“Giordano Bruno, dedicò la sua satira contro la fede e il papa (l’asino ideale) dal titolo Cabala del cavallo Pegaso ad un vescovo – con queste parole “prendetelo, se volete, per uccello; perché è alato e dei più gentili e gai che si possano tenere in gabbia“. (Carlo Dossi scrittore, politico e diplomatico italiano 1849 – 1910)
La storia di Bruno mostra come la propaganda può trasformare un uomo in un’icona. La Massoneria cercava un “martire” da usare contro la sua avversaria: la Chiesa Cattolica. Lo trova in un filosofo del tempo, un frate domenicano, che, pur possedendo una mente fervida, probabilmente non sarebbe mai diventato così celebre se non fosse stato arso al rogo. Unica responsabile di questo, per gli anticlericali, è la Chiesa Cattolica. In realtà, la storia di Giordano Bruno è molto più complessa, documenti alla mano. Personaggio inquieto e fortemente contraddittorio, si rese inviso a tutti coloro che lo ospitavano non tanto per le sue idee libere, come molti credono, quanto per il suo carattere e per la sua voglia di stupire e provocare sempre, fino alla fine. La Chiesa del tempo cercò di salvarlo fino all’ultimo: lui scelse la morte volutamente, continuando a sfidare anche chi voleva salvarlo. Insomma, in pochi anni Giordano Bruno è scomunicato dalla Chiesa Cattolica, dai calvinisti, dai luterani…
(si legga anche qui: Strumenti Tortura e Inquisizione: i falsi in cui avete sempre creduto )
QUI l’articolo anche in formato video-audio:
nel 2014 Rino Cammilleri ci recensì l’articolo – vedi qui – che allora fu pubblicato da papale.papale, in modo da noi inaspettato, ringraziandolo per averci citato e appoggiato il nostro duro lavoro da biblioteca.
Credo sinceramente che persone come Teresa di Calcutta, Padre Pio, Giovanni della Croce, Teresa di Gesù, Caterina da Siena, Francesco di Assisi, la stessa Giovanna d’Arco e tanti altri abbiano sperimentato quello che è lo scopo fondamentale dell’inabitazione trinitaria che la Santa d’Avila riassume molto bene quando dice che, alla fine del percorso mistico, “siamo pronti per esser venduti come schiavi”.
In sintesi, ciò si attualizza nell’identificazione totale con Cristo sulla sua croce alla quale siamo pervenuti per i Suoi meriti, per la volontà del Padre, sotto l’azione dello Spirito Santo, ma anche per merito di qualche buona ripetizione fatta dai santi per rendere viva, pulsante e attuale la loro scuola. Una scuola che è quella dei fiduciosi nella luce, anche quando l’anima cade in qualche black-out, anche quando, ammettendo la loro aridità, qualche ingenuità o persino qualche caduta, in realtà pregano la luce di venire presto e intensa più che mai.
Quanto è qui premesso è importante perché da qui, da questa panoramica sull’autentica lotta dell’anima verso la verità, intendiamo procedere verso l’argomento dedicato a Giordano Bruno. Non intendiamo giudicare qui il pensiero del Bruno, assai complesso ed opinabile da molti punti di vista (e perché personalmente non ne avrei la competenza), quanto piuttosto analizzare un certo fenomeno storicamente strumentalizzato che ha fatto di Giordano un mito del libero pensiero e, di conseguenza, la Chiesa quale matrigna oscurantista.
Un pregiudizio anticattolico duro a morire
Scriverà Franco Cardini, il noto medievista: “Non illudetevi, il tempo delle «leggende nere» e delle «tenebre del Medioevo» non è ancora passato. Può sembrare che le vecchie polemiche illuministiche, massoniche e anticlericali contro la Chiesa «che ha fatto le crociate e l’Inquisizione, che ha bruciato le streghe e Giordano Bruno, che ha torturato Campanella e perseguitato Galileo» si siano attutite…. ma non è così, il fuoco del pregiudizio anticlericale e anticattolico cova sotto le ceneri, ed è pronto a divampare di nuovo. Avete mai fatto caso al pullulare di indecorosi «Musei della tortura medievale» che costellano le città turistiche europee? I furbastri che li gestiscono fanno soldi spargendo calunnie anticattoliche: e agiscono del tutto indisturbati anche perché i cattolici non conoscono la storia e hanno paura di esporsi”. (1)

Noi vogliamo chiederci: come ci è arrivato, Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori nel cuore di Roma, in un monumento che non gli si addice affatto e vestito da domenicano?
Il 17 febbraio 2000, a 400 anni dal giorno della morte di Giordano Bruno, papa Giovanni Paolo II fa inviare una lettera (non archiviata nel sito ufficiale del Vaticano), scritta dal Segretario di Stato Angelo Sodano, nella quale viene espresso dispiacere per la morte brutale sul rogo definendolo: “un triste episodio della storia cristiana che provoca profondo rammarico”. Anno giubilare fu quello in cui Bruno fu ucciso, anno giubilare è stato quello in cui è stato espresso rammarico per la sua morte.
Si tratta – continua il cardinale Sodano – di quella “purificazione della memoria” che il Papa ha voluto tra gli obiettivi del Giubileo, “chiedendo a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le proprie mancanze e quelle di quanti hanno portato e portano il nome di cristiani”. Certo, Giordano Bruno professò convinzioni “incompatibili con la dottrina cristiana” – spiega l’allora Segretario di Stato – “resta il fatto che i membri del Tribunale dell’Inquisizione” lo processarono “animati dal desiderio di servire la verità e promuovere il bene comune”, tuttavia “oggettivamente alcuni aspetti di quelle dure sentenze e, in particolare, il loro esito violento per mano del potere civile non possono non costituire oggi per la Chiesa – in questo come in tutti gli analoghi casi – un motivo di profondo rammarico. Del resto – prosegue il cardinale Sodano – questa condanna fu un evento che scaturì dalla dura reazione controriformista ai tentativi di modificare i temi della fede religiosa iniziati alcuni decenni prima con la riforma protestante. Si usò durezza con durezza anche se, nel suo caso, Papa Clemente VIII cercò con ogni mezzo di salvargli la vita e si oppose contro ogni tortura. Giordano Bruno non potrà essere certo riammesso nella comunione dottrinale, ma deve essere chiaro che la Chiesa predilige altri sistemi per correggere gli errori e che sono il perdono, il dialogo, la comprensione, la libertà di coscienza nella quale maturare la comprensione verso gli errori e attendere fiduciosi la conversione degli erranti”.
Ma Bruno, prima, chi se lo filava?
Non so perché mi viene a mente questo quadro molto interessante, impossibile da non condividere: “C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine (…). Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia”. (2)

Dunque Giordano Bruno muore sul rogo il 17 febbraio del 1600 – a Campo de’ Fiori, appunto – ed è curioso che fino al 1800 di lui non si sente parlare, della sua storia non si sa nulla o quasi, è un soggetto eretico non solo per la Chiesa Cattolica ma anche per il Protestantesimo storico. Si tace di lui fino a quando, nel 1802 il filosofo idealista Schelling (appassionato di gnosi cristiana antica) gli dedica un “Dialogo” intitolato Bruno o del principio divino e naturale delle cose che non ebbe un successo immediato, né suscitò quella curiosità verso il destinatario del testo che Schelling sperava.
Poi, da dopo l’unificazione d’Italia nel 1861, la propaganda anticattolica filo massonica inizia ad usare il “caso Giordano Bruno” per montare una campagna di accusa contro la Chiesa e l’Inquisizione. Non a caso la massoneria dell’epoca “canonizzerà” Giordano Bruno “martire del libero pensiero”. L’apice di questo progetto viene raggiunto nel 1889 quando, nel giorno della Pentecoste — bella provocazione! –, il governo massone di Crispi inaugura il monumento divenuto famoso in piazza Campo de’ Fiori, con un Giordano Bruno vestito pure da frate predicatore domenicano.
Pochi sanno che Crispi impose alla Chiesa il “silenzio stampa” per tre giorni consecutivi all’inaugurazione del monumento. Da questo momento nasce il “mito di Giordano Bruno, martire del libero pensiero”.
Se questo è un “martire del libero pensiero”…
Dalla fine dell’800 e grazie alla propaganda anticattolica della massoneria, Giordano Bruno diventa così un eroe e un martire. In verità, si dovrebbe avere l’onestà intellettuale – e proprio in rispetto del libero pensiero – di ammettere che Bruno fu spesso contraddittorio nell’esposizione del suo pensiero e che le sue teorie furono ambigue e arricchite da molte idee ed interessi che avevano animato fin dal principio la testa di questo grande pensatore. Senza dubbio alcuno, infatti, di acume ne aveva, ma, come accade solitamente a molti grandi geni e ai grandi artisti, anche per lui le sue stesse distrazioni lo indussero verso quella superbia che fu la sua stessa rovina. Non dimentichiamo che lui stesso era intransigente e superbo a tal punto che definiva il suo pensiero “aristocratico” e sosteneva che la verità “non va comunicata a qualsiasi persona”.
Nel 1576, nel tempo in cui era un frate domenicano (da qui il nome Giordano dal momento che quello di battesimo era Filippo) ed era stato ordinato già sacerdote, inizia ad avere delle dispute con dei confratelli in cui emerge un atteggiamento di credenza filo-ariana.
I confratelli vogliono andare fino in fondo: viene così fuori una posizione gravemente anti-trinitaria che il Bruno espone con tanto fervore da mettere in allarme i confratelli. Inizia così la prima fase istruttoria voluta dall’Ordine Domenicano in vista di un processo inquisitorio a causa della divulgazione che nel frattempo stavano avendo le sue eresie.
Una cosa va detta ad onore del vero: l’Ordine Domenicano tentò fino all’estremo e fino all’ultimo di proteggerlo e di difenderlo, tanto che non fu l’Ordine a togliergli l’abito, ma fu Giordano a riconsegnarlo, fu lui a comprendere la situazione e a riconoscere di non essere più in comunione con la Chiesa, men che meno con il carisma di San Domenico il quale aveva fondato l’Ordine dei Predicatori per predicare la Veritas, quell’Incarnazione di Dio che ora egli rigettava, mentre stava così maturando una sua verità personale alla quale non voleva più rinunciare.
Riguardo a questa clemenza dei suoi superiori, è lo stesso Giordano a darne testimonianza durante il processo. Alcuni episodi confermano questa clemenza. Una volta gli venne in mente di gettare via tutte le varie immagini dei Santi che gli capitavano sotto gli occhi, mantenendo venerazione esclusivamente per il Crocefisso. Un’altra volta, nel vedere un novizio intento a meditare su Historia delle sette allegrezze della Beata Vergine Maria, un piccolo libretto devozionale e di meditazioni a firma di Bernardo di Chiaravalle, senza troppa gentilezza lo intimò di gettarlo via per dedicarsi piuttosto alla sola vita dei santi Padri della Chiesa. I suoi superiori conoscevano queste “stranezze” di fra’ Giordano e mai ricevette per queste delle sanzioni disciplinari: tuttavia questi piccoli episodi fecero emergere l’insoddisfazione dottrinale di fra’ Bruno e soprattutto fecero trapelare la sua indisciplina verso le questioni devozionali quali il culto dei Santi.
Questa clemenza ha una sua ragione che è onesto riferire a voi lettori. Stiamo parlando di un’epoca travagliata nella quale gli scandali interni alla Chiesa stessa farebbero impallidire gli scandali a cui assistiamo oggi.
Anni in cui non c’era da processare solo Giordano Bruno perché gettava i santini dei Santi o perché preferiva che un novizio studiasse i Padri della Chiesa anziché libretti devozionali: l’ignoranza era ben diffusa e solo in quel tempo in cui Giordano fu sotto processo, l’Ordine Domenicano aveva emanato ben 18 sentenze per scandali sessuali e pure omicidi, infanticidi, aborti. In questo clima, il caso di Giordano non solo era fra i tanti casi di cui la disciplina della Chiesa doveva occuparsi, ma in un primo momento fu probabilmente il meno urgente.
Quando Giordano comprende che sotto processo sta rischiando l’accusa di eresia, a quel punto decide di abbandonare Napoli dove si trovava e si rifugia a Roma presso il Convento dei domenicani, Santa Maria sopra Minerva nel 1576, dove viene tranquillamente ospitato dal superiore, tale Sisto Fabri il quale diventerà poi Maestro Generale dell’Ordine nel 1581.
Odiato dai protestanti, non dai cattolici
Terminata dunque la fase istruttoria, Giordano comprende la situazione, lascia di sua spontanea volontà il convento di Napoli e inizia il suo peregrinare. Non avendo voluto ritrattare le sue eresie sulla Santissima Trinità, viene allora scomunicato e non farà più rientro nella Chiesa.
Questo suo vagabondare, che lo porterà in giro per l’Italia e poi anche in Svizzera, in Francia ed Inghilterra, gli farà gettare l’ancora presso i calvinisti. Solo che non ricevette il trattamento dei Domenicani o della Chiesa stessa che nonostante la prima condanna lo lasciò girovagare liberamente senza più curarsi di lui. Sì, Giordano Bruno divenne anche protestante e per un periodo stette con loro. Tuttavia anche qui si dimostrò insofferente e inappagato.
Dunque a Ginevra diventa calvinista, era il 1579, ma non dura molto: scrive un libello contro un professore della locale università, Antoine de la Faye, e a quel tempo i calvinisti non erano certo delle damine crocerossine. Decidono così di arrestarlo e metterlo sotto processo.
Minacciato di “venire torturato e condannato a morte”, Giordano Bruno abiura e ritratta le accuse. Viene allora riammesso alla “cena protestante” (la santa cena) ma stranamente non viene revocata la scomunica del tribunale calvinista con la minaccia della condanna a morte.
Nel 1991 lo storico inglese John Bossy pubblica un testo chiave, G. Bruno e il mistero dell’ambasciata, dove il libero pensatore viene identificato in un “agente segreto” che passava agli inglesi le informazioni utili a sventare complotti spagnoli contro il trono di Sua Maestà, col nome in codice “Fagot”.
Ma non è finita. Giunto in Germania, Bruno si avvicina anche ai luterani, fino a scrivere un elogio per Lutero, anche se, per quella cifra di contraddizione che sempre lo contraddistinguerà, in un’altra sua opera definisce il Protestantesimo come “una forza pericolosa ed anti illuminista”. Tuttavia i luterani non sono sprovveduti – in fondo il personaggio era già conosciuto – e così il Bruno riceve l’ennesima delusione: anche i luterani, dopo i calvinisti, lo scomunicano a Helmstdt nel 1589, minacciandolo di morte se non pronuncia l’abiura. Così Bruno, dopo aver abiurato, va via anche da loro.
Insomma, in pochi anni Giordano Bruno è scomunicato dalla Chiesa Cattolica, dai calvinisti, dai luterani ed è probabile che a creargli così tante avversioni non fossero solo questioni dottrinali, ma anche un temperamento “complesso e mancanza d’equilibrio” come si percepisce dai testi che ci ha lasciato e che poi vennero presentati come il frutto della “genialità del libero pensiero”.
Non staremo qui a narrare le sue frequentazioni esoteriche e dei circoli di maghi: come abbiamo detto, non abbiamo l’intento di giudicare il suo pensiero, ma solo di focalizzare come arrivò a Campo de’ Fiori e perché, di conseguenza, si verificò la strumentalizzazione della massoneria nell’eleggerlo un martire contro la Chiesa Cattolica.
Perché fu bruciato?
Senza dubbio Giordano Bruno sfidò la sorte, determinando per se stesso un verdetto rovinoso.
Abbiamo già detto che, dopo la prima condanna di eresia da parte della prima istanza curata dai Domenicani, Giordano Bruno, pur essendo fuggito da Napoli, rimase libero di continuare a fare ciò che voleva e di come nel suo girovagare riuscì a farsi condannare anche dai calvinisti e dai luterani e da questi, invece, dovette scappare per non incorrere nella pena di morte pronunciando comunque l’abiura.
Le tappe verso la morte sono due. Giordano giunge a Venezia ospite presso un patrizio disposto a spendere molti soldi per ottenere da lui (oramai famoso) “l’arte magica della memoria artificiale”, ma il suo mecenate rimane deluso. Inoltre Giordano si è stufato e vuole andare via: in più, il suo ardire eretico e sacrilego contro la dottrina e la Messa “disgustano” il patrizio al punto tale che finisce per denunciarlo all’Inquisizione. L’Inquisizione conosceva perfettamente la presenza dell’eretico in città, ma non agisce fino a quando non scatta la denuncia. L’anno prima, 1591, Bruno è infatti a Padova ad insegnare pubblicamente sperando di ottenere, invano, la cattedra in matematica.
A quel punto Bruno, vedendo il tradimento del patrizio, chiederà lui stesso di essere giudicato dal tribunale di Roma e Venezia acconsente. Come davanti al tribunale calvinista, anche a Venezia Bruno nella prima istanza fa abiura: in un primo momento, si getta in ginocchio e si dichiara pronto a rinnegare ogni eresia. Ma cosa fa? Invece di pentirsi veramente chiede che l’abiura non sia “ufficialmente pubblica, né pubblicata”, pretende che resti segreta, ricattando in un certo senso gli inquisitori per il fatto di essere pur sempre un domenicano e per il bene dell’Ordine era meglio se il tutto rimanesse appunto coperto (mancava dall’Ordine oramai da anni senza indossare l’abito da cui aveva ricavato delle calze). Proprio per la delicatezza del caso, giunge così a Roma come da lui stesso chiesto.
In verità, Giordano Bruno voleva andare a Roma perché aveva in mente di influenzare con le sue “arti magiche” – o se preferite l’arte oratoria e dei giri di parole – il Pontefice, cosa che ovviamente non gli riuscirà. Per altro, Giordano si occupava di pratiche di “magia nera”, attraverso la quale tentava di esercitare proprio una sorta di coercizione della mente, un controllo sulla psiche, una sorta di illusionismo sorretto da una certa forma di ipnosi, ma non ce ne occuperemo in questa sede.
Dai lavori del primo vero processo dell’Inquisizione, questi furono gli atti di accusa che Giordano Bruno confermerà come fatti reali:
- avversione alla fede cristiana;
- negazione della SS.ma Trinità;
- negazione della divinità del Cristo;
- negazione dell’Eucarestia (dileggerà con una risata anche la santa cena calvinista);
- negazione della verginità di Maria e della Messa in quanto “sacra”…
- credenza nella trasmigrazione delle anime;
- pratiche magiche.
Non si era più solo nell’eresia riguardo un tema o un articolo di fede, ma in una gravissima apostasia, con l’aggravante dell’esoterismo e della magia. Qui inizia la storia occultata creata a tavolino dalla massoneria e dalla storiografia dell’800.
I lavori dell’Inquisizione romana cominciano il 27 febbraio del 1593. Giordano Bruno viene trattato con i “guanti bianchi”, non subisce torture se non dopo il settimo anno di processo (dicono che ne subì una sola, ma probabilmente nessuna) (3), e tanto durò il suo caso perché il Papa, ad un certo punto, fa riaprire il processo dopo un finale quasi raggiunto chiedendo che vengano raccolte tutte le sue opere e “passate al vaglio dai teologi per valutarne il contenuto”. In verità, al papa piaceva lo spirito di Giordano Bruno e cercò in tutti modi di trovare nelle sue opere qualche spunto di sana ortodossia riguardanti la Scrittura e la Tradizione, vista la sua stessa passione per i Padri della Chiesa.
Il papa stesso presiedette quasi a tutte le udienze e spesso intervenendo cercando di comprendere la complessità del soggetto. È una grave disonestà intellettuale tacere che il papa cercò fino alla fine di salvare Giordano Bruno. Lo stesso cardinale (santo, dottore della Chiesa e gesuita) Roberto Bellarmino, lo trattò con grande riguardo, cercando di valutare con attenzione eventuali appigli per salvarlo.
Dai documenti finali del processo definitivo, durato sette anni, saltò fuori dunque che Bruno affermava:
- che Gesù era un peccatore come tutti gli uomini e che non era Dio Incarnato;
- che l’inferno era una invenzione romana;
- che Caino non peccò uccidendo Abele;
- che Mosè era un mago e che inventò le tavole della Legge.
Bruno comunque decide anche qui, in un primo momento, di abiurare, ma quando sta per farlo, inizia a tentennare e ritorna sulle sue decisioni. Riceve due volte il termine di 40 giorni entro i quali prendere una decisione, ma tutto è inutile. Interviene il Maestro dei Domenicani dopo gli 80 giorni concessi: Bruno gli dice di essere stato frainteso, si riportano allora tutti gli atti del processo ma con un atteggiamento di sfida li riconferma uno per uno. Comincia ad apparire evidente la presa in giro del soggetto. Bruno vuole solo guadagnare tempo. Il papa decide allora di cambiare strategia: l’8 febbraio gli vengono letti pubblicamente gli atti del processo con la decisione della condanna quale “eretico formale”, cioè, eretico “consapevole e convinto delle sue posizioni” e quindi a rischio.
Nonostante la condanna, il cardinale Bellarmino, su suggerimento del Papa, ci riprova, lo va a trovare in cella per convincerlo a ricredersi, lo fa incontrare con due santi predicatori domenicani, ci prova anche un predicatore francescano, ma non c’è nulla da fare.
Il 17 Febbraio del 1600, Giordano Bruno viene consegnato al braccio secolare per essere giustiziato (4).
Quel monumento “malinconico”…
Giordano Bruno aveva idee non solo eretiche, ma sovversive e di natura politica. Sia gli inglesi che i calvinisti a Ginevra lo giudicano essi stessi un “pericoloso che mette a rischio l’ordine costituito”: tanto per capire il linguaggio dell’epoca è come se lo avessero additato come una sorta di “brigatista” degli anni ’70 o se preferite un mafioso.
Non dimentichiamo che il tribunale calvinista lo condanna per eresia minacciandolo di tortura e di morte se non fa abiura. Qui infatti Giordano fa l’abiura e si salva, ma deve andare via: non ci risulta ci sia mai stato un Mea Culpa dall’ala protestante.
Un altro grande personaggio (il cui nome forse è sconosciuto ai più) è Michele Serveto (1511-1553), umanista, teologo e medico spagnolo, scopritore della circolazione polmonare del sangue, uomo dal carattere impetuoso ed irruento. A causa delle sue posizioni antitrinitarie fu arso vivo a Ginevra il 27 ottobre 1553 dal riformatore Giovanni Calvino, il quale gli negò persino l’avvocato. Ma la risposta ancora non ci soddisfa.
La Chiesa all’epoca collaborava con il legittimo “Ordine costituito”, esercitato dal braccio secolare, che prevedeva la pena di morte, come lo è ancora oggi in alcuni Stati nel mondo e come lo era in Francia fino al 1953. Quindi la Chiesa aveva il diritto e il dovere di intervenire, laddove era di sua competenza, per frenare il cadere dei valori del proprio tempo. Inoltre era un frate domenicano, seppur rinnegato, dunque rientrava nelle sue competenze, ed è invece indicativo che durante il processo non gli venne mai imputato l’essere diventato protestante.
Non dimentichiamo che nel 1535 venivano decapitati Tommaso Moro e il vescovo John Fisher per essersi opposti alla supremazia di Enrico VIII quale capo della nuova chiesa in Inghilterra. Non ci risulta che i loro monumenti siano stati usati contro l’Inghilterra, il re o la regina!
La lotta contro le eresie non può essere giudicata con la mentalità odierna, né essere valutata con un becero moralismo in base a norme giuridiche democratiche che all’epoca semplicemente non esistevano e dove la pena di morte era applicata ovunque. Lo stesso mea culpa di Giovanni Paolo II parla senza dubbio di “dolore, rammarico” per i modi attraverso i quali la Chiesa stessa si adoperò per certe condanne, ma non condannò affatto i suoi Predecessori nelle sentenze riguardo alla fede ed ai costumi giustamente difesi.

Cerchiamo di rispondere ora alla domanda sul monumento. Il 9 giugno 1889, giorno di Pentecoste, sotto il pontificato di Leone XIII, veniva inaugurato a Campo de’ Fiori, il monumento di Ettore Ferrari, lo scultore che nel 1904 sarà eletto “Gran Maestro” della massoneria. Alla base del monumento si legge un’iscrizione del filosofo Giovanni Bovio, oratore ufficiale della cerimonia di inaugurazione: A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse.
In verità a nessuno interessava il vero pensiero di Giordano Bruno: all’epoca dell’inaugurazione del monumento, egli era semplicemente l’icona di una nuova arma in mano alla massoneria contro la Chiesa e il Pontefice. Poco si dice che, durante i lavori per la realizzazione del monumento, le cose non andarono in modo pacifico. Ogni giorno si dovette assistere a scontri anche gravi tra coloro che volevano il monumento e quanti non lo volevano perché appariva chiaro che questo era una provocazione e si ergeva contro il papato e contro la Chiesa intera.
Crispi, diventato capo del governo, nel 1887 avvia i lavori per la statua senza chiedere alcun parere: anzi, ben sapendo della vile provocazione, vuole che questa sia proprio una sfida alla Chiesa. Durante questo anno, il comune di Roma – nel quale erano affluiti cattolici-moderati tipo un “pidino” moderno, tanto per capirci – cercò di evitare il monumento tentando di aggrapparsi a risposte burocratiche e non è certo normale che una intera giunta comunale finisca per cadere e per essere rimossa a causa di un monumento! Il clima rimase arroventato per tutto l’anno, vedendo ogni giorno scontri soprattutto fra gli studenti pro e contro il monumento.
Infine Crispi, strumentalizzando la gravità stessa degli scontri scatenati dall’inaugurazione della statua, ordina un divieto alla Chiesa di far manifestare i contrari e le impone il silenzio per tre giorni. In verità egli sapeva che non erano pochi i contrari al monumento e di conseguenza impone paradossalmente il silenzio al libero pensiero, mentre ne benedice l’icona. Ma non è finita.
Alla fine del 1887, infatti, poco prima dell’inaugurazione, il re firma a sorpresa un decreto con il quale rimuove il sindaco di Roma: in apparenza non c’è spiegazione, ma di fatto Leopoldo Torlonia aveva commesso l’errore e l’imprudenza di far recapitare al papa Leone XIII un omaggio di solidarietà e filiale devozione. Tanto bastò perché i difensori del “libero pensiero”, al quale stavano per innalzare un monumento, rimuovessero dal suo incarico, paradossalmente e con palese contraddizione, un sindaco che aveva espresso altrettanto liberamente un omaggio filiale. Non dimentichiamo che Leone XIII fu odiato dalla massoneria molto più di Pio IX.
Papa Leone era stato il primo pontefice a condannare senza mezzi termini la massoneria, addirittura attraverso una enciclica che, come disse Ratzinger, è ancora attualissima e valida sia nei contenuti sia nelle condanne ad essa relative (5).
Un gesto riconciliatore?
Porta Pia era stata conquistata, il Risorgimento era all’apice della sua ubriacatura anticattolica: Giordano Bruno diventa così l’icona della non sottomissione a nessuno, la prima vera icona dell’uomo senza un Dio, l’ideale quale simbolo massonico e non a caso è definito il “monumento malinconico” alla cui inaugurazione parteciparono circa tremila massoni, raggruppati sotto i labari delle logge di appartenenza. Non è un caso che lo stesso filosofo liberale Benedetto Croce (1866-1952) attaccò affermando «l’idiota religione massonica», un’eredità che a suo parere era derivata dalla Rivoluzione francese.
Dopo i Patti lateranensi del 1929, si cercò con Pio XI di trovare una soluzione equa: erigere al posto della statua una Cappella in onore al Cuore divino di Gesù quale segno di riconciliazione e di espiazione (come vedete già prima del Giubileo del 2000 troviamo il desiderio del mea culpa), una sorta di riconciliazione sia per il Giordano che, pur pagando per le sue idee, era comunque sia un rinnegatore dell’Incarnazione di Cristo (e volle morire rifiutando i sacramenti), sia per la Chiesa stessa che stava maturando sulla crudeltà ma soprattutto sull’inefficacia di certi metodi che all’epoca erano “normali” e facevano parte dell’ordinamento civile.
Vogliamo concludere queste riflessioni riportando un passo della rivista Civiltà Cattolica del 1890 vol.7 pag.98 nella quale leggiamo testualmente:
“Il giorno 9 giugno ricorreva l’anniversario, d’ infausto ricordo, del monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori. Chi l’avrebbe mai creduto che un anno dopo di quella sacrilega e sguaiata gazzarra, si sarebbe veduto lo spettacolo dell’indifferenza e dell’oblio verso un personaggio di cui la massoneria ha voluto fare un soggetto di perenne offesa a Dio, alla Chiesa e al buon senso del popolo romano? La verità è che la festa anniversaria è riuscita a un fiasco solenne e vergognoso; perocché, mancando quelle poche migliaia di persone calate, l’anno scorso, a Roma da ogni parte d’Italia, ubbidienti agli ordini della mala sétta e aiutati di uno scandaloso permesso del governo, che si potea aspettare in una città dove il popolo è addirittura renitente a piegarsi al giogo dell’iniquità? E’ stato detto e assicurato da persone degne di fede, che quelli che la domenica giorno 9 si recarono a deporre una corona sulla base del monumento, rimasero umiliati e confusi, non avendo trovato in Campo de’ Fiori altro pubblico che quello del fruttivendolo e dei bagarini, né altri applausi riscossi che le risa e i motteggi di quella brava gente”. (6)
NOTE
1) Franco Cardini articolo su Avvenire del 2004.
2) Andrea Cammilleri (l’ideatore della fortunata serie: Montalbano), intervista febbraio 2009 per descrivere cosa è e come è visto l’italiano oggi.
3) «Bruno non fu mai torturato e la diversa convinzione o dubbi al riguardo dipendono da una scarsa conoscenza dello stile del Sant’Ufficio romano: il termine usato per Bruno, “stricte”, indicava un interrogatorio stringente, con contestazioni specifiche, mentre la tortura veniva formalizzata in termini diversi, con il voto previo dei consultori, durante una seduta della Congregazione». A. Del Col, L’inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Arnoldo Mondadori Editore 2007.
4) cfr – Il processo a Giordano Bruno – Salerno editrice (excursus storico delle tappe fondamentali)
5) Leone XIII, condanna della massoneria, Humanum genus.
6) Civiltà Cattolica del 1890 vol.7
Suggeriamo, anche il libro di Rino Cammilleri e AA.VV. Piccolo manuale di apologetica ed. Piemme. Per le fonti prettamente cattoliche ho usato anche il testo originale, in mio possesso, de “Il Movimento Cattolico” Anni 1888-1889, documentazione ordinaria degli eventi ecclesiali e pontifici, dalla pag. 245 e seguenti è descritta la situazione inerente al caso dell’inaugurazione del monumento con i giornali dell’epoca.
(si legga anche qui: Strumenti Tortura e Inquisizione: i falsi in cui avete sempre creduto )
Giordano Bruno viene spesso presentato come un martire del libero pensiero, perseguitato dalla Chiesa cattolica. In questo intervento ne ripercorreremo la vita, per verificare, oltre la leggenda che lo avvolge, che tipo di uomo egli fosse realmente. In questo audio la bellissima lezione del professore Matteo D’Amico:
Giordano Bruno, un eroe fallito
Fu davvero un campione del libero pensiero ingiustamente messo al rogo, come ritiene chi ne vorrebbe la riabilitazione? Appunti per l’anniversario a quattro secoli dalla morte
di Dario Rezza – 30Giorni dicembre 1999
A quattro secoli di distanza dal rogo che in Campo de’ Fiori a Roma pose fine alla vita di Giordano Bruno, è legittimo formulare una domanda: fu veramente il Bruno l’eroe del libero pensiero, ingiustamente “abbruciato” da una autorità retriva e oppressiva? Che valore ha questo mito storiografico che ha segnato la formazione dell’identità italiana dell’Ottocento in cerca di emblemi di libertà? Anche a non voler condividere il giudizio negativo, anch’esso di vecchia data, dello storico Zabreghin che «nessuno al mondo fu meno libero pensatore di quest’uomo», una revisione demitizzante oggi si impone. La critica storica ci ha insegnato a non ridurre a moduli elementari situazioni e comportamenti complessi e a sfatare le favole belle degli eroi.
Nel triennio 1998-2000, oltre le letture e i seminari bruniani in diverse città d’Italia, hanno avuto luogo o sono in via di attuazione a Londra, Chicago, Tokyo, Barcellona convegni di studio su Giordano Bruno e a Pechino recentemente (settembre 1999) è stata presentata la traduzione cinese del Candelaio, quella commedia bruniana che il nostro Carducci stimmatizzò come «volgarmente sconcia e noiosa». Ben vengano manifestazioni e studi filosofici e letterari su un personaggio estroso e geniale che merita una rivisitazione storica. Ma è opportuno anche non confondere i reali meriti del letterato e del pensatore con la mitizzazione che ne è stata fatta e la venerazione che oggi gli adepti del New Age gli riservano quale loro antico precursore e maestro.

La statua di Giordano Bruno in piazza Campo de’ Fiori, a Roma, nel luogo in cui venne innalzato il rogo sul quale morì il 17 febbraio 1600
A coloro che vorrebbero comunque ancora oggi definirlo un eroe, si potrebbe provocatoriamente suggerire di applicarvi almeno un aggettivo: un eroe fallito. I suoi propositi furono certo grandiosi, come è proprio di certi ingegni particolarmente dotati, ma rimasero nell’ambiguità e nell’equivoco tipici delle menti distratte da molteplici interessi.
Giramondo e opportunista: a Ginevra divenne calvinista, a Wittenberg ammiratore di Lutero, salvo poi affermare che la Riforma protestante ha esasperato le componenti «asinine» del giudeo-cristianesimo, ha lacerato l’unità spirituale europea, ha suscitato conflitti, ha provocato decadenza nella cultura, ha dissolto i valori di patria e di solidarietà, ha rovinato il costume pubblico e privato, ha introdotto «pazzi riti».
Frequentava il mondo dei re e dei gentiluomini: al seguito del principe polacco Alberto Laski nel suo primo viaggio a Oxford, protetto (e poi perseguitato) da Enrico III (cui dedicò nel 1582 il suo De umbris idearum) a Parigi, ospite dell’ambasciatore francese Michel Castelnau de Mauvissière (cui dedicò la Cena delle ceneri), a Londra, dove esaltò Elisabetta d’Inghilterra quale «dea sulla terra», accolto in Germania dal granduca di Brunswick. Auspicò la vittoria dei sovrani illuminati e assoluti, Enrico ed Elisabetta, minacciati dal fanatismo religioso: l’assolutismo monarchico, superiore a divisioni confessionali e settarismi nonché ai valori mercantili e plebei e alle fortune ereditarie di stampo feudale, era, a suo giudizio, il solo in grado di sconfiggere, politicamente e militarmente, gli «asini del mondo» e ridurre al silenzio sia la «poltronesca setta dei pedanti» aristotelici che disprezzavano la nuova filosofia copernicana sia i protestanti che disprezzavano le buone opere, pur vivendo di rendita su quelle dei loro predecessori.
Aveva una concezione aristocratica della cultura per cui la verità non va comunicata a qualsiasi persona. Fu corifeo della cultura altoborghese: per questa nuova società dominante, aristocratico-monarchica, cercava di fondare una cultura diversa opposta all’antica e una nuova interpretazione della storia, ma non si avvide che la nuova classe al potere chiedeva una scienza ben diversa da quella magica ed ermetica da lui professata, da porre al proprio servizio.
Esaltò Copernico e da lui prese le mosse, ma elaborò una visione fantastica del mondo, fondata su una matematica simbolica di matrice neoplatonica ed animistica. Per lui Copernico era, come leggiamo nella Cena delle ceneri, un «semplice matematico» che non aveva colto il vero significato della propria scoperta, la quale non faceva altro che confermare la filosofia «egiziana» dell’animazione universale.
Elaborò, ispirandosi a Raimondo Lullo, l’arte mnemonica, ma gli sfuggì che considerandola una sintesi del pensiero, essa non può ridursi a un aggregato meccanico artificioso. L’educazione della memoria era comunque intesa come una tecnica per conquistare la personalità di mago.
Formulò un principio, che se fosse stato ben valutato avrebbe tagliato sul nascere le gambe alle elucubrazioni del razionalismo di stampo cartesiano, secondo cui «altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura», ma il suo nominalismo, che lo portava a fare di ogni determinazione della realtà un’essenza, gli impedì una ricerca realistica del mondo.
Proclamò il rifiuto elitario della ragione ad accettare il mistero religioso, ma poi cadde in braccio alla magia. Polemizzò col cristianesimo respingendolo come «bella fabella», una favola cioè utile «per li rozzi popoli che devono essere governati», e ironizzò su Cristo, la sua natura divina, i suoi miracoli, ma ritenne la dottrina cristiana migliore delle altre «finché storia non provveda diversamente». Si era proposto infatti di essere il riformatore della religione, ma appare ben consapevole che la sua riforma è un’utopia: solo dopo la lunga eclissi dei tempi biblico-cristiani, la verità, egli afferma, tornerà a dominare sulla terra, ma per ora è esclusivamente celeste, astratta, filosofica. E tale verità proposta dal Bruno, a ben guardare, era una traduzione mistico-filosofica pagana di dogmi cristiani. Anche il testo sacro viene piegato dal nolano ai propri fini con una sottile riscrittura di passi ampiamente discussi nella esegesi tradizionale. Con uno sguardo ironico alla nuova cultura biblica della Riforma protestante.
Si propose di costruire un’etica normativa che, in quanto tale, non può che essere un’etica della continenza, ma contemporaneamente diede luogo a un’etica della legittimità degli istinti naturali. Ammirò perciò l’Aretino che andava sciorinando tutti i risvolti dell’istinto sessuale irridendo al sublime o alla sublimazione dell’amore per immergersi nella comicità dell’esperienza istintuale. E per il Bruno la poesia d’amore non è che la decorazione del brutale istinto della procreazione: basta leggere la grandiosa invettiva, proprio all’inizio dell’Argomento del Nolano, preposto agli Eroici furori, dove il lessico amoroso discende progressivamente al quotidiano e al volgare, per capire come per lui l’amore umano si riduca all’istinto. Il quale, come già evidente nella conclusione della sua prima opera, Il Candelaio, ben s’inserisce nel caos dei comportamenti umani.
Ciò che voleva dire non riuscì a dirlo nel suo linguaggio barocco: la proliferazione di immagini e di tutti gli strumenti retorici e letterari, di tutte le forme della parodia, del comico, dell’ironia blasfema hanno funzione irrisoria ma non costruttiva di valori. Quell’ingente impiego di forme letterarie per esprimere nel trionfo della letteratura quasi un’allegoria delle sue conquiste filosofiche appesantisce e non sempre chiarisce il significato della sua scrittura, mutandosi a volte in un gioco logorroico. Del resto il Bruno stesso, nell’Argomento del Nolano, ha affermato la fondamentale arbitrarietà di ogni discorso allegorico e la necessità che sia l’autore stesso a darne l’interpretazione. Anche se quel suo linguaggio, trasgressivo e audace quanto la sua filosofia, conserva un suo innegabile fascino, come tutto ciò che in maniera letterariamente irregolare, tra il blasfemo e l’osceno, tende alla parodia delle istituzioni.
Lo stesso suo ideale di eroe, quello degli eroici furori – anima tormentata che non gode del presente ma del futuro e dell’assente, pervaso da un impeto intellettuale verso il bello e il buono, che tende infinitamente verso l’infinito, e, così invasato, appare inadatto alle cose di questo mondo –, non incarna il momento più importante delle sue vicende che fu senza dubbio politico, cioè di ricerca di una nuova scienza e di una nuova cultura che fossero espressione della nuova classe dirigente, ma per le quali egli non aveva ancora gli strumenti adeguati.
In sostanza il Bruno non è quello venerato da una certa cultura laica antiecclesiale dell’Ottocento: è singolare tra l’altro che ad inneggiare all’erezione del monumento a Bruno in Roma nel 1889, insieme a framassoni e così detti liberi pensatori, ci fossero molti ebrei, ignari di quanta polemica antigiudaica confluisca negli scritti del nolano dall’umanesimo italiano del Quattrocento attraverso Erasmo suo “maestro”.
Fu uomo del suo tempo, che non si prefisse tanto di affermare il diritto dell’uomo a credere ciò che pensa e ad abbattere l’autorità ottusa che lo impedisce, quanto piuttosto di proporre una sua visione del mondo, in parte magica ed ermetica, in parte coacervo di influssi diversi non ben amalgamati in una costruzione barocca, con la pretesa che essa potesse proporsi anche come la religione del futuro. Fu cioè un sincretista di vastissime letture e cercò di inserire e far convivere, nell’alveo della sua visione ermetica, Platone e gli scolastici, i manuali di magia e i dogmi cristiani.
A quattro secoli dalla sua morte demitizzare la sua figura e riumanizzarla nelle sue intemperanze e intuizioni, errori e grandezza, debolezze e slanci, ci dà la possibilità di rileggere alcune delle sue opere con spirito sgombro da pregiudizi e di goderle per ciò che le rende ancora fruibili. C’è una pluralità di registri nel pensiero del nolano che alimenta oggi gli studi bruniani più seri e che merita di essere messa in luce, abbandonando la “Bruno-mania” di stampo ottocentesco, fatta di superficialità e di retorica.
Sul rogo acceso a Campo de’ Fiori, sui tormenti, che giudichiamo oggi scarsamente cristiani, inflitti al Bruno nei sette anni della prigionia romana, sul lungo processo che lo vide impenitente e in aperto atteggiamento di sfida, credo che ormai sia sufficiente una veloce puntualizzazione. Il processo fu condotto in stretta legalità, senza acredine, ma nei modi rispondenti agli usi dei tempi. Il Bruno da parte sua fu, pur tra arrendevolezze e rifiuti, dogmatico e intransigente quanto i suoi accusatori, estroso e a volte sprezzante, litigioso e volgare. Usatissima poi era ai suoi tempi la pena di morte (anche per piccoli furti), esecratissima era ritenuta l’eresia, non solo dal punto di vista religioso ma anche sociale e giuridico. I temi del contendere furono teologici, quali la Trinità, l’Incarnazione, la vita ultraterrena, salvo qualche teoria pseudoteologica (il moto terrestre): ciò rendeva la Chiesa abilitata a giudicare l’apostata.
E che di eresia e apostasia si trattasse appare evidente non soltanto seguendo gli atti del processo, le censure degli inquisitori e le risposte ambigue del Bruno, ma anche leggendo le sue opere: negata l’immortalità individuale dell’anima umana, ridotta la “fides” a “credulitas”, dissolto il dogma trinitario, negata la divinità di Cristo, la verginità di Maria, il sacramento dell’Eucarestia. Non si trattava di colpire la scienza, ma di perseguire eterodossie formali e gravi infrazioni disciplinari. Non fu un confronto tra il mondo dell’autorità intollerante e quello della libertà conculcata – che porterebbe a una concezione astratta delle vicende umane –, ma, anche a volerlo giudicare con spirito laico, solo un episodio doloroso di quel conflitto di idee che, con diverse modalità, si ripete inesauribile nella storia dell’uomo e continua a fare le sue vittime.
Ma la Chiesa cattolica non dovrebbe sentire di avere comunque un debito nei riguardi del Bruno? Se con questa domanda si intende sollecitare, a quattro secoli di distanza, un mea culpa che sottintenda una riabilitazione del pensatore nolano, ciò non sembra possibile. La filosofia del Bruno, come sarà quella di Spinoza e di Hegel, ma con in più qualche puntata sarcastica e sprezzante, non è conciliabile col pensiero cristiano, men che meno con la sua salvezza, tema invece prioritario della Missione stessa della Chiesa. Auspicabile invece è la comprensione del caso umano e l’affermazione di una coscienza nuova nei rapporti tra gli uomini, nelle modalità attraverso le quali perseguire eretici ed ingannatori. Le posizioni odierne della Chiesa, che la vedono in prima linea nella difesa dei diritti dell’uomo, sono molto lontane da quelle tenute in passato. Questa nuova coscienza deve tradursi non tanto in rammarico (nel caso di Bruno la Chiesa non ha nulla da rimproverarsi), per il numero di eretici dovunque processati in altri secoli e con altre mentalità e soprattutto con altre leggi all’epoca legittime, quanto nell’impegno a ribadire, oggi, che inquisizioni e condanne non sono più necessarie e offendono la dignità dell’uomo, non favoriscono l’avvento del Regno di Dio.

IL RUOLO DEL CARDINALE ROBERTO BELLARMINO NEL PROCESSO A GIORDANO BRUNO
Sfatiamo la leggenda nera.
L’Italia è un paese dove si parla molto e si studia poco. Un terreno ideale per la diffusione di fake news, leggende metropolitane e teorie complottistiche variopinte e fantasiose. Si tratta comunque di un vizio antico, che in passato ha alimentato delle vere e proprie leggende nere. Una di queste riguarda il ruolo svolto dal cardinale Roberto Bellarmino nel processo a Giordano Bruno. Nell’immaginario collettivo, il santo e dottore della Chiesa si è trasformato nel crudele e famigerato inquisitore che ha mandato al rogo il filosofo nolano. Ma le cose stanno veramente così?
Luigi Firpo, insigne figura di storico, scomparso nel 1989, ha dedicato diversi anni di ricerca alla ricostruzione organica dell’intera vicenda processuale che portò alla condanna di Bruno. Un meticoloso lavoro basato sull’esame rigoroso di tutti i documenti disponibili, di cui ha favorito anche un recupero sistematico, con integrazioni fondamentali da lui stesso individuati nell’archivio dell’Inquisizione romana. Ne pubblicò i risultati nel celebre studio “Il processo di Giordano Bruno”, pubblicato in due puntate sulla Rivista Storica Italiana fra il 1948 ed il 1949, e ristampato postumo con ampie integrazioni dalla Salerno Editrice nel 1998. Aggiungo che Luigi Firpo era anche un laico militante, radicale ed estremo, il cui ultimo scritto fu una spietata requisitoria contro “le favole della religione”, pubblicata all’epoca sul quotidiano “La Stampa”. Nel volume citato, Firpo, da studioso rigoroso, chiarisce quale fu l’effettivo ruolo svolto dal cardinale Bellarmino nel processo per eresia contro Giordano Bruno, smontando leggende e luoghi comuni. Val la pena di rileggerlo:
- «… un passo decisivo per la spedizione della causa fu compiuto il 12 gennaio 1599 per iniziativa del più autorevole dei teologi consultori del S. Uffizio, il celebrato autore delle “Controversie”, Roberto Bellarmino; egli propose infatti che, superata la fase delle prove legali e delle contestazioni, si sottoponesse all’inquisito un elenco di proposizioni sicuramente erronee, estratte dal processo ma formulate dai giudici in termini inequivocabili, invitandolo a riconoscerne l’eterodossia e a dichiararsi pronto a abiurarle. L’intento era in sostanza quello di far rinnovare al Bruno la professione di obbedienza recitata a Venezia con tanta prontezza, ma che si voleva sentir reiterare dopo il gran tempo trascorso e i palesi segni di ostinazione mostrati nel XVIII costituto. Due giorni dopo, le proposizioni eretiche, estratte in numero di otto dal processo e dai libri (cioè dalle censure) per cura del Tragagliolo e dal Bellarmino, furono lette in seno alla Congregazione, che approvò la scelta e ordinò che ne fosse data copia al Bruno; la sua risposta avrebbe avuto valore decisivo nella risoluzione della causa, poiché, non essendo egli “relapsus”, l’impenitenza lo votava a quella morte certa, che l’abiura escludeva in modo altrettanto sicuro: le otto proposizioni significavano l’aut aut fra il rogo e una detenzione di non molti anni. Si badi tuttavia che la prova sarebbe stata conclusiva solo in caso di rifiuto, perché nelle proposizioni non si esauriva la materia del processo e, accertata che fosse la buona disposizione dell’inquisito, assai più copiosi argomenti avrebbero intessuto il resto dell’abiura definitiva. Ciò risulta palese dal fatto che nella stessa seduta del 14 gennaio si ordinava di prendere in esame le altre proposizioni eretiche del processo e dei libri e giova a sminuire il nostro rammarico per la perdita del testo integrale delle otto proposizioni, delle quali, come si vedrà, una soltanto ci è nota in modo sicuro.
- Se l’importanza risolutiva di quell’elenco è stata esagerata, una specie di leggenda circonda addirittura l’intervento del Bellarmino, che, sulla traccia d’una voce diffusa a Roma la tempo della condanna, fu dalla storiografia ottocentesca assunto a simbolo della reazione intransigente e fanatica contro l’araldo dei nuovi tempi: ampiamente sfruttato da Berti, il motivo ricorre nello Spampinato e fin nelle successive pagine del Mondolfo, senza che nessuno si sia curato di render ragione a un apologeta del santo Cardinale, che aveva giustamente rilevata la data assai tarda del suo ingresso nella Congregazione rispetto alla lunga vicenda del processo bruniano. Giuseppe Viganesi, un teste del processo di beatificazione del Bellarmino, che depose a Montepulciano nel 1627, riferì di aver visto due volte soltanto offuscata la suprema imperturbabilità del Santo, la prima apprendendo la morte in stato di concubinaggio d’un gentiluomo concittadino, la seconda nel vedere un condannato del S. Uffizio morire impenitente; se è tutt’altro che certo che la commozione del Santo fosse provocata dalla tragica fine del Bruno (perché non da quella di fra Celestino?), certo si è per contro ch’egli intervenne in processo quando gli interrogatori e le censure erano ormai cosa fatta.»
Afferma ancora il Firpo che il 24 agosto 1599 « il Bellarmino riferì alla Congregazione circa il contenuto della scrittura presentata nel corso della visita e relativa alle otto proposizioni abiurande, accertando che il riconoscimento dei proprii errori appariva “clare” in tutto l’autografo bruniano e che solo in due punti si ravvisava una reticenza o esitazione (“videtur aliquid, si melius se declararet”)».
Quindi, leggendo Firpo, se ne deduce che il Bellarmino non fornì alcun elemento per favorire la condanna del filosofo nolano. Al contrario, il Cardinale affermò che Giordano Bruno aveva riconosciuto il proprio errore su sei delle otto proposizioni contestategli come eretiche. Mentre per le altre due la sua posizione non risultava abbastanza chiara, ed era necessario un approfondimento. Questo giudizio non era sufficiente per emettere un verdetto di condanna, e molto probabilmente mirava a salvare la vita a Bruno. Questi sono i fatti ricostruiti da Luigi Firpo attraverso l’esame scientifico delle fonti. Tutto il resto è laicismo facile “prêt-à-porter”, da indossare all’occorrenza in omaggio al più servile “politically correct”. Con buona pace di Roberto Saviano!
(fonte: Domenico Condito, pagina FB)
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E PER ULTIMO, LASCIAMO LA PAROLA AL PONTEFICE LEONE XIII, CHE CON AUTORITA’ DIVINA DISSE E SINTETIZZO’ QUANTO VI ERA DA DIRE, PONENDO LA PAROLA FINE!!
Allocuzione “Quod nuper” al Concistoro del 30 giugno 1889 dove Sua Santità commentava l’inaugurazione della statua in Campo dei Fiori, eretta in onore del ex-frate dalle autorità della “Roma legale”.
LEONE XIII
ALLOCUZIONE
QUOD NUPER
Ai Cardinali di Santa Romana Chiesa presenti nel concistoro svoltosi nei palazzi Vaticani il 30 giugno 1889.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli.
Ciò che recentemente in questo stesso luogo vi dicemmo intorno ai nuovi e più gravi insulti che si stavano preparando in quest’alma Città contro la Chiesa e il Pontificato romano si è già pienamente consumato, con supremo dolore dell’animo Nostro e con scandalo di tutti i buoni. Abbiamo perciò voluto convocarvi espressamente in una riunione straordinaria per esprimere davanti a voi i sentimenti che l’esecrabile avvenimento C’ispira, e per riprovare francamente, come merita, tanta enormità.
Dopo i pubblici rivolgimenti d’Italia e la violenta occupazione di Roma, vedemmo succedersi una lunga serie d’ingiurie contro la santissima religione e la Sede Apostolica. Ma le empie sette mirano accanitamente ad obiettivi peggiori, non ancora raggiunti. Esse intendono decisamente fare di Roma, capitale del mondo cattolico, il centro d’ogni profano costume e d’empietà. Qui concentrano da ogni parte le ardenti fiamme dell’odio, perché, assalita questa fortezza della Chiesa cattolica, torni loro più agevole rovesciare, se fosse possibile, la stessa pietra angolare sulla quale essa è fondata. Infatti, come se in tanti anni non avessero causato abbastanza rovine, hanno cercato di superare se stessi nell’audacia scegliendo uno dei più solenni giorni dell’anno cristiano per innalzare in pubblico un monumento che serva a glorificare, presso i posteri, lo spirito di rivolta contro la Chiesa, e sia segno ad un tempo della lotta ad oltranza che si vuole condurre contro la religione cattolica.
La cosa dice chiaramente di per sé gl’intendimenti di coloro che hanno promosso e favorito l’iniziativa. Si profondono onoranze ad un uomo doppiamente apostata, convinto eretico, la cui caparbietà contro la Chiesa si è trascinata fino alla morte. E per questi titoli si è voluto onorarlo, nonostante non risulti che in lui esistessero doti veramente pregevoli. Non di alto valore scientifico, perché le sue opere lo mostrano fautore del panteismo e del turpe materialismo, e in contraddizione spesso con se stesso. Non dotato di pregevoli virtù, perché anzi i suoi costumi sono rimasti ai posteri quali esempi dell’estrema malvagità e della corruzione in cui le sfrenate passioni possono spingere un uomo. Non autore di grandi opere né di apprezzabili servizi a favore del pubblico bene, in quanto le sue qualità abituali consistettero nel fingere e nel mentire, preoccupato unicamente di se stesso, intollerante con chi non fosse delle sue idee, adulatore, abietto e perverso.
Pertanto, le straordinarie onoranze tributate a tale personaggio dicono alto e chiaro che è ormai giunto il tempo di rompere con la rivelazione e con la fede cristiana: la ragione umana vuole emanciparsi dall’autorità di Gesù Cristo. Tali appunto sono l’ideale e l’aspirazione delle malvagie sette, le quali vogliono ad ogni costo allontanare da Dio tutti i corpi sociali, e con odio infinito, fino all’estremo limite, combattono contro la Chiesa e il Pontificato romano. E perché più solenne tornasse l’oltraggio e più evidente il significato, si volle fare l’inaugurazione in mezzo a grandi pompe e con notevole concorso di persone. Roma vide in quei giorni, entro le sue mura, una rilevante moltitudine di gente fatta venire qui da ogni parte; vessilli oltraggiosi per la religione erano portati in giro sfacciatamente per le strade e, ciò che è più orribile, non mancarono insegne con l’immagine del perfido che, capo dei sediziosi e istigatore d’ogni ribellione, negò l’obbedienza in cielo all’Altissimo.
Al sacrilego misfatto si aggiunse l’arroganza di discorsi e di scritti nei quali, senza pudore e senza misura, s’insultano le cose più sante, e s’inneggia con forza a quella libertà di pensiero che è la prolifica madre delle perverse opinioni e che, insieme con i costumi cristiani, scuote i fondamenti dell’ordine e della convivenza civile.
Un’impresa tanto sciagurata è stata curata con lunga preparazione, ed è stata eseguita non solo con la consapevolezza delle pubbliche autorità, ma anche con il favore e l’aperto incoraggiamento delle stesse. È ben doloroso e quasi mostruoso che da questa alma Città, nella quale Dio collocò la sede del suo Vicario, si oda il banditore della ragione umana che si ribella a Dio, e nel luogo da dove il mondo è solito ricevere l’incorrotto insegnamento del Vangelo e i consigli della salvezza, rovesciate iniquamente le cose, si inaugurino impunemente monumenti dedicati a nefasti errori e alla stessa eresia. A questo Ci hanno portato i tempi: di vedere l’abominio della rovina nel luogo santo.
Di fronte a tante indegnità, poiché Ci è stato affidato il compito di governare la cristianità e di custodire e tutelare la religione, protestiamo per l’offesa inferta a Roma e per l’ignominioso oltraggio recato alla santità della fede cristiana: denunciamo con sdegno e indignazione a tutto il mondo cattolico il sacrilego misfatto.
Tuttavia è possibile ricavare utili insegnamenti dall’offesa. Da qui si può comprendere sempre meglio se con la distruzione del principato civile si sono placati gli animi ostili, oppure se gli stessi si propongono un fine estremo, cioè abbattere la stessa sacra autorità del Pontefice e distruggere dalle radici la fede cristiana. Similmente si chiarisce se Noi, nel rivendicare i diritti della Sede Apostolica, siamo mossi da interessi umani, o piuttosto dalla libertà del ministero Apostolico, dalla dignità del Pontefice e dalla stessa autentica prosperità dell’Italia.
Infine, da quanto è successo si può conoscere distintamente quanto valgano e come siano cadute tante ampie promesse che inizialmente avevano formulato e confermato. Gli onori e tutte le espressioni di venerazione con cui affermavano di volere spontaneamente circondare il Pontefice romano si sono mutati a poco a poco in ingiurie e gravissime offese, la principale delle quali – pubblica e permanente – è il monumento a un uomo scellerato e perduto. Essi vogliono parimenti che questa Città, che si affermava sarebbe stata per sempre la sede gloriosa e sicura del romano Pontefice, sia la capitale della nuova empietà, dove si pratichi un culto assurdo e protervo alla ragione umana, quasi elevata a dignità divina.
Pertanto, giudicate voi, Venerabili Fratelli, quale libertà o dignità sia rimasta a Noi nell’esercizio del supremo Apostolato. La sicurezza stessa della Nostra persona è in pericolo; nessuno ignora che cosa cospirino e a quali obiettivi tendano gli appartenenti ai partiti sovversivi, e non c’è chi non veda che essi, favoriti dalle circostanze, vadano di giorno in giorno aumentando di numero e d’impudenza, avendo il proposito di non fermarsi prima di avere spinto le cose agli estremi e alla rovina. Ché se poi, nelle cose che deploriamo, unicamente per motivo d’interesse non fu concesso loro di ottenere la licenza per realizzare con la forza e anche con la violenza i loro perversi progetti, nessuno può essere certo che, trovato il momento favorevole, essi non giungano anche al misfatto, soprattutto perché siamo in balìa di chi non ha timore di denunciarci pubblicamente come nemico ed avversario degl’interessi Italiani.
Così pure è da temere che non si possano sempre contenere e reprimere l’audacia e le sfrenate passioni di uomini perduti se per caso sopraggiungessero tempi più spaventosi e turbolenti, sia per sconvolgimenti civili e sommosse popolari, sia per disastrose vicende di guerra. Così appare più chiaro qual è la condizione del supremo Capo della Chiesa, Pastore e Maestro della cattolicità.
Di sicuro, sotto il peso di queste amarezze e la mole degli affanni, nonché per la Nostra età avanzata, Noi dovremmo soccombere se non Ci sostenesse la certissima fiducia che Cristo non abbandona mai, con la sua assistenza divina, il suo Vicario, e se non fossimo consapevoli del Nostro ministero, in forza del quale è Nostro dovere provvedere più fermamente al governo della Chiesa quanto più infuria contro di essa la procella degli errori e delle passioni suscitata dall’inferno. Abbiamo quindi riposto ogni speranza ed ogni fiducia in Dio, perché sua è la causa, confidando moltissimo nella efficacissima intercessione della grande Vergine, Protettrice dei cristiani, e parimenti dei beati Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, nella protezione e nell’aiuto dei quali quest’alma Città trovò sempre la propria sicurezza.
Nello stesso modo in cui, Venerabili Fratelli, voi vi associate assiduamente a Noi nei Nostri dolori e nelle preghiere a Dio, protettore e garante della sua Chiesa, così non dubitiamo minimamente che i Venerabili Fratelli Vescovi d’Italia si comporteranno costantemente in futuro e assisteranno con sempre maggior zelo e con le opere i popoli loro affidati, secondo le necessità che i tempi richiedono. In modo particolare li esortiamo a spiegare e a mostrare loro di quanta iniquità e perfidia siano costituiti gl’intendimenti dei nemici della religione e, contemporaneamente, nemici della patria. Si tratta cioè del supremo ed essenziale bene che si identifica con la fede cattolica; i nemici s’impegnano, al massimo dei loro sforzi, per separare e strappare le popolazioni italiane da quella fede in forza della quale esse, in tutti i tempi, conseguirono fama di ogni genere e prosperità. Ai cattolici non è assolutamente consentito rimanere indifferenti o poco operativi di fronte a pericoli così gravi, ma occorre che nella professione e nella difesa della fede essi siano costanti, attivi, e pronti a qualsiasi sacrificio se fosse necessario.
Questi avvertimenti e questi moniti riguardano particolarmente i cittadini romani, in quanto è palese che la loro fede è esposta quotidianamente e astutamente alle insidie più pericolose. Ma essi, in verità, sanno che quanto maggior beneficio hanno ricevuto da Dio per essere vicini e collegati a questa Sede Apostolica, tanto più si ricorderanno di perseverare nella fede, degni dei padri e degli avi la cui ragguardevole religiosità è nota in tutto il mondo. D’ora in avanti essi, tutti gli Italiani e tutti i cattolici di ogni contrada, con le preghiere e con l’esercizio di opere buone di ogni genere non cessino di chiedere con insistenza a Dio di deporre benevolmente lo sdegno provocato dalle infami bestemmie e dai dissennati accanimenti compiuti contro la Chiesa, e di accogliere con benignità i voti di tutti i buoni che implorano misericordia, pace e salvezza.
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AGGIORNIAMO alcuni articoli d’epoca riportati da Radio Spada
In occasione dell’anniversario dell’arsione di Giordano Bruno, avvenuta in Campo de’ Fiori il 16 febbraio del 1600, ci piace riprendere una serie di articoli pubblicati dalla già gloriosa rivista dei Padri Gesuiti, La Civiltà Cattolica, nel 1888. Ecco il primo.
Il culto verso i grandi uomini, e chiamiamo grandi quelli che resero insigni servizi all’umanità, è uno dei fatti più costanti della storia, perché risponde a un sentimento insito nel cuore degli uomini, di esprimere con atti esterni la loro gratitudine a chi legò il proprio nome ai trionfi del vero, del bello e del buono. A questo sentimento nobile e generoso fa indegno contrasto quello delle sette odierne, le quali, in odio della religione e per fare oltraggio al Papato, erigono monumenti o decretano onoranze pubbliche e solenni agli oppugnatori più accaniti dell’una e ai nemici più implacabili dell’altra. Quasi che l’irreligione fosse diventata vanto di elevatissimo ingegno, e merito soprammodo grande l’osteggiare un’istituzione che, per la sua divina origine e pei beni senza numero arrecati all’umanità, fu mai sempre riguardata come la maggiore e più bella gloria che vanti l’Italia. Siffatto abuso d’indebiti onori e di scandalose apoteosi abbiamo chiamato indegno contrasto; ma avremmo potuto anche chiamarlo un mostruoso attentato contro il più grande dei beni dell’umano consorzio, che è la civiltà. Qual cosa infatti più funesta alla civiltà di un popolo, che il pervertimento morale di questo popolo, e allo stesso tempo qual cosa più efficace a corrompere il senso morale, che il culto pubblicamente reso all’errore e al vizio? «L’apoteosi del male, lasciò scritto il gran Bossuet, è una barbarie incomparabilmente più degradante di quella in cui vivesi ancora fra le cupe ombre dell’ignoranza». Si può aggiungere ancora che è un ritorno ad un paganesimo in certo senso anche peggior dell’antico perché se questo per tutti i vizii come per tutti gli errori ebbe un culto pubblico, tuttavia pei grandi viziosi e per gli scellerati non ebbe che riprovazioni ed anatemi.
Per fermo, prima della rivoluzione francese non s’era per anco veduto lo spettacolo, al quale assistiamo noi al presente. L’Italia unificata dalle sette, e quindi essenzialmente rivoluzionaria, porta nel suo nuovo organamento e nella sua nuova vita il veleno celtico, succhiato dal seno di colei che fu ed è tuttora la madre di tutte le rivoluzioni moderne, l’esemplare di tutte le nazioni informate dallo spirito d’indomabile ribellione contro Iddio, racchiuso nei principii dell’89. Fu appunto la Francia della rivoluzione quella che, prima tra le nazioni moderne, inaugurò lo scandaloso spettacolo delle apoteosi decretate ad uomini che lasciarono al mondo un nome infame per atroci delitti e tracce indelebili di sangue; quella che ai corifei di quell’immane sovvertimento di principii e d’istituzioni tributò onoranze straordinarie; quella che a codesti mostri tramutati in eroi rizzò statue, innalzò monumenti e i loro nomi, per tanti titoli esecrabili, appose alle piazze, alle vie ed ai pubblici istituti, cancellandone gli antichi con isfregio del buon senso, della morale, della religione e della storia. Non deve dunque recar meraviglia, che l’Italia novella, uscita dai fianchi della rivoluzione francese, ne segua gli esempii anche nel culto che si vuol rendere oggi ad uomini che sono l’incarnazione dell’apostasia, e non ebbero altro merito che quello di essersi più audacemente ribellati alla verità : sperare il contrario sarebbe un disconoscere i biechi istinti che la figlia ereditò dalla madre. Se lo levino di mente coloro che dalla nuova Italia si promettono accorgimento, saggezza, moderazione: rivoluzionaria come la Francia, essa non può altro se non che imitarne gli esempii e correre sulla sua falsariga.
Tanto più oggi che il tempo corre propizio ai corruttori del senso morale del popolo italiano. La mestola del potere, non è ora più un mistero, è in mano di uomini votati alla massoneria; sicché questa ben si può dire che in Italia regna e governa. Il già discepolo del Mazzini e adepto della Giovine Italia, che è a capo del governo, nulla tanto desidera ed ambisce che di riuscire sempre più aggradito alla setta, di secondarne i biechi intendimenti in ordine al Papato, che ben volentieri regalerebbe a chiunque glielo chiedesse, e di consolidare la sua dittatura vacillante coll’accordare ai nemici della Chiesa la soddisfazione di un Kulturkampf italiano. Sempre scimmie questi signori della massoneria! dove che trovino, nei paesi stranieri, fossero tedeschi, spagnuoli, francesi e magari musulmani, cosa che torni in oltraggio della religione, e là corrono con tanto maggiore zelo, quanto è più grande in essi la paura di demeritare i favori della setta spadroneggiante. Ora tutti sanno il gran lavoro della massoneria di convertire la Roma dei Papi, la terra bagnata dal sangue dei martiri della fede, il centro della cattolicità, la sede delle grandi e nobili ispirazioni cristiane, in un Panteon, ove abbiano culto ed onore l’apostasia religiosa e la ribellione civile, in una Babilonia, ove tra la confusione di tutte le lingue parlate si diano la mano tutti gli errori e tutti i vizii. A ciò infatti mira l’opera del presente Governo che, dal giorno in cui insediossi in questa Roma, ha incoraggiato tutte le chiesuole dissidenti a rizzare altare contro altare, cattedra contro cattedra, senza che punto l’esigesse quella pretesa tolleranza di culti, che proclamano come una conquista della civiltà: a ciò la tirannide dell’insegnamento ateo; a ciò l’ incoraggiamento a qualsiasi manifestazione anticlericale, anche quando simili manifestazioni sieno implicitamente antimonarchiche; a ciò finalmente la libertà legalmente concessa alla prostituzione, o in altri termini l’emancipazione del vizio, con danno infinito del buon costume. E quasi ciò non fosse bastevole, quasi non fossero troppo numerosi i segni della decadenza intellettuale e morale del popolo italiano, si è spinta l’audacia demolitrice del buono, del vero e del bello, sino all’idolatria di personaggi, la vita e le opere dei quali fu un’aperta antitesi di questi tre grandi e nobili obbietti.
Ma v’ha di peggio ancora; perché, se non c’inganniamo, siffatta audacia va oggi sino all’impudenza. Ed impudenza è senza fallo quella di volere in Roma, come che questa sia stata per violenza tolta al Sovrano Pontefice, rizzato un monumento a Giordano Bruno in quel Campo de’ Fiori, dove, com’è comune opinione, morì abbruciato sul rogo il frate scandaloso e ribelle. Un monumento a Giordano Bruno! Ma gl’Italiani rinsaviti, quando, se a Dio piacerà, saranno francati dal giogo della massoneria e dalla tirannide rivoluzionaria, dureranno fatica a credere che sia stato possibile una violazione cosi manifesta di tutte le leggi del pudore, del senso morale e della pubblica onestà. Che la Francia del 93 avesse innalzato un altare alla ragione simboleggiata in una prostituta, lo comprendono tutti: erano giorni quelli di parossismo, di delirio, di satanismo; e la Francia, che per indole è trascendente ed eccessiva, in quel periodo di deliramenti, abbandonossi anche a questo eccesso, di inchinarsi avanti un idolo più abbominevole di quello adorato già dal popolo giudaico; ma fu breve la durata di questa infamia, e lo stesso Robespierre stimò che fosse tempo di ristaurare in Francia il culto dell’Ente Supremo. Ma che in Italia, dove la rivoluzione s’inaugurò senza scuotere i principii fondamentali della vita sociale, e a nome dell’indipendenza e della libertà e con promessa, che sarebbero state rispettate l’eterne ragioni di Dio e della Chiesa, che in questa Italia, che pur si vanta di avere compiuto il più incruento e il più pacifico dei rivolgimenti, si sia venuto al punto che ai più forsennati tra i liberi pensatori è data libera balia di proclamare l’apostata di Nola precursore di civiltà, e di farne quasi un semidio degno di avere un monumento in Roma, onore che i suoi nuovi padroni non hanno decretato a niuno dei più grandi e illustri pensatori; cotesto tornerebbe inesplicabile, se non si sapesse che la rivoluzione italiana, se ha mutato pelo non ha cambiato natura, vogliamo dire che, sotto le parvenze della sua moderazione e di una affettata tolleranza, nasconde il suo maligno talento di levare a cielo coloro che colla loro vita o coi loro libri o avvantaggiarono o precorsero la rivoluzione. E poco importa che quella sia stata lercia e contennenda, e questi mediocri, anzi di nessun valore; perché se della rivoluzione ebbero in grado superlativo i vizii, basta soltanto questo a renderli meritevoli dell’apoteosi. Ora Giordano Bruno ebbe in grado eminente i vizii e le mostruosità della rivoluzione; non gli mancò un solo dei biechi istinti di essa; e cosa ancor più singolare parve un rivoluzionario moderno in pieno secolo XVI. Egli fu dunque un vero precursore della rivoluzione, e sotto questo rispetto può dirsi men seguace di Lutero che di Voltaire, più giacobino che eretico; più propenso verso le dottrine del libero pensiero che della Riforma. Ecco perché i liberi pensatori odierni gli hanno decretato un monumento a Roma. Ben gli stava: il Nolano fu un vero rivoluzionario. Proviamolo.
Si può dire senza tema di esagerazione, che la Brunomania si sia manifestata in Italia sin dalle prime mosse della presente rivoluzione, che, preparata nelle tenebrose congreghe della massoneria, è diventata oggi Governo. Sin da allora gli adepti di questa setta a niuna altra seconda per odio contro i troni e gli altari, proclamarono il Bruno «massimo degli eroi del pensiero e del risorgimento intellettuale; grande araldo e maestro sommo della nuova filosofia; meritevole di stare al paro di Dante». E perché alle parole rispondessero i fatti, fin da allora cominciossi a scrivere di lui; articoli di giornali, opuscoli ed estratti di effemeridi, biografie, storie, discorsi accademici, poesie inondarono l’Italia. La scoperta del nuovo mondo non suscitò tanto entusiasmo, quanto la pubblicazione delle sue opere, né ci fu nome che fosse salutato con tanto plauso quanto quello del Bruno. L’entusiasmo e i plausi sono oggi andati tanto avanti e spinti a un tal grado che fan dimenticare i fattori più operosi ed efficaci dell’unità italiana, da Napoleone III e Cavour al leggendario Garibaldi. Data la stura dalla massoneria, il pecorame s’è posto a vociare Giordano Bruno. Oramai, se ne eccettui la stampa cattolica, non c’è più in Italia chi scriva o parli, che direttamente o indirettamente, ci entri o no, non bruci il suo granel d’incenso all’araldo del libero pensiero, allo sfratato che precorse di circa tre secoli la rivoluzione italiana, intesa nel senso di una guerra guerreggiata, non contro il Papato soltanto, ma contro tutto intero il Cristianesimo. Né Alberigo Gentile, né Arnaldo da Brescia, né Cola di Rienzo hanno ricevuto dalla massoneria onori cosi grandi, come l’apostata nolano; e c’era ben di che. Nessun di quelli rispondeva interamente agli ideali della rivoluzione; benché per alcuni rispetti meritassero i suoi plausi; nessuno personificò in sé e in ogni punto il carattere, i sentimenti, le dottrine, il favellare di essa: furono rivoluzionarii, ma non quanto era necessario per esserne la personificazione compiuta, intera, perfetta. Giordano Bruno no. Degli attributi della rivoluzione non gliene manca un solo, se non quello forse di essere spargitore di sangue ed omicida; ma questo difetto era nel Bruno più di forma che di sostanza: l’inclinazione a veder correre il sangue di coloro che egli diceva suoi avversarii l’aveva; gli mancava però il coraggio di farlo, forse anche l’occasione; ma l’avrebbe versato; egli stesso lo dice: ma non anticipiamo le prove, e passiamo a mettere in rilievo i caratteri della rivoluzione, personificati nell’araldo del libero pensiero.
La rivoluzione innanzi tutto è lercia; dov’ella trionfa è il malcostume che trionfa, è la impudicizia che passeggia impunita per le pubbliche vie. Ora Giordano Bruno fu quanto si può esserlo libertino. Non avea ancora gittato la tonica alle ortiche, che sdrucciolava nel fetido pantano della lussuria. Sallo quel convento di Campania, dov’era stato mandato dai suoi superiori, colla speranza di vederlo nel silenzio e nella preghiera attutire i fremiti del demone della carne. Ma fu vana speranza! Ché invece fu nella santa solitudine del chiostro che egli concepì e scrisse quella sozza commediaccia del Candelaio, che in oscenità vince quanto di più lubrico e fetido avessero prima di lui scritto il Machiavelli e l’Aretino. Profugo d’Italia e disertore del chiostro, s’abbandonò al reprobo senso sino a invidiare Salomone, pel gran numero che quel disgraziato re ebbe di concubine, ed a perdere ogni sentimento di naturale pudore nell’elogiare le donne inglesi, per le quali andava pazzo, com’egli narra. In quello che della donna italiana dicea essere: «cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituita d’ogni ingegno, vacua di ogni merito …, dov’è superbia, arroganza, protervia, orgoglio …, ira, falsitade, libidine, avarizia … puzzo, martello, schifo, sepolcro, cesso, febbre quartana, carogna … bottega, dogana, mercato di sporcarie»; le donne inglesi chiamava: «graziose, gentili, pastose, morbide, giovani, belle, delicate, biondi capelli, bianche guance, vermiglie gote, labbra succhiose, occhi divini» e le magnificava con altri epiteti, nei quali l’amabile castigatezza del concetto si unisce mirabilmente alla purezza della forma italiana. Dalle sue opere stesse si fa palese quant’egli fosse predominato dalla lascivia; in più luoghi parla con termini che non sarebbero tollerati sulla bocca di un becero; e non si lascia mai sfuggire occasione in cui non prorompe in accenti che crediamo non dover qui ripetere, per non offendere il delicato sentimento di onestà di chi ci legge. Di che menava vanto, quasi di onorata impresa, e non arrossiva di accusare le donne italiane che trovava brutte, sciapide, scortesi, villane, tanto solo perché le erano ritrose, modeste e per nulla pieghevoli al maltalento dei pari suoi. Un nostro collaboratore che ne ha scritto la storia, frugando nelle sue opere e negli archivii rinvenne su questo argomento cose che non osiamo nemmeno accennare, e gli diedero in mano la prova più autentica della grande corruzione di questo degno eroe della rivoluzione presente.
La rivoluzione è intollerante, illiberale, aggressiva; essa reputa suo nemico chi non è con lei, chi non pensi come lei, chi non serve ai suoi pravi disegni. Altera delle sue facili vittorie, ha sempre sulle sue labbra il guai ai vinti, verso i quali non ha che dispregio e diniego di giustizia. Ne abbiamo tante prove, che crediamo superfluo anche un cenno del modo come l’Italia legale abbia trattato e stia trattando l’Italia reale, cioè quella parte degl’Italiani che ancor non piegano la fronte innanzi al Vitello d’Oro. Or chi più intollerante, illiberale, aggressivo, di questo libero pensatore che nella sua Cena delle Ceneri, e nell’Antiprologo del Calendaio regalava a coloro che dissentivano dalle sue idee o si permettevano di opinare differentemente da lui, gli epiteti più ingiuriosi, chiamandoli bifolchi, stolli, matti, sofisti, talpe, bestie, volgari, asini, tutti orbi, porci, barbagianni e peggio; che di un tale, il quale dichiarava di non pensare al pari di lui e di volere qualche libertà, scriveva che era nepote dell’asino conservato nell’arca di Noè; che tra le altre gioie di cortesia mandava queste ai suoi contraddittori, corvi, lupi, pecore, buoi, cavalli? Questo araldo del libero pensiero, era quegli che i liberi pensatori del suo tempo voleva distrutti col fuoco e col capestro, e si adirava di non poter essere carnefice per mandarli al supplizio. E odano i nostri lettori che cosa scrive intorno alcuni eretici, i quali pensavano a lor modo. «Non solo si può essere loro giuridicamente molesti, ma ancora si deve stimare gran sacrificio agli dèi e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarli e spegnerli dalla terra». E quindi chiamavali «peggiori dei bruchi, delle locuste sterili e delle arpie; meritevoli di essere sterminati dal cielo e dalla terra, come peste del mondo; meno degni di misericordia che i lupi, gli orsi, i serpenti; onde è opera immensamente e incomparabilmente meritoria togliere questi apportatori di pestilenza e di ruina». Anzi aggiunge, per rincarare la dose, che ad essi è pena piccola ed improporzionata lo essere spenti e tolti di mezzo agli uomini: ed è «giusto che, dopo morte, vadano ad abitare in porci, che sono i più poltroni animali della terra». Che rispetto, che amore per la libertà di pensiero, di opinione, di coscienza! Di che l’Hegel stesso indignato si vide costretto di confessare, che «Giordano Bruno avea alcun che di baccante nel suo carattere». Sarebbe stato più acconcio chiamarlo un rivoluzionario; ma al filosofo tedesco non venne in mente la parola, forse perché non avea ancora assistito allo spettacolo dei liberi oppressori, quali furono sempre i rivoluzionarii. La intolleranza rivoluzionaria del Bruno fu causa per cui dovesse fuggire di terra in terra, di università in università, e venisse dagli stessi protestanti ed apostati, nella Svizzera, nella Francia, nella Germania, nella Boemia, nell’Inghilterra, cacciato, malconcio, come uomo spiacente a tutti, amici e nemici, protettori ed avversi, grandi e piccoli, sovrani e sudditi. Torbido sempre e violento, com’egli stesso si dipinge, spregiava, mordeva, lacerava, feriva con pungenti parole ed insolente linguaggio «chi pensasse diversamente da lui»: un detto, un gesto, un’allusione che altri facesse contro le sue strane affermazioni; assai volte il semplice sospetto che i suoi interlocutori fossero suoi avversarii, bastava, perché o si udisse prorompere in invettive, in ingiurie triviali, ed invocasse sul loro capo i fulmini del cielo. Ecco il degno feticcio di questo pugno di Capanei, che in Italia si fanno oggi chiamare liberi pensatori, quando non sono che tiranni ed oppressori del pensiero altrui.
La rivoluzione è instabile, irrequieta, incostante, voltabile: è il moto perpetuo, è quella bufera infernal, che mai non resta, descritta da Dante nell’Inferno. Per darne una prova basta vedere l’instabilità dei nostri ordinamenti militari, scolastici, amministrativi; e quella vicenda di uomini politici, per cui dai conservatori si è passato ai progressisti, e da questi ai radicali, e forse più tardi si passerà ai socialisti, se a costoro verrà fatto di afferrare un giorno la palla al balzo. Ora qual uomo fu mai al mondo più incostante, volubile e irrequieto del Nolano? La vita che ei menò fu vita randagia. Un bel giorno, gettate via le vesti claustrali e preso abiti laicali e abbandonato il Convento, se ne fugge a Roma, da Roma a Genova, indi a Noli nella Liguria, ben tosto a Savona, quindi a Torino, a Venezia, poscia a Padova a Bergamo, a Brescia, a Milano, a Chambery, a Ginevra. Nella patria del Calvinismo riceve una condanna correzionale ed è costretto andarsene a Tolosa, da Tolosa a Parigi, a Londra e poi a Magonza, a Marburgo, a Wittemberga, a Praga, a Francoforte e finalmente di nuovo a Venezia. E non crediate che tutte queste peregrinazioni si sieno compiute in un lungo giro di anni; tutt’altro! Breve fu la durata delle sue peregrinazioni, come ancor più brevi i soggiorni in queste venti città. Le ventimila leghe sotto il mare e il Giro del mondo in novanta giorni, di Giulio Verne, non son ora più da contarsi tra i romanzi, mentre in si rapida corsa il Nolano poté fare il giro di mezza Europa. E come fu incostante nelle sue dimore, lo fu ugualmente nel tenore della sua vita, nei suoi propositi, nelle sue dottrine, e nelle sue amicizie. Costante solo nelle pazzie, che fu uno dei segni caratteristici di quest’uomo. Fu frate pio e devoto in sul principio; ma passati alcuni giorni diventò ribelle alla sua regola. Stanco del chiostro e trasfuga gitta via il saio, ma poi lo riprende e infine lo lascia di nuovo. A Chambery va a picchiare alla porta di un convento di Domenicani, ma giunto a Ginevra va ad intrupparsi cogli apostati italiani, ricoverati in quella città. Egli che a Ginevra avea dichiarato di non voler più riconoscere alcun simbolo religioso, a Tolosa ed a Parigi usa famigliarmente con due Padri della Compagnia di Gesù, e con uno di essi fa perfino la sua confessione e studia il modo di ritornare alla vita claustrale. In una parola, ondeggia sempre tra l’apostasia e il ravvedimento, e passa da un proposito all’altro, colla stessa rapidità ond’egli passava da una terra a un’altra. La stessa volubilità ed inconstanza si scorge riguardo alle persone colle quali tratta e in mezzo alle quali vive. Va infatti a dozzina ora da cattolici ed ora da riformati; là in casa di eretici e di ebrei, qua di persone devote e d’uomini di chiesa. Se l’aveste sentito! Ognuno se l’avea come voleva, perché la sua incostanza portavalo a rappresentare tutte le parti, lasciando incerti se egli fosse un cristiano od un rinnegato. Era egli un ipocrita? Potremmo fornirne le prove. Se non che qual pro quando ci è di peggio? Continuiamo invece nel nostro assunto, e dall’incostanza dei propositi passiamo a quella delle dottrine. Ma di ciò in altro quaderno.
Questo articolo fu pubblicato nel quaderno del 7 maggio 1888. Qui tutto il volume.
Ecco il secondo articolo su Giordano Bruno che, tratto dal quaderno del 4 giugno 1888 de La Civiltà Cattolica, offriamo ai nostri Lettori.
Se dall’incostanza d’animo, di propositi e di vita passiamo a quella delle dottrine, tosto apparirà quanto sia stata grande nell’apostata di Nola la sua caratteristica di rivoluzionario per eccellenza. È noto, infatti, com’egli che menava vanto di essere venuto al mondo per combattere la filosofia scolastica, e quasi predestinato a sfatare l’autorità di Aristotele, ebbe la temerità di affermare innanzi al tribunale inquisitorio di Venezia: «Le opere di S. Tommaso ho sempre tenuto appresso di me, lette e studiate e riputatele, e al presente le ho e le tengo molto care … S. Tommaso … ho sempre stimato e amato come l’anima mia». Buffone! E chi non sa che l’Aquinate fu l’ordinatore sommo della scolastica, il gran dottore che col suo peregrino ingegno raccolse e spiegò, con la massima perspicuità, le dottrine del Peripato; insomma colui che le teorie dello Stagirita accettò, modificò, perfezionò come potea fare il principe dei filosofi cristiani? Ci parlano dell’incrollabile fermezza di questo povero sfratato, il quale, per non parlare dei continui plagi fatti a Senofane, a Parmenide e a Democrito, che egli non conobbe per averli studiati, ma per vederli citati da quei grandi pensatori cristiani che con mano poderosa atterrarono tutti gli errori della filosofia pagana, volse tutto il suo ingegno a contraddirsi sfacciatamente, a cambiar di sistemi, colla facilità onde cambiava soggiorno, a mutar idee, pensamenti e dottrine, colla stessa voltabilità con la quale mutava e rimutava di propositi! Laonde tu il vedi ora distinguere Dio dal creato, ed ora immedesimarlo con esso, e ciò a distanza di poche pagine; ora accozzare spropositi, ed ora ripudiarli; ora negar l’ immortalità dell’anima ed ora affermar l’esistenza di una vita futura; ora argomentare in favore della spiritualità dell’anima ed ora con comica gravità dimostrare ch’essa non differisce punto dall’asinina. Bisogna o non aver mai letto o non aver capito le dottrine filosofiche del Nolano, per avere l’impudenza di chiamarlo il massimo e il più sfolgorante dei pensatori, il primo e più grande dei filosofi italiani. Il Bruno pensatore sfolgorante e massimo tra i filosofi ! Egli che insegnò: «la terra, gli astri, i pianeti, e tutte le altre cose naturali hanno anima propria, sono animali, ed hanno un’anima sensitiva, ed anche intellettiva come la nostra e forse più»; egli che ammetteva l’infinità dei corpi e dell’universo»; che asseriva: «molti animali possono avere più ingegno e molto «maggior lume d’intelletto che l’uomo»; che sosteneva che «il corpo dell’uomo non si differenzia punto da quello delle cose stimate senza anima e che nondimeno hanno anima»; che proclamava: « l’anima dell’uomo, in sostanza specifica e generica, non differisce da quella dell’asino, delle mosche, delle «ostriche marine, delle piante, dell’aragna, dei serpenti»; che altrove diceva: «l’anima umana passa nel corpo delle bestie « cavalline, porcine, aquiline, asinine, bovine». Per questi ed altri innumerevoli paradossi egli manifestossi panteista, ateista, materialista, sensista, spiritualista, trasformista, cioè tale, che nella sua intelligenza fermentavano le peggiori dottrine che mai al mondo venissero insegnate, e da lui espresse in un linguaggio altrettanto improprio e scorretto quanto plateale e volgare. Chi leggerà infatti le sue opere, se pure n’avrà il coraggio, s’imbatterà di continuo con asini, cavalli, porci, serpenti, mosche, buoi e simili.
Ben più coraggioso sarebbe chi avesse lo stomaco di leggere le sfacciataggini che s’incontrano in alcune delle sue opere, per mo’ di esempio nel Candelaio, nello Spaccio della bestia trionfante e negli Eroici furori. Viene infatti il rossore, ti si sveglia in cuore una tale indignazione che è impossibile frenarla. I più svergognati pornografi del cinquecento e dell’ottocento, dall’Aretino al Casti, i più lubrici veristi della scuola del Carducci e del Guerrini non dissero mai cose cosi laide, brutali, oscene, come quelle che sgorgarono dalla penna del Nolano. Osiamo anche dire che, sotto alcuni rispetti, non ha avuto ancora chi l’abbia superato, se non forse il Zola in Francia coll’ ultimo de’ suoi romanzi, e il Mantegazza in Italia con qualcuno de’ più lubrici suoi libri. D’altra parte la sua filosofia morale fu tanto lercia, quanto detestabile la sua filosofia speculativa. Insegnava che «per le malattie sono efficaccissimi i numeri cabalistici, i segni negromantici, le ossa dei morti, gl’incantesimi e la magia». Ammetteva che «non vi sono colpe interiori ed oggettive»; che il male e il bene è solo «relativo e si deduce dagli oggetti esterni»; che «Dio si compiace cosi del bene come del male». Professava, strana professione in vero! che il «libero amore e i diritti del senso sullo spirito sono da seguirsi in tutto; che «l’intelletto e la ragione non devono dar legge al senso»; che bisogna «godere della vita presente senza preoccuparsi della futura ed incerta»; che «l’onore non può essere oggettivo»; e che «delle proprie azioni non si deve render conto a Dio». Per ultimo propugnava come cosa onesta e legittima la poligamia; e accanto alle grandi virtù civili e morali poneva il tirannicidio, la magia, la divinazione e gl’incantesimi. Cotalché il Maffei indignato non poté astenersi di accusarlo «d’infamie scellerate» e il Riccoboni «d’insegnamenti che mettono orrore agli uomini onesti»; e prima di loro lo Schopp proclamavalo maestro d’orrende e del tutto orrendissime cose.
Che della rivoluzione avesse il Bruno lo spirito della menzogna, è cosa tanto notoria, che i suoi stessi panegiristi si sono astenuti di purgarnelo. Mentiva come un demonio e per sola voluttà di mentire. Mentì sulla sua condizione sociale, dandosi per discendente di nobile e ricco casato, non essendo che figlio di un povero soldato, da un pio e caritatevole sacerdote suo parente mandato e sovvenuto in Napoli per attendervi agli studii. Mentì affermando esser lui fuggito dal chiostro, per sottrarsi ai mali trattamenti ricevuti dai suoi confratelli ed alle minacce dei suoi superiori; mentre è noto quanta longanimità avessero avuto per lui gli uni, e quanta carità gli altri, che pure del suo ingegno bislacco, del suo carattere fantastico e versipelle e dei suoi modi insolenti ed alteri aveano ragione di essere stanchi e scandolezzati. Mentì coi suoi amici, coi suoi ospiti, e fin con coloro che gli largirono favori da lui non meritati. E agli uni prometteva resipiscenza, agli altri fedeltà e riconoscenza, a tutti poi nascondeva i suoi pravi divisamenti, le sue male opere, le sue furberie. Menti nel suo processo di Venezia; tutto quel processo anzi non fu che un tessuto di menzogne, che da lui oggi inventate, erano da lui stesso smentite il domani. In quest’arte, diabolica se altra fu mai, si può dire che egli sopravvanzasse i più abili avventurieri e Cagliostri che ricordi la storia. Imperocché a forza di menzogne venne a capo di cattivarsi la protezione e i favori di principi, di ministri, di personaggi rispettabilissimi ed anche di ecclesiastici. Ben è vero che l’inganno dei suoi protettori era sempre di breve durata, che la menzogna ha le gambe corte; ma all’esser egli discoperto non badava punto, bastandogli il buon giuoco che gli faceano le menzogne, fosse pure per un giorno o due. Inventava nomi, casi, date, opere, aneddoti, circostanze, che non aveano avuto mai essere, fuorché nel suo ingegno balzano. Falsò per fino documenti, dedicò libri a personaggi chimerici, si fece accreditare da uomini che non l’avevano mai veduto, o non gli aveano mai parlato; prestava loro intenzioni e propositi, detti e sentenze, dottrine e principii che non aveano mai sognati. Ma li sognava egli, e sapevali di tal vernice colorire, che molti vi rimasero ingannati e non pochi riuscirono ad esserne truffati. Quel dabbenuomo di Giovanni Mocenigo, che in Venezia l’ebbe ospite in sua casa, mancò poco non si vedesse involto ancor egli in un processo per le fallacie dell’apostata. Menti finalmente ai suoi giudici in Venezia, dove finse chiedere perdono dei suoi errori, quando, come si vide in Roma, né ritrattar si volle, né pentirsi. Il demone della menzogna, che avealo sino allora ispirato, manifestossi anche a Roma in tutta la sua deformità; perocché anche allora in sua difesa invocò la menzogna, negando sfacciatamente quello che con irrefragabili prove era confermato dalle sue parole, dai suoi scritti e da testimonii, sopra cui non cadeva sospetto che si fossero ingannati o avessero avuta l’intenzion d’ingannare. E vedi sorte riserbata a questo grande operatore di menzogne! Anche oggi la retorica dei suoi panegiristi mostra di avere scelta l’arme della menzogna, per difenderne la memoria, e raccolte tutte le menzogne di tre secoli per fargliene un monumento: Mendacium viro insensato!
Nessuno ci negherà che uno dei caratteri più spiccati della nostra rivoluzione, come di qualunque altra rivoluzione informata dai cosi detti principii dell’89, sia la slealtà: absque foedere, che vuol dire senza fede ai patti giurati. La qual verità non abbisogna di essere con ragionamenti provata, che tutta la storia contemporanea non è che un tessuto di perfidie, di fellonie e di slealtà degne dei secoli barbari e di popoli incivili. Ed uomo sleale fu appunto questo preteso precursore del libero pensiero. Gli uomini che inventarono Poerio, come scrisse Petruccelli della Gattina, che delle geste di un Garibaldi fecero una leggenda, insolentiti dalle loro facili vittorie, hanno creduto di far ora altrettanto con circondare la fronte dell’apostata di Nola coll’aureola della probità! Ma con qual pudore chiamar probo ed onesto chi venne meno agl’impegni giurati a Dio, alla Chiesa e al suo Ordine, per nessun altro motivo che quello di scapestrare più pazzamente pei sentieri del vizio e dell’errore? O che i nomi cambiarono il loro valore, che debbasi tenere per forza di animo e per virtù quella che tutti i secoli chiamarono apostasia? E l’apostasia che altro significa se non defezione, slealtà, mentita fede? Ne ci si dica che a questa defezione egli sia stato tratto dall’amore per la scienza; quest’amore non fu che una chimera, inventata da lui per mascherare un’apostasia al tutto mostruosa, giacché egli era stato raccolto nel convento a mangiare il pane della religione, in servizio della Chiesa e non già per diventarne, come Lutero, lo scandalo e la rovina. E come fu spergiuro con Dio e col suo Ordine, lo fu ugualmente anche coi suoi amici e benefattori, che tutti ricambiò di slealtà, d’infedeltà e di perfidia. Ben sel seppero e Filippo Sidney, e Galeazzo Caracciolo, marchese del Visco, e il Castelnuovo, e il Mocenigo, e lo stesso tribunale di Venezia, al quale avea impegnato la sua parola, che non sarebbe più tornato ad insegnare le ree dottrine che avea disdette, sconfessate e ritrattate, chiamando anche di questo in testimonio Dio e giurando sugli Evangeli. Adulatore egli fu, e dei più smaccati, come la rivoluzione. Questa, e chi nol sa?, per quel vile ed abbietto istinto che ha avuto sempre, mentre spregia i deboli e gl’insulta, è poi tutta adulazioni, lezii e piacenterie verso i potenti e i soperchianti. Quanto incenso non fu bruciato a Napoleone III, allorché questi era ancora all’auge della sua grandezza? Quanto al gran Cancelliere di Germania? Quanto a certi personaggi, pei quali non è ancora venuto il giudizio della posterità? Ma insieme quante villanie, insulti e dispregi non si sono detti in Parlamento e nei giornali contro Pio IX di s. m., e Leone XIII, due delle più nobili e grandi figure del secolo XIX? Ne l’adulazione dei nostri rivoluzionarii ha avuto solo per oggetto imperatori, principi ed uomini di Stato, ma si è estesa ben anco ai piccoli regoli della politica, ai lerci dittatori del pensiero, agli avventurieri del disordine, e a quanti hanno avuto l’audacia di rinnegare il loro battesimo. Or bene, fu anche questo uno dei titoli che resero tanto benemerito della rivoluzione l’apostata di Nola. Si odano le stemperate lodi a Lutero, quando strisciandoglisi ai piedi lo proclama: «Grande sopra tutti gli altri, unico al mondo, massimo dei grandi; redentore della terra corrotta; nuovo Ercole maggiore dell’antico … eroe sfolgorante di luce, chiamato dallo spirito divino, salito al cielo ricoperto e carico di spoglie vittoriose». Leggansi le stomachevoli adulazioni da lui profuse a quel Nerone in gonnella, che fu Elisabetta Tudor: «Non è donna, ma ninfa, diva di sostanza celeste, nume della terra, singolare e rarissima, che a tutto il terrestre globo rendeva chiaro lume. Agli altri scettrati per saggezza e governo, cognizioni di arti, scienze e lingue, superiore. È grande Anfitrite per generosissimo ingegno, meritevole di reggere con intera monarchia, non solo questo, ma tutti gli altri mondi». Di Enrico III Valois, re di Francia, principe d’animo debole, di carattere tentennante e leggiero, di costumi scandalosi, scrisse che era «magnanimo, grande, potente, di generosissimo petto nell’Europa; che con la voce della sua fama, faceva rintronare gli estremi cardini della terra; quando irato fremea, come leone dall’alta spelonca, donava spaventi ed orrori mortali agli altri potenti; scaldava l’orsa gelata, dissolveva il rigore dell’artico deserto, che si aggira sotto la custodia dell’artico Boote!». Come contrapposto alle gravi ingiurie che egli stampò contro il popolo inglese, e alla mordace caricatura dei dottori d’Oxford, ricorderemo qui la lusinghiera dipintura dei cavalieri di Londra. Li dice: «uomini franchi, leali, di bei modi, versati nei buoni studii e tali da stare al paro per gentilezza, col fiore degli Italiani», che secondo lui erano i Napoletani «allevati sotto mitissimo cielo, e in mezzo alla più ridente e ricca natura del mondo». E sapete perché tanto scialo di elogi e di piacenterie? Pei pranzi succulenti imbanditigli da questi. Tralasciamo, per non istancar la pazienza dei nostri lettori, le smaccate lodi profuse a un Walsingham, a un Cecil, a un Dudley, istigatori ed esecutori dei fieri bandi della Semiramide inglese; e tacciamo pure dell’elogio funebre del Duca di Helmstaedt, dove profuse tante e si scempiate adulazioni, da far credere che egli nel dettarle non avesse a segno la testa. Quel che però non puossi tacere è che l’adulazione giunse in lui al punto da parere una mania. Citeremo tra tanti un solo esempio. Che cosa infatti non ci lasciò detto ad encomio di un certo Fabrizio Mordente, salernitano, ed autore di un libro intitolato Compasso o riga? Nella sua bocca il Mordente divenne, nientemeno che «un genio straordinario, un quasi prodigio, uno scrittore da riporre nel numero degli uomini mercuriali, che Dio di tempo in tempo e quando piace a lui manda di lassù per francare i mortali dall’errore e dal vizio, e per dimostrare che la catena dei sommi non è interrotta». Difatti, il Salernitano, a detta di lui, «era il ristauratore delle arti meccaniche cadute, il perfezionatore delle mutile ed imperfette, l’autore di trovati divini, un uomo di quelli che gli Dei comandano sia encomiato e celebrato in tutto il mondo, che i futuri geometri avrebbero levato sino alle stelle, e la casa del quale, non che Salerno sua patria, verrebbero in maggiore nominanza del curioso Egitto, della magniloquente Grecia, dell’operosa Persia, e della sottile Arabia». Tant’olio per un cavolo! O rivoluzionarii italiani, come non vi accorgete che adulando il Nolano diventate ben più ridicoli di lui?
