiera di assoluzione di cui parla il salmista, che chiede a Dio di purificarlo con l’issopo per essere più bianco della neve. Fallo ora, sembra dire. Non può aspettare. È quella santa impazienza di essere resi puri, di chiedere al Signore di immergerci nelle acque della vita nuova, di aprire panorami di delizia che ci permettano sempre di ricominciare. La preghiera perfetta per la Quaresima…

Regis Martin

Regis Martin è professore di teologia e associato alla facoltà del Centro Veritas per l’etica nella vita pubblica dell’Università Francescana di Steubenville. Ha conseguito la licenza e il dottorato in sacra teologia presso la Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino a Roma. Martin è autore di numerosi libri, tra cui Still Point: Loss, Longing, and Our Search for God (2012) e The Beggar’s Banquet (Emmaus Road). Il suo libro più recente, pubblicato da Scepter, si intitola Looking for Lazarus: A Preview of the Resurrection.

I commenti sono chiusi.

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑