J.Ratzinger “Dio e il mondo” ampi stralci dall’imponente libro-intervista del 2000

Cari Amici, per comprendere la teologia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI è fondamentale conoscere il suo pensiero e che cosa ha realmente detto. Leggendo dal libro “La mia vita”, vedi qui, possiamo intravvedere il suo modo di ragionare che, per quanto da lui stesso definito “progressista“, di fatto prese le distanze da questo termine, quando si rese conto di come questo lo dissociasse dal rendere un “servizio” alla Chiesa, mettendolo spesso in cattiva luce a riguardo dell’ortodossia dottrinale. La grandezza di Ratzinger sta nel fatto di essere riuscito a portare la dottrina in “modo nuovo“, ma non per questo necessariamente accusabile di eterodossia. Quando il teologo Hans Kung apostata ed eretico, grande amico di Ratzinger in età giovanile, lo accusò di aver “tradito” la causa dei teologi renani (teologi francesi e tedeschi) i quali si prefiggevano una vera rivoluzione contro Roma, volendo imporre le proprie ideologie moderniste, Ratzinger rispose: “non sono cambiato io, sono cambiati loro“, prendendo così le distanze da quella corrente che si impose quale “spirito del concilio“, il cui concetto di innovazione in esso contenuto, venne poi respinto e condannato sia da Giovanni Paolo II quanto da Ratzinger una volta diventato Pontefice.

Ora vi offriamo ampi stralci tratti da questo libro “Dio e il mondo – Essere cristiani nel nuovo millennio” che ci aiuteranno a mettere a fuoco tutta una serie di problematiche del nostro tempo e, dalle risposte, potremo comprendere e distinguere la passione di Ratzinger per la verità… Una passione che portò sulla Cattedra di Pietro, quando divenne Pontefice. Il testo, naturalmente parziale e senza note perchè è importante acquistarlo per avere la sua completezza, è comodamente scaricabile in pdf qui


Ecco alcuni passaggi:

Il dubbio, pp. 29-33

D. La Chiesa cattolica sa con assoluta sicurezza com’è Dio veramente, cosa dice veramente e anche cosa vuole davvero da noi?

R. La Chiesa cattolica sa, tramite la fede, cosa Dio ci ha detto nel [31] corso della storia della Rivelazione. Naturalmente la comprensione che gli uomini ne hanno – anche quella che la Chiesa ne ha – è inadeguata rispetto a ciò che Dio ha effettivamente detto. Perciò la fede si evolve. Ogni generazione riscopre nuove dimensioni, suggerite dal contesto esistenziale in cui si trova a vivere e fino a quel momento rimaste ignote anche alla Chiesa.
Il Signore stesso lo predice nel Vangelo di Giovanni: «Il Signore stesso vi condurrà nella verità perché possiate conoscere anche ciò di cui oggi non siete capaci di portare il peso». Questo significa che c’è sempre un’eccedenza della Rivelazione, un qualcosa di «ulteriore» non solo rispetto alla comprensione che ne ha il singolo, ma anche rispetto alla conoscenza che ne ha la Chiesa. Quest’eccedenza è perciò per ogni generazione una nuova avventura.

D. Che cosa significa?

R. Non potremo mai dire di sapere tutto, non potremo mai dire che il Cristianesimo ha esaurito la parabola del sapere. Poiché Dio e l’esistenza umana sono imperscrutabili, ci sono sempre nuove dimensioni da sondare. Ciò che è comunque dato alla Chiesa è la certezza di ciò che non è compatibile con il Vangelo. Nei suoi dogmi e nella sua confessione di fede ha formulato le cognizioni essenziali. Sono tutte formulate in negativo. Dicono dov’è il limite oltre al quale ci si perde. Lo spazio all’interno di questi confini rimane, per così dire, vasto e aperto. E perciò la Chiesa può indicare le direttrici fondamentali dell’esistenza umana e dire in che direzione non devo sicuramente andare se non voglio precipitare nell’abisso. Rimane compito del singolo scoprire ed esplorare le molteplici possibilità in cui si imbatte nel corso del suo cammino.


Spostare le montagne, pp. 38-39

D. Ma è Gesù stesso a dire: «Se avrete fede pari a un granellino di senape, potrete dire a questo monte: Spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile».

R. Questo è in effetti uno dei passi più enigmatici del Nuovo Testamento, almeno per me. Anche i Padri della Chiesa, i grandi teologi, i Santi hanno faticato a trovare un’interpretazione per queste parole. Anche in questo caso – analogamente al passo in cui si dice «Pregate e sarete esauditi» – non possiamo accontentarci di un’interpretazione banale tale per cui, giacché credo fermamente, devo poter dire alla montagna di Montecassino: Vattene! Qui si intendono in realtà quei monti che ostruiscono il cammino della nostra esistenza. E che sono tanto più importanti dei monti riportati sulle cartine geografiche. Questi monti posso infatti oltrepassarli se mi affido a Dio.

D. È una sorta di autosuggestione?

R. L’atto di fede non è, per così dire, convincersi di una certa idea o attribuire alla fede il potere di compiere determinate azioni. L’atto di fede consiste nel riporre la propria fiducia nell’esistenza di Dio, nel fatto che posso mettermi nelle sue mani. E allora anche la montagna si dissolverà.


La fede parla alla nostra ragione perché dà voce alla verità, pp. 40-43
Dio e la ragione

D. La Chiesa e i Santi sottolineano come si possa comprendere, dimostrare e motivare le fede cristiana anche con categorie razionali. È vero?

R. Sì, ma entro determinati limiti. È vero nel senso che la fede non è un qualsivoglia intreccio di simboli che consenta di compiere scelte diverse. La fede parla alla nostra ragione perché dà voce alla verità, e perché la ragione è stata creata per accogliere la verità. Da questo punto di vista una fede senza ragione non è autentica fede cristiana.
La fede sfida la nostra capacità di comprensione. Anche in questo colloquio stiamo cercando di mettere in luce come tutto questo – a partire dal pensiero della creazione fino alla speranza cristiana – abbia un senso da cui germoglia una proposta razionale. Da questo punto di vista si può dimostrare che anche la fede è conforme a ragione.


Le società possono trascinare l’uomo verso il basso o aiutarlo a innalzarsi pp. 43-47
Una contraddizione

D. Da un lato ci sono i comandamenti di Dio, dall’altro la natura umana. Entrambi hanno origine dalla creazione. E tuttavia è a tutti evidente la difficoltà di conciliare i due elementi. Anche pensare e compiere il male fa parte evidentemente della natura umana. In ogni caso questo paradosso ci fa sentire schiacciati sotto il peso di un dover essere troppo oneroso.

R. La fede cristiana parte dal presupposto che si è verificata una distorsione nella creazione. L’esistenza umana non è più quale è uscita dalle mani del Creatore. È gravata da un altro fattore, la coesistenza, accanto all’innata tensione verso Dio, della tendenza ad allontanarsi da Dio. L’uomo è così lacerato tra la tensione originaria, impressagli all’atto della creazione, e l’eredità storica.
Questa possibilità è già insita nell’essenza della finitezza, della creaturalità, ma si è dispiegata solo nella storia. L’uomo, da un lato, è stato creato in funzione dell’amore. Esiste per perdere se stesso, per far dono di sé. Ma gli è anche propria la tendenza al rifiuto, a voler essere solo se stesso.

D. D’altro canto avvertiamo la tentazione di sottrarci agli obblighi morali impostici dai Dieci Comandamenti.

R. Nell’uomo sono presenti anche il gusto per la contraddizione, la comodità della menzogna, la tentazione della diffidenza, che scaturiscono da una tendenza distruttiva, dalla volontà di dire no.
Questo paradosso (che ha origine dal Peccato originale) ci dimostra come nell’uomo sia riscontrabile una certa distorsione interna, tanto che questi non riesce ad essere semplicemente quello che vorrebbe essere. So ciò che è bene, e lo approvo, diceva già Ovidio, poeta romano, e però faccio il contrario.
Un’analoga constatazione viene fatta da Paolo nel capitolo settimo della lettera ai Romani: Non compio il bene, che voglio, ma il male che non voglio. In Paolo si leva il grido: Chi mi redime da questa contraddizione interna? Ed è questo il punto a partire dal quale Paolo comprende rettamente la figura di Cristo e la porta nel mondo pagano dell’epoca quale risposta di redenzione.


– sulla Liturgia e la Messa nel rito antico:

«… Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo.
Nella storia non è mai accaduto niente di questo genere; così è l’intero passato della Chiesa a essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, a essere franco, perché tanta soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all’interno della Chiesa
.
(…)
Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. (…) Dovremmo quindi tenere presente anche questo. Se nemmeno nelle grandi liturgie romane si può cantare il “Kyrie” o il “Sanctus”, se nessuno sa più nemmeno cosa significhi il “Gloria” (e lo stesso “Pater Noster”), allora si è verificato un depauperamento culturale e il venire meno di elementi comuni. Da questo punto di vista direi che il servizio della parola dovrebbe essere tenuto in ogni caso nella lingua madre, ma ci dovrebbe anche essere una parte recitata in latino che garantisca la possibilità di ritrovarci in qualcosa che ci unisce».

Nota nostra: sulla liturgia antica si legga anche qui: A-Dio Summorum Pontificum “speranza per la Chiesa”


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