Il Bello beato? Non è consigliabile! Mons. Nicola Bux spiega il perché…

In Bello manca la vita eterna, è piegato tutto sul mondo. Se un cristiano, un vescovo non ha chiaro questo, sarà pure un grande eroe, sarà pure come Salvemini un santo laico, ma non un laico santo; tanto meno un santino – stia sicuro Vendola –  perché li avrà portati solo in “un grande prato verde dove nascono speranze…”, in un mondo che non esiste..” (mons. Nicola Bux)

Cari Amici, non è per antipatia o simpatia che abbiamo dedicato uno studio approfondito, vedi qui, sul magistero del vescovo Tonino Bello (ripetiamo, sul suo magistero e non sulla sua persona che affidiamo a Dio), e non per nulla abbiamo ricavato un Dossier con tanto di materiale e prove che, questo magistero “belliano” non solo rasenta l’eresia, ma senza dubbio alcuno distoglie – chi lo segue – dalla sana e corretta dottrina cattolica, proprio uno dei suoi discepoli più attivi lo testimonia, Vendola!

Quanto segue non intende affatto giudicare la fede personale del prelato, semplicemente non si può tacere sull’errore, questo è il punto e il dato oggettivo, contro ogni soggettivismo “de panza”, sentimentale, con il quale si vuole “a tutti i costi e frettolosamente” beatificare un vescovo che, del suo magistero, è bene stendere un velo pietoso e continuare, semmai, a suffragare con spirito cristiano, per la sua anima. Quanto segue è il testo rilasciato da mons. Nicola Bux e che noi facciamo nostro, condividendo tutto, e che ben si riallaccia anche alla conferenza tenuta dalla dott.ssa Cristina Siccardi, vedi qui.


Nicola Bux: Perché Tanta Fretta di Beatificare Tonino Bello?

Un libro a più mani, fresco di stampa Don Tonino. Il santo col grembiule, La Repubblica 2022, non corrisponde all’immagine normalizzata che di lui si cerca di accreditare nella Chiesa istituzionale odierna. Se è vero che i testimoni de visu abbiano evidenziato di don Tonino Bello la sua passione per il Vangelo, l’anelito per la pace, l’attenzione agli ultimi e ai più poveri, purtroppo dagli scritti non emerge quella per il Dogma e per la Liturgia…: caso serio per un vescovo.

E’ noto anche che molti archivi, a cominciare da quello del medesimo Servo di Dio custodito presso la casa del fratello Marcello ad Alessano, risultano ancora o non ordinati ovvero inaccessibili, dato il tempo relativamente breve trascorso dalla sua morte. E allora, perché tutta questa fretta per beatificarlo? Perché non completare riordino ed analisi di quei molti archivi? Inoltre, nessuna importanza hanno le sbobinature di interventi di d.Tonino, a cui attingono non poche pubblicazioni in giro? Ve ne potrebbero essere di compromettenti… come quella di Assisi 1992 in cui Bello parla entusiasta dello spirito che erompe dalle viscere della terra e scavalca le religioni pietrificate…  Temo che pur di giungere alla beatificazione, i testi di quelle sbobinature siano stati sottovalutati… C’è un video su Youtube che riporta quel discorso e che ho citato nel mio libro (N.Bux con V.Palmiotti, Salute o salvezza. La Chiesa al bivio, Fede & Cultura, Verona 2021, p.30, n 33). E’ noto anche l’episodio che il Bello abbia mandato un’Ostia consacrata in Argentina, sia pure tramite un sacerdote: speriamo che la beatificazione non implichi anche lo sdoganamento del trasporto intercontinentale di Ostie consacrate…

La beatificazione è un’operazione “politica” tesa a veicolare o imporre a tutti i costi Bello come modello per i Pastori presenti e futuri? Sarebbero gravemente responsabili, per aver presentato ai fedeli una figura che non è stata, in quanto vescovo, maestro di fede. Anche nella Congregazione per le Cause dei Santi, ci sono quelli che lo sanno ma, per timore, non lo dicono a chi se n’è fatto complice: è accaduto con altre cause. Anche questo ha a che fare con la corruzione che lambisce il vertice della Chiesa persino nelle cose più sacre. Ma, quanto avviene nel segreto, verrà proclamato dai tetti.

Il vescovo è per antonomasia maestro di fede. Cos’è la fede: il riconoscimento di Gesù Cristo come il Figlio di Dio: un vescovo Lui deve insegnare, con Lui deve santificare, a Lui deve guidare tutti, a cominciare dai poveri. Chi è il povero? Colui che non fa sfoggio delle sue prestazioni davanti a Dio e non pretende di essere adeguatamente ricompensato. Sa di essere anche interiormente povero, non ha mani che afferrano e tengono stretto. Perciò Matteo parla di poveri in spirito. La povertà non è mai un fenomeno puramente materiale. La povertà puramente materiale non salva. Il cuore delle persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato, malvagio, colmo all’interno di avidità di possesso. Il vero povero ripone in Dio la sua speranza e non in altri e nelle cose del mondo. Senza dire che i poveri li avremo sempre con noi, perchè la povertà è conseguenza del peccato originale e una prova per verificare se rimaniamo fermi in Lui. Per questo, il povero per eccellenza è Gesù, che venne senza beni materiali ma, soprattutto, senza il peccato che è la presunzione dell’uomo. Perciò poté svelare che Dio è Padre e così evangelizzare i poveri: cioè annunciare il lieto messaggio che Dio c’è. I suoi discepoli erano i poveri. L’evangelizzazione, effettuata in primis da parte del vescovo, rende ricchi i poveri di questa rivelazione di Dio Padre che manda il Figlio a salvarli dal peccato e li riempie della luce ineffabile dello Spirito Santo che è ‘eterna carità’. Questo manca nel libro di Repubblica.

Poi, la carità di Cristo chiede ai cristiani di seguire “l’ordine della carità”, amando di più coloro che hanno maggiore bisogno: i miseri, coloro che non hanno il necessario, i poveri, che hanno il puro necessario con alcune limitazioni, i perseguitati, i maltrattati, gli oppressi, i dimenticati, gli emarginati dalla società. Questa la graduatoria che seguiva il celebre card. Siri. Senza la carità, intesa dall’Apostolo come la vita stessa di Dio, la sua grazia, si possono dare tutte le proprie sostanze ai poveri, ma non serve a nulla; si fa solo sociologia. Non ci occuperemo dunque dei bisogni materiali del povero: mangiare, bere, dormire, lavorare…? Certo, ma per attrarli alla carità di Dio, non alla generosità nostra. Altrimenti, non salviamo i poveri dal non-senso dell’esistenza. Il povero ha un’anima e ha diritto anche lui di arrivare a Colui che l’ha creato, arrivare al Cielo. A meno che non gli promettiamo un paradiso sulla terra, come hanno fatto i tanti messianismi ideologici. Così, il cristiano è povero per definizione, perché non è posseduto dal mondo, non possiede il mondo e non lo “serve dal basso” (cfr D.Tonino. Il santo… p.75) ma dall’Alto.

Un vescovo deve unire i suoi fedeli al trionfo pasquale di Cristo sul male e sulla morte, affinché un giorno andiamo incontro a Lui, nel regno dei beati. Così, trasformati a Sua immagine, noi vedremo il suo volto e sarà gioia piena…Questo mi aspetto che un vescovo annunci. Come Paolo, che ringrazia i cristiani di Salonicco per aver accolto la parola divina, non come parola umana, perchè è quella che opera in chi crede. E’ il Vangelo che, nonostante le tribolazioni del mondo, converte a Dio, allontana dagli idoli, fa servire il Dio vivo e vero, in attesa di Cristo che ci libera dall’ira ventura. Un vescovo non cerca di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori (come in questo tempo di contagio). Ci dobbiamo comportare in maniera degna, dice l’Apostolo, di quel Dio che ci chiama al suo regno e alla sua gloria. Ci convertiamo dunque per servire al Dio vivo e attendere dai cieli il Suo Figlio risorto dai morti che ci libera dall’ira futura.

In Bello manca la vita eterna, è piegato tutto sul mondo. Se un cristiano, un vescovo non ha chiaro questo, sarà pure un grande eroe, sarà pure come Salvemini un santo laico (Ivi, p 63), ma non un laico santo; tanto meno un santino – stia sicuro Vendola –  perché li avrà portati solo in “un grande prato verde dove nascono speranze…”, in un mondo che non esiste, mi ha detto un amico evocando la canzone di Morandi, dopo aver saputo del libro di Repubblica su Bello. Questa esigenza dei laici di non far diventare Bello un santino (Ivi, p. 111) serve a costruire qualcosa che a loro manca, inventando l’ossimoro della “Messa laica” (cosa di più dissacrante?): a causa purtroppo dell’ambiguità di Bello, che dipende dal non conoscere che il santo è ‘sanctus’, cioè separato dal mondo. Così, si arriva a sostenere che un uomo di Dio dà una lezione di laicità al mondo (Ivi, p.119): che vuol dire? Che è guidato dallo Spirito Santo? Ma allora dovrebbe convincere il mondo, riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio (Gv 16,8), in una parola, che il mondo non crede in Cristo. Altrimenti nessuno potrà spiegare perché al mondo non c’è fraternità, uguaglianza e libertà. La risposta a questo ‘perché’ è il peccato, che dall’origine causa la condizione miseranda del mondo: questa è “l’angolazione giusta” per leggere e capire ciò che accade.

Dove sono oggi quegli “eserciti di domani” previsti da d.Tonino a Serajevo (Ivi, p. 127)? Dov’è oggi la “convivialità delle differenze tra russi e ucraini? Visto che si grida: Pace, pace, e pace non c’è (Ger 6,14). D.Tonino si scandalizzava della guerra, perché aveva dimenticato che la guerra c’è finchè c’è il peccato: per questo Cristo è venuto a prendere su di sé il peccato. Se da vescovo avesse precisato questo, sarebbe stato davvero ‘profeta di pace’. I Sentieri di Isaia o portano alla pace che è il Messia, convertendosi a Lui, o alla utopia scambiata per profezia, come Bello medesimo constaterebbe se tornasse oggi. Ma anche le profezie scompariranno (1 Cor 13,8); e i presunti profeti, o meglio utopisti, sono scomparsi come il verde Alexander Langer, accostato a Bello (Ivi, p. 134), morto suicida impiccato a un albero.

Quale profezia era quella di Bello? Avrebbe dovuto promuovere il Vangelo nella sua interezza, dalla fede in Dio Padre alla vita eterna: l’unica profezia, realizzata, degna di questo nome, catechizzando il popolo in modo da portarlo alla vita buona del Vangelo. Si comprende lo sconforto, la stanchezza e il dubbio che lo assalivano al ritorno da Serajevo: “Attecchirà davvero la semente della non violenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? E’ possibile cambiare il mondo con i gesti semplici dei disarmati?” (Ivi, p 143): domande destinate a rimanere senza risposta, senza la domanda maggiore: perché l’uomo fa sempre guerra?L’uomo non conosce la via della pace (Rm 3:10-17), pensa sia l’assenza di conflitti, ma questa non è la vera pace. Infatti Gesù riferendosi alla pace umana dice “non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada” (Mt 10:34). La nostra battaglia, dice san Paolo, non è contro le creature umane, contro gli spiriti del male che dominano il mondo (Ef 6,12). Gli uomini che fanno la guerra, sono vittime del maligno. Quindi, all’origine della guerra c’è il peccato. Per ristabilire l’ordine e la pace, non serve la “non-violenza”, ma la lotta contro il peccato e il maligno. Nel cuore dell’uomo non risiede la vera pace, ma l’illusione della pace. Costruire la pace è tutt’altra cosa dall’essere non violenti, perché non c’è pace senza disarmo del cuore, e ciò avviene con la conversione. Qui la grande differenza tra Ghandi e Cristo. Per fare la pace bisogna lasciarsi riconciliare con Dio. Qui un vescovo deve porsi la domanda centrale: “ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio” (J.Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano-Milano 2007, p 67). Così Gesù ha cambiato il mondo non solo una volta per tutte, ma lo cambia ogni volta che incontra il mondo intimo dell’uomo. Perciò Egli ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo. La Chiesa sa che solo dove si porta Cristo, arriva la pace. Ma Bello non ci ha pensato.

Poi, se la fede cristiana entrasse in comunione con le culture e poi le trascendesse, come pensava d.Tonino (Ivi, p. 64), ma non diventasse essa stessa cultura, sarebbe una fede non pienamente accolta, non interamente pensatanon fedelmente vissuta, come disse Giovanni Paolo II. Invece Bello voleva che la Chiesa si adattasse al gusto moderno che amerebbe a suo dire forme più semplici (Ivi, p.34): ma questa è la “riduzione emotiva della fede”, diceva mons. Negri: “oggi la Chiesa nel mondo sembra essere diventata un’erogatrice di sentimenti, di emozioni. Non abbiamo più il coraggio della verità”.

Il libro di Repubblica si apre con la politica come arte di costruire il futuro, secondo Bello; questo è il contrario del “non preoccupatevi del domani…, a ogni giorno basta la sua pena!” (Mt 6,34). Egli postulava il rispetto della diversità delle scelte politiche dei credenti: ma così, si dovrebbe ammettere anche l’opzione di un cattolico per il fascismo o per il comunismo. Non siamo al relativismo? Mancando poi in Bello l’appello alla conversione, aprire il libro col discorso ai politici, induce quasi a intenderla come la cifra sotto cui comprendere la sua azione. Così si finisce per confondere fede e politica (Ivi, p. 85) perché si ignora l’ordine di Cristo di non dare a Cesare ciò che si deve a Dio. Poi, la citazione di Bello “La Chiesa è per il mondo non per se stessa” (Ivi, p. 56), ha bisogno di un’aggiunta: per salvarlo, ma per questo bisogna prima convertirsi, almeno secondo il Vangelo. Per esempio: se il Vangelo è incompatibile con le mafie (p. 57), non lo è con i mafiosi, perché sono peccatori come tutti, e Dio li chiama a convertirsi, come tanti altri: la mafia è soprattutto peccato, non solo illegalità, e chiede conversione. Don Ciotti non ne parla mai, pur essendo, come prete, ministro di riconciliazione.

Si può concedere ai “laici devoti” come Franco Cassano, l’eresia del Padre che apprende dal Figlio (Ivi, p. 149), basata sulla lettura eterodossa che Bello fa della Trinità come “convivialità delle differenze”: ma non si può far diventare la lavanda dei piedi fatta da Cristo una sottomissione al mondo. Poi, commentando la concezione del potere in don Tonino: “Questo è il soprannaturale, tutto il resto è coreografia” (Ivi, p152) – perché egli voleva un soprannaturale comprensibile agli uomini non una Chiesa dei miracoli – allora si comprende il discepolato di chi, come Vendola,, ammette di non avere competenza o fede sufficiente per capire cosa siano i miracoli (Ivi, p. 49). Il punto è che Bello – vescovo nel periodo in cui, come scriveva Ratzinger nel best-seller Rapporto sulla fede, era in crisi l’idea di Chiesa – parla di Chiesa serva del mondo, proprio come la vedono i laicisti. Eppure, proprio il prof. Cassano, riecheggiando Chesterton, scrive che la Chiesa non deve gravitare attorno al mondo ma con la fede muovere il mondo (Ivi, p154).

Dunque, un vescovo del Sud, deve far guardare a Est, donde sorge Cristo, l’Oriente che salva: non è altro dalla missione essenziale della Chiesa cattolica, che non è chiamata a realizzare il Paradiso in terra – sarebbe una Chiesa utopista – ma ad essere sacramento, cioè segno e strumento di salvezza per tutti popoli, come insegna il concilio Vaticano II.

La Chiesa stessa è il soggetto della liberazione. L’esperienza cristiana è un incontro, un avvenimento, una testimonianza. Cristo si rivolgeva agli ultimi, agli oppressi perché costituivano la Chiesa, destinata alla persecuzione proprio come Lui. Se d.Bello, come il venerabile don Ambrogio Grittani, della stessa Molfetta, avesse portato i poveri all’altare, questi avrebbero incontrato Cristo e trovato non un ristoro temporaneo ma eterno. Così, le sue virtù sarebbero diventate davvero eroiche.

Ho conosciuto di persona d.Tonino e certe cose gliele dissi, ma non sapeva cosa rispondere: a causa della sua utopia (eterodossia hanno scritto su un blog). Ciò che, dell’“ecumenismo” di d.Tonino scrive il curatore del libro di Repubblica, non ha a che fare con p.Pio, che invece ammoniva i peccatori, né con madre Teresa, che diceva che la vera povertà è la non conoscenza di Dio; e così le sue suore e i cattolici indiani sono perseguitati. Quanto alla carità poi: tutti i santi della carità, maxime Vincenzo de Paoli, non chiedevano la “carta d’identità” (non conosco santi che lo facessero), ma col loro operare attiravano a Cristo, mentre Bello attirava a se stesso (N.Bux con V.Palmiotti, Ivi, p.25). Poco importa se al funerale, come scrive il curatore, c’erano 15mila persone, o 50mila come invece ritiene la Causa per la canonizzazione.

*******

RICORDA CHE:

«Ho conosciuto Tonino Bello e non ne conservo buona idea. Persona degna sul piano personale, ma io sono contrario alla sua beatificazione. Dottrinalmente e teologicamente era molto arruffone, confuso, specie in tema mariano; poi svolgeva il compito di pastore e di vescovo con approssimazione e confusione, con populismo e demagogia, sposando modi contrari alla Chiesa, modi che ingeneravano false idee nei fedeli. Quando parlava non si sapeva se parlava il vescovo o la persona e questo danneggiava la Chiesa. Fu un demagogo, amante troppo della pubblicità e della gloria personale»

Monsignor Odo Fusi Pecci, vescovo emerito di Senigallia


Già in passato mons. Nicola Bux si era espresso su questa nefandezza, ecco come la spiegò in una intervista:

  • INTERVISTA

mons. Nicola Bux: la povera Chiesa di don Tonino

«Come diceva Madre Teresa di Calcutta, “la vera povertà è la non conoscenza di Dio”. Solo in questo senso la Chiesa evangelizza davvero i poveri. C’è da chiedersi se sia davvero questa l’eredità che ci ha lasciato monsignor Tonino Bello». Un giudizio severo quello di don Nicola Bux sull’ex vescovo di Molfetta di cui ricorre il 25esimo anniversario della morte. Occasione che il prossimo 20 aprile porterà in pellegrinaggio ad Alessano e Molfetta papa Francesco. Dopo don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari, dunque, il Papa rende onore a un’altra figura di prete e di vescovo controverso. Don Nicola Bux, teologo e liturgista, è stato anche consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede durante il pontificato di Benedetto XVI.

Don Bux, uno slogan che andava molto di moda al tempo di monsignor Bello era “la Chiesa del grembiule”, intendendo con questo il servizio ai poveri. Ma c’è chi ha osservato che se non c’è anche la stola, il servizio ai poveri diventa ambiguo.
Gesù Cristo ha detto che bisogna evangelizzare i poveri, nel discorso programmatico della sinagoga di Nazareth. Ora, l’evangelizzazione cosa significa? Far conoscere la notizia nuova che Dio è venuto nel mondo, prendendo la nostra natura umana. Questo è il Vangelo. Altrimenti, perché la Chiesa dovrebbe occuparsi dei poveri, se non avesse a cuore la loro salvezza eterna? La Chiesa non è un’agenzia di beneficenza, una Organizzazione non Governativa (Ong), ma il Corpo di Cristo, un soggetto che è costituito, nelle sue membra, dai poveri, potremmo dire in gran parte – poveri che non sono da intendere solo in senso materiale, ma anche morale e spirituale – e li aiuta a entrare nel mistero di Cristo.

Questa dimensione sembra però meno percepita e ancor meno praticata.
Ma questa è l’autentica dimensione che ha visto nascere nella Chiesa una miriade di santi della carità, che, nel momento stesso in cui si occupavano dei poveri, li catechizzavano. Molfetta ha già un Servo di Dio, anzi Venerabile, spero, un prossimo santo, che è Ambrogio Grittani, il quale scrive, tra l’altro, che i poveri voleva portarli all’altare. Quindi non si preoccupava soltanto di sfamarli col cibo materiale, ma innanzitutto della loro salvezza eterna, del loro bisogno spirituale, perché, come diceva Madre Teresa di Calcutta, «la vera povertà è la non conoscenza di Dio». Quindi, solo in questo senso la Chiesa evangelizza davvero i poveri. Un vescovo come mons. Bello, o un sacerdote, o un laico cristiano, non dovrebbe avere un’idea diversa. Quindi, perché accusare la Chiesa di disinteresse – come si legge in non poche omelie di Bello – quando da sempre si è occupata dei poveri; e proprio a Molfetta, dove c’era il “Boccone del povero”,  messo su da Don Grittani, l’opera San Giuseppe Labre; proprio lì, nella sua diocesi, insieme ad altre opere caritative e sociali. Quindi, perché prendersela con la Chiesa?

Però è indubbio che don Tonino non faceva solo discorsi. Tra i poveri ci andava veramente, quando non li portava da lui, verrebbe da dire ci viveva. Spesso suscitando polemiche.
Un vescovo, un prete, un cristiano, oltre che aumentare l’azione caritativa – non dimentichiamo che la Chiesa, in Italia e nel mondo, ha promosso le Caritas –  oltre che desiderare il moltiplicarsi delle opere di carità, innanzitutto deve desiderare che l’uomo incontri Gesù Cristo ed entri nella Chiesa, perché Cristo è venuto nel mondo per far conoscere Dio, per rivelare se stesso come la via della salvezza e ha istituito la Chiesa come ambito di salvezza dell’uomo. Il massimo aiuto da dare ai poveri, è portarli a Cristo; ecco il senso dei sacramenti, che fanno entrare l’uomo nella Chiesa, nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Se un vescovo dimenticasse questo, avrebbe una comprensione carente del suo ministero. Infatti, gli Apostoli istituirono i diaconi perché si dedicassero alla carità, mentre riservarono per sé la predicazione e i sacramenti.

Forse si è ridotta la comprensione del termine “carità”.
Credo che si sia ridotto innanzitutto il senso dell’incarnazione, cioè la ragione per cui Dio si è fatto uomo. Di conseguenza, non conoscendo più questo, siamo caduti in una sorta di deismo, per cui basta credere in un Dio qualsiasi… Di conseguenza, non c’è motivo di ripetere l’invito di Cristo a convertirsi e a credere al Vangelo, per cui la parola “conversione”, è assente, nella predicazione, nelle conferenze teologiche, perché questo termine, come dire, andrebbe a toccare quella che è la condizione reale dell’uomo, chiedendogli davvero un mutamento di mentalità. Cristo ha inaugurato la sua missione pubblica invitando a convertirsi e credere al Vangelo: la Chiesa è stata istituita per questo.

E quindi il termine carità come lo dobbiamo intendere?
Il termine “carità” va inteso, come lo ha sempre inteso la tradizione cattolica: l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo, che sono assolutamente inscindibili. Questa è la carità, che deve essere una virtù, cioè un abito permanente del cristiano. Siccome non sussiste l’amore verso il prossimo, se prima non c’è l’amore verso Dio, bisogna, appunto, amare Dio. L’amore di Dio implica dare del tempo a lui – ecco il senso del culto a Dio, nella preghiera a Dio, nella fede in Dio – e di conseguenza scaturisce l’attitudine, la virtù dell’amore verso il prossimo. E quindi, dal tempo che diamo a Dio,  consegue anche la dedizione nostra al prossimo. Altrimenti la nostra attenzione al prossimo, si confonde col volontariato; ma il volontariato non è la carità. Il volontariato è l’azione a cui presiede la volontà, ma direbbe San Paolo: se anche dessi le mie sostanze ai poveri, ma non ho la carità…

Don Tonino Bello parlava molto anche dei lontani da raggiungere…
I lontani, la Chiesa gli ha sempre desiderato portarli vicini a sé, includerli nella Chiesa; altrimenti oggi sarebbero quattro gatti. Il punto è che mons. Bello, come i “cristiani del dissenso” degli anni ’70, manifesta spesso una insofferenza per la Chiesa, al punto – mi pare in qualche omelia – di descriverla come matrigna e non madre. Eppure, la Chiesa ha sempre avuto l’anelito missionario di raggiungere tutti i confini della terra, in obbedienza al comando di Gesù, di andare in tutto il mondo e fare discepole tutte le creature e battezzarle. Invece, si accusa la Chiesa di aver colonizzato i popoli, di averli espropriati della loro cultura, e così via. Ma domandiamoci: i lontani, oggi, si sono avvicinati alla Chiesa, con tutte le attività pastorali che si promuovono? Un tempo si usava il termine, molto più appropriato, di apostolato e si operava per riportare l’uomo nella casa, nella casa sua che è la Chiesa del Dio Vivente. Così, era molto minore la lontananza. Invece, con tutti i discorsi e le azioni pastorali, la società si è scristianizzata; all’inizio del secolo scorso il  drammaturgo inglese Thomas Eliot diceva: ”E’ l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità ?”. Quindi la Chiesa non può chiamarsi fuori: essa abbandona l’umanità, non quando non compie le opere per i poveri, ma quando non annuncia Dio ai poveri, intendendo per poveri, l’umanità che ha bisogno di Dio, che cerca la Verità e ha bisogno di Dio, perché anche chi chiede il pane, a suo modo cerca Dio; quindi la Chiesa non può dare solo il pane che perisce – ha detto Gesù – ma deve dare il pane di vita eterna; perciò ho fatto l’esempio di don Ambrogio Grittani.

Monsignor Bello diffidava della parola identità e amava invece parlare di convivialità delle differenze. Lui usa questa espressione anche per sostenere che tra le Persone della Trinità vi sono differenze.

L’espressione “convivialità delle differenze” è molto ambigua, facilmente viene scambiata per l’indifferentismo, come dire “non è importante la differenza”. Sono molto scettico su espressioni del genere, non diverse da altre, come “teologia della liberazione”,  “teologia della speranza”“teologia del servizio” e così via. Teologia significa: “parlare di Dio” e, aggiungerei, parlare con Dio; quindi, se si parla di Dio, si deve parlare del suo servizio primigenio che è di aver creato l’uomo, di averlo salvato, e del fatto che, nella misura in cui prendiamo coscienza di questo, dobbiamo compiere il servizio della parola divina, dobbiamo far conoscere la parola che salva l’uomo: questo è il vero servizio, sia attraverso le parole che attraverso i gesti, cioè le opere di carità e di misericordia; sempre con l’obiettivo di portare l’uomo al Signore perché l’uomo ha sete di Dio; finché non arriva a vedere il suo volto, il suo cuore è inquieto, come scrive sant’Agostino, perché l’anima sua non ha raggiunto la patria; ecco in che senso noi possiamo parlare di felicità, altrimenti cadiamo nell’edonismo, nell’epicureismo insomma (godi che tanto poi la vita finisce, devi morire), invece la felicità che noi annunciamo è quella che viene dall’incontro con Cristo che dà il centuplo quaggiù e l’eternità. Comunque l’espressione “convivialità delle differenze”, applicata alla Trinità, è una vera e propria eresia. Probabilmente mons. Bello non ne era consapevole. Per lui i misteri della fede erano solo un pretesto per parlare dell’uomo.