Yves card. Congar, O.P.

La vetrina e la bottega di Yves Congar

Ovvero come, allestendo in un certo modo la vetrina, è giocoforza vergognarsi di qualcuno.

di P. Riccardo Barile, O.P.

Cominciamo con un percorso – cf alla fine la ragione della scelta — attraverso i diari di Congar (Sedan 13 aprile 1904 – Parigi 22 giugno 1995), genere letterario al quale giovanissimo fu avviato dalla madre, che già verso i 10 anni lo esortò a scrivere un diario di guerra: Journal de la guerre 1914-1918, pubblicato nel 1997 dalle Ed. du Cerf. Yves Congar, entrato nell’Ordine nella Provincia di Francia nel 1925, fu ordinato presbitero nel 1930; nel 1932 iniziò ad insegnare; nel 1940-1945 fu prigioniero di guerra a Colditz. Cf sotto una processione organizzata con i compagni di detenzione.

Congar durante una conferenza.

Congar durante una conferenza.

Gli anni dal 1946 al 1956 furono carichi di avvenimenti e di tensioni e costituirono l’oggetto di un diario — Journal d’un théologien 1946-1956 — per ora solo in francese. Successivamente Congar scrisse un diario della sua presenza al Vaticano II — Diario del Concilio — disponibile in italiano in due volumi. La presente malizia esamina soprattutto il Diario prima del Concilio, ma non senza qualche incursione nel successivo Diario conciliare.

Nel decennio 1946-1956 Congar nel maggio 1946 effettuò un viaggio a Roma per parlare della situazione francese; * ebbe successivi incontri con i Maestri dell’Ordine Martino Stanislao Gillet († 1951), Emanuele Suarez († 1954) e Michele Browne († 1971) per difficoltà inerenti ai suoi scritti e alla sua attività; * il 1954 fu l’anno della “grande purga” a Saulchoir, Congar fu sospeso dall’insegnamento, trascorse un breve periodo a Gerusalemme e dovette sostenere un interrogatorio al S. Ufficio da parte del domenicano Gagnebet; * la Pasqua del 1955 lo vide definitore al Capitolo generale di Roma dove fu eletto Browne; * trascorse “in esilio” il 1956 a Cambridge rientrando a fine anno a Strasburgo ma senza insegnamento. Il diario risente di tutti questi avvenimenti.

Le citazione dei diari avvengono con una sigla che indica il volume e il numero della pagina:

  • F = Yves Congar, Journal d’un théologien 1946-1956. Ed du Cerf, Parigi 2001, pp. 464.
  • I = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 – I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 540.
  • II = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 – II. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 526.

Il campo di battaglia: «terribilis ut castrorum acies ordinata» (Ct 6,3 vg.)

«Da quindici secoli Roma lavora per impadronirsi – sì, per impadronirsi, per accaparrarsi – di tutti gli aspetti di direzione e di controllo. C’è riuscita. Si può dire che dopo il 1950 il lavoro era compiuto. Ma ora arriva un papa che minaccia di togliere loro alcuni posizioni. La Chiesa sta per avere la parola» (I,68). Queste parole, scritte già nei preparativi del Vaticano II, sono coerenti con quanto Congar scrisse alla madre in una famosa lettera del 10.9.1956:

«Conosco la storia (…). Mi è evidente che Roma non ha mai cercato e non cerca che una cosa: l’affermazione della propria autorità. Il resto non l’interessa che come materia sulla quale esercitare questa autorità (…). Ad esempio, se Roma si interessa al movimento liturgico con 90 anni di ritardo su tale movimento, è perché questo non esista senza di Roma e perché non sfugga al suo controllo» (F 426).

Una reazione che continuerà anche durante il Concilio. Ad esempio, quando era in previsione il documento Sacram liturgiam di Paolo VI che rivendicava alla Santa Sede l’approvazione delle traduzioni liturgiche, «si parla del motu proprio del Papa sulla liturgia. Questo documento toglie praticamente al Concilio ciò che il Concilio aveva deciso» (II,8).

Il giovane Congar sinistra in Piazza San Pietro con un confratello.

Il giovane Congar (a sinistra) ritratto in Piazza San Pietro con un confratello.

L’altra riserva di fondo, più esistenziale, è sul barocco, sul rinascimentale, sul “monarchico” nella Chiesa. Nella tarda estate del 1932, all’inizio dell’insegnamento «io e Chenu parlammo a cuore aperto e con freschezza delle mie prime scoperte e percezioni. Ci trovammo profondamente d’accordo. E su questa missione, sulla necessità di “liquidare” la “teologia barocca”» (F 24).

Non solo la teologia, anche un’udienza di Giovanni XXIII «è l’espressione sfarzosa di un potere monarchico» (I,85). Neppure l’inaugurazione del Vaticano II l’11 ottobre 1962 sfugge a tale insofferenza sino a impedire a Congar di restarvi sino alla conclusione. Ecco alcune riflessioni scritte nel pomeriggio del fatidico giorno:

«gusto decorativo un po’ teatrale, barocco» (I,146) * «(…) questo avvenimento della vita della Chiesa, che io amo, ma che vorrei meno “Rinascimento”, meno costantiniana» (I,146) * «dopo l’epistola lascio la tribuna. Non ne posso più. E, poi, sono oppresso da questo apparato feudale e rinascimentale (…). Cerco di uscire dalla basilica» (I,147).

Qualsiasi maestro dei novizi avrebbe “bacchettato” un novizio che molto prima della conclusione si fosse assentato da una celebrazione così solenne. Ma c’è di mezzo Congar e tutto va bene… e qualcuno avrà concluso o concluderà che “in fondo si è trattato di un gesto profetico”!

Ecco, il campo di battaglia è delimitato: chi è insofferente al barocco, al rinascimento, al feudale, al “monarchismo” ecclesiastico, a un certo modo di governare “romano” ecc. è dalla parte di Congar, amico, aperto all’avvenire e al soffio dello Spirito ecc. Chi invece sta dall’altra parte è l’esercito nemico da “cristianamente” combattere e vincere.

Ciò che vorremmo chiarire con qualche catalogo di esempi, persone e ambienti è che l’esercito “dall’altra parte” non è costituito solo da ultramontanisti francotedeschi e da curiali romani, ma conta anche un buon numero di… frati domenicani. Ciò che in genere non si mette in evidenza, ma che, posto in evidenza, solleva una grossa domanda di fondo (cioè al fondo di questa e della prossima malizia).

L’esercito combattente, cioè i personaggi positivi

Il personaggio domenicano positivo per eccellenza è il domenicano Marie-Dominique Chenu († 1990):

Dominique Chenu

Dominique Chenu

«Che uomo magnifico! Quando, attraversando un leggero strato di timidezza, si incontrava in lui il fratello, il fratello luminoso e generoso (…), allora si incontrava in lui un maestro, un amico, un fratello incomparabile. Il P. Chenu, mi diceva una volta Gilson, è come Dio: si comunica in partecipazione. E in effetti il P. Chenu era incessantemente nello sforzo di comprendere l’altro (…), di incoraggiare e di alimentarne il lavoro» (F 58).

Chenu aveva anche qualche limite e «il più evidente era un orrore per tutto ciò che è organizzazione: tutto ciò che è comitato, presidenza, nastri, carte ufficiali. Tanto credeva alle équipes, quanto poco credeva alle organizzazioni e, se fosse andato sino in fondo su questo punto, sarebbe arrivato all’anarchia» (F 61).

C’è poi tutta una schiera di simpatizzanti O.P.: Jacques Marie Vosté († 1949), Girolamo Hamer († 1996), Pierre-Marie Gy († 2004), in parte Paul Philippe († 1984) ecc. L’amico “del cuore” e “dell’intelletto” è però P. Henri-Marie Féret († 1992) o confidenzialmente “Milou”, con il quale Congar intraprese il primo viaggio a Roma nel 1946 e con il quale si fece fotografare sui tetti di S. Pietro, in una famosa foto con il cupolone di sfondo.

L’esercito da sconfiggere, cioè i personaggi “romani”

Il personaggio domenicano negativo e speculare a Chenu è P. Reginaldo Garrigou-Lagrange († 1964), conosciuto dal quasi adolescente Congar quando predicava un ritiro al Circolo Tomista «poiché, il solo tra i domenicani francesi, era stimato di essere totalmente, verginalmente fedele a San Tommaso e come depositario della grazia di un tomismo integrale» (F 35-36).

Ritratto di P. Reginald Garrigou-Lagrange

Ritratto di padre Reginald Garrigou-Lagrange (1877-1962)

Nel 1946 nella sua prima visita a Roma Congar scriveva: «Per quanto riguarda il P. Garrigou-Lagrange, io dico: 1) Da 40 anni quest’uomo combatte ciò che io credo vero come metodo di considerare e abbordare la verità. Dai fatti di Saulchoir 1905-1907, senza dubbio inconsciamente, ha creato un’atmosfera nella quale le critiche e i sospetti più gravi contro di noi hanno preso corpo e si sono sviluppati. 2) Nel segreto contro natura che circonda tutti i nostri affari, ogni volta che ho potuto seguire una traccia e trovare un nome, ho incontrato il P. Garrigou-Lagrange (…). 4) Il P. Garrigou-Lagrange, e il P. Thomas Philippe al suo seguito e da lui dipendente, hanno aggiunto alla sanzione del S. Ufficio, della quale erano esecutori, dei pesi di ordine dottrinale estremamente gravi, odiosi, ingiusti, e che sono una loro propria interpretazione» (F 112-113).

Parole dure anche per P. Thomas Philippe († 1993) perché ha accettato di fare il visitatore a Saulchoir sostituendo il Garrigou-Lagrange impedito in una missione «che egli non avrebbe dovuto accettare, e che nessuno gli avrebbe mai chiesto se egli non fosse l’uomo che avrebbe dovuto essere, perché vi sono cose che a certe persone non si domandano» (F 54).

Si noti che entrambi erano della Provincia di Francia, come Congar.

P. Mario Ismaele Castellano († 2007) segretario del S. Ufficio al 1953 e frate della Provincia italiana di S. Pietro Martire «si è lamentato in modo amaro e denigrante in quanto gli pare che in Francia non si sia sottomessi. Il mio nome è stato pronunciato tra quelli che sono sospettati e mal sottomessi. Quando e dove e in che cosa io non sono stato sottomesso?» (F 227).

P. Mariano Cordovani

P. Mariano Cordovani

Una sorte più mite ma non esente da valutazione negativa spetta a P. Mariano Cordovani († 1950), Maestro del Sacro Palazzo e incontrato a Roma il 21 maggio 1946: «piuttosto simpatico, rusticus et montanus, dice egli stesso ed è vero. Si percepisce un fondo eccellente (…), considerevoli possibilità di apertura. Se fosse stato formato in un ambiente aperto, sarebbe considerevole. Ma, visibilmente, è legato a un’epoca e a dei limiti che non corrispondono al mondo di oggi».

A fronte della lamentela di Congar e Féret che a Saulchoir non c’è più una équipe e una comunità di lavoro, Cordovani reagisce scandalosamente come un domenicano italiano medio: «Ride. Non ha mai incontrato una comunità di lavoro (…) non è necessaria. E, con un realismo senza amarezza, ci dice che nell’Ordine si vive da soli, si lavora da soli; che i religiosi influenti con doti oratorie e soprattutto con una clientela ricca sono considerati, gli altri…» (F 109).

Cordovani muore poco dopo e Congar, ospite a Roma nella nostra Curia generalizia, a cena deve sorbirsi la lettura di un libro di Spiazzi su Cordovani, che ne decreta la valutazione negativa e con lui dei domenicani italiani: «Comincia con un capitolo con le testimonianze di ammirazione dopo la morte. Sembra che un giorno il mondo sia rimasto stupefatto di conoscere che questa immensa luce si era spenta. A leggere tutto questo, ci si domanda come possano ancora esserci degli increduli nel mondo, tanto la verità è evidente, tanto questo genio ha illuminato il mondo… “in uno speciale culto della verità posseduta e diffusa, amata e predicata”. Non cercata? (…) Mi ricordo di quanto diceva il P. Gillet delle province italiane dell’Ordine: il loro lavoro consiste a glorificarsi delle glorie del passato con pellegrinaggi, feste ecc.» (F 344).

P. Rosario Gagnebet († 1983), frate della Provincia di Tolosa e docente all’Angelicum, ha tratti umani e di apertura verso Congar, ma ha un difetto di fondo incancellabile: è l’uomo di fiducia del S. Ufficio e dunque “il nemico”. Secondo un confratello al quale Congar dà credito, Gagnebet gioca «un ruolo di inquisitore. Era consigliere del Maestro dell’Ordine Suarez per le questioni dello studio ed era incaricato di leggere tutti i libri pubblicati in francese. Prendeva molto sul serio questo ruolo di censore e praticamente non faceva altro» (F 301-302). Il 14.12.1954 Gagnebet è il delegato del S. Ufficio per una conversazione ufficiale con Congar che sarà poi verbalizzata. Poco prima «P. Gagnebet al telefono (…) mi dice che avrebbe voluto vedermi per dirmi in quale spirito fraterno farà ciò, e che da parte sua farà di tutto per facilitare le cose e addolcire la procedura in ciò che ha di penoso. Mi dice tutto questo con un tono di commossa condoglianza» (F 302; cf 311). Comunque prima di incontrare Gagnebet Congar formula alcune decisive valutazioni tra la posizione sua e quella romana, che sono una chiave importantissima per comprendere tante reazioni. Cf il resto nell’Allegato al fondo della presente “malizia”.

P. Emanuele Suarez

P. Emanuele Suarez

Il Maestro dell’Ordine Emanuele Suarez († 1954) gioca un ruolo fondamentale nel Diario – e nella vita! -, ma anch’egli, dopo molte oscillazioni di benevolenza, finisce catalogato tra i “romani” e tra quelli che non capiscono né affrontano i problemi veri. Ma andiamo con ordine.

L’8 febbraio 1954 è il giorno della “grande purga” a Saulchoir: i provinciali di Francia dimessi e alcuni docenti allontanati. Suarez è severo, ma si intuisce un suo stare dalla parte dei francesi, nel senso di intervenire personalmente per evitare il peggio.

Quanto a Congar, «sono ricevuto dal Padre Generale. Mi dice che dovrò smettere l’insegnamento e abbandonare Saulchoir. Molto di più, si voleva proibirmi di scrivere. Di nuovo il P. Generale ha ottenuto di evitare questa misura, prendendo su di lui la censura dei miei libri. Dovrò dunque sottomettere i miei scritti a Roma» (F 234). Si dice che Suarez sia “pressato” dal S. Ufficio. È vero, ma non è completamente vero. Suarez è pressato anche da autorevoli frati domenicani che non condividono la linea francese e di Congar: «Il P. Omez mi lascia capire che al Capitolo generale elettivo del settembre scorso (1946) molti capitolari (dei quali, se mi ricordo bene, un francese) hanno espresso le loro inquietudini e i loro sospetti sulle tendenze intellettuali della Provincia di Francia e su Saulchoir, chiedendo di inviarci un commissario o un visitatore. Il Rev.mo P. Suarez ha preso la difesa della Provincia (…), ha chiesto di concedergli fiducia, che aggiusterebbe tutto lui “fraternamente”» (F 135-136).

Ma per Congar questa fiducia si rompe il 18-19 marzo 1952: «Sino ad ora avevo verso di lui (Suarez) la confidenza filiale più assoluta. Devo invece riconoscere da certi segni (…) che: 1) ha interpretato delle parole che gli ho detto con abbandono e confidenza e ne ha abusato (…), ha tirato prudenzialmente, canonicamente, curialmente le conseguenze e sono vicino a pensare che le misure attuali in parte vengono da lui o in parte sono da lui ispirate; 2) ha creduto alle menzogne che sembrano essere alla radice dell’affare attuale (…). Ormai mi è impossibile parlargli se non a denti stretti, non con il cuore come sino adesso, ma con la ragione fredda di un uomo interrogato, di un uomo davanti al giudice» (F 189-190).

Con la morte di Suarez a causa di un incidente d’auto il giudizio si attenua: «È sempre stato totalmente rispettoso dei miei impegni e integerrimamente votato a sostenermi, proteggermi, aiutarmi. Evidentemente io non ho mai conosciuto il fondo degli affari a causa di un cosiddetto segreto antiumano e anticristiano» (F 274). Qualche riga dopo però Suarez viene definitivamente liquidato come un “galoppino” del S. Ufficio: «non è mai andato a Gerusalemme, mentre è venuto una dozzina di volte a Parigi. Ma sono sicuro che se fosse stato implicato dal S. Ufficio a proposito di un padre, di un miserabile affare di millenarismo o di una questione simile, avrebbe preso l’aereo per Gerusalemme» (F 275).

Santa Sabina ovvero la mediocre romanità dell’Ordine

Che i frati domenicani non stiano tutti dalla parte di Congar — e della Chiesa a venire e da rimodellare — non è solo una questione di persone, ma di ambienti o gruppi di persone, ad esempio i curiali della Curia generalizia di S. Sabina. Trovandosi lì nel 1954 e avendo ricevuto osservazioni allarmate per certe parole usate in un articolo, Congar ricorda ai curiali che la verità o la falsità non sono nelle parole ma nei giudizi. Sennonché, dopo tanto nobile e logico ragionamento, continua con una constatazione tra il comico e il penoso:

«Questo spiega il livello della Curia O.P. Una delle cose che mi hanno letteralmente fatto ammalare. Brava gente, molto pii, buoni e degni. Ma, nella vita civile, sarebbero come impiegati o contabili in una piccola casa di confezioni di abiti. Non alla testa dell’Ordine dei Predicatori Pugiles fidei!!! Che cosa sanno del combattimento della fede? In che cosa sono impegnati?» (F 342-343).

Anche la Madonna è tirata di mezzo e che pena di nuovo a S. Sabina!

A farlo apposta, non si sarebbe potuto fare di peggio! Il 9 maggio 1946 Congar arriva a Milano alla sera per proseguire l’indomani per Roma. Siamo in piena campagna elettorale per il referendum monarchia/repubblica. Nel recarsi al convento domenicano di Santa Maria delle Grazie non può non vedere

«Ai muri i manifesti della campagna elettorale. Su uno di essi, molto riprodotto, una Vergine con dodici stelle emerge dalla bandiera italiana. Con questo testo: “La Madonna ha sempre protetto Milano: votate per la lista della Madonna”» (F 65).

Arrivato a Roma, si trova nel pieno dell’anno mariano, che gli provoca il senso di distaccato rifiuto:

«I muri delle chiese di Roma sono coperti di manifesti di feste, saluti sermoni su Maria Santissima, Immacolata, non si parla che del suo cuore immacolato. Tutti a questa chiesa per la Madre del Divino Amore, per la Madonna del popolo romano (…). Si direbbe che è quella la religione. E allora è un’altra da quella di S. Paolo e di tutta la rivelazione biblica. Io non voglio entrare là dentro» (F 295).

Di nuovo, la nostra Curia generalizia è solidale con questa romanità mariana agli occhi di Congar tanto meschina e che di nuovo provoca un giudizio pesante:

«La sera a S. Sabina ufficio bizzarro per la chiusura dell’anno mariano: saluto con preghiera composta dal papa. Ufficio della notte all’una: mattutino, Lodi cantate davanti al SS. Sacramento esposto, un saluto alla Madonna per finire. E domani ancora un saluto per terminare la recitazione del rosario davanti al SS. Sacramento. Si potrà così fare un bel rapporto al Card. Vicario che ha imposto queste veglie (…). Verità di tutto questo? Nessuna! Valore di risposta ai problemi e ai bisogni degli uomini? Niente! È il “ronron” della macchina che gira dolcemente sotto il segno della doppia e unica devozione al papa e alla Madonna» (F 294).

Più tardi parlerà di “mariolatria”, e cioè che al cristianesimo si sostituisce «un mariano-cristianesimo (…) ho pensato che la questione mariologica fosse lo spartiacque tra due tipi di uomini. In effetti, i mariolatri sono da un lato e i cristiani dall’altro» (I,43).

I tentacoli di Roma sul Capitolo di Roma e la prima scivolata di Browne

Pur essendo nell’occhio del ciclone e forse proprio grazie a questo, Congar è eletto definitore al Capitolo generale elettivo di Roma del 1955.

Nelle conversazioni scarta P. Paul Philippe (della sua stessa Provincia di Francia) come possibile Maestro dell’Ordine: «mi pare che non sia qualificato per altra cosa che per la sua docilità verso il sistema e i suoi riferimenti mariologici, nonché per la sua “riuscita” in un certo numero di visite canoniche» (F 380) (in barba a questi giudizi, Paul Philippe diventerà cardinale e prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali!).

P. Michele Browne, futuro cardinale.

P. Michele Browne.

Il Capitolo è rovente. Il Papa ha inviato il card. Adeodato Giovanni Piazza († 1957), carmelitano, a presiedere il Capitolo, affiancandogli come segretario il domenicano P. Michele Browne Maestro del Sacro Palazzo. Evidentemente Roma non si fida non dei domenicani, ma di alcuni domenicani filofrancesi che potrebbero rovinare il Capitolo.

Comunque alla fine viene eletto il P. Michele Browne († 1971), irlandese e “filoromano”, che da questo momento diventa il bersaglio delle frecce di Congar, che pure gli ha dato il voto (cf F 386).

A cominciare proprio dal primo discorso: (Lunedì 11 aprile 1955) «Il P. Browne è dunque eletto (…). Dopo aver prestato giuramento, è condotto al suo stallo e fa un piccolo discorso, insistendo quasi unicamente sull’obbedienza al magistero del Sovrano Pontefice episcopus universalis, vicarius Dei; obbedirgli, è obbedire a Dio. Non un cenno alla Parola di Dio della quale noi siamo ministri – consacrati» (F 387).

Fino a che punto qui Congar ha un’accezione di “parola di Dio” cattolica o protestante? Deus scit! Le cose si guastano ulteriormente. Browne deve trasmettere un monito del S. Ufficio (F 365) e soprattutto di suo produce alcune “piacevolezze teologiche” poco piacevoli: il soggetto della fede «è unicamente l’intelletto, poiché la teologia scolastica ha precisato adeguatamente e una volta per tutte il senso della rivelazione (biblica)» (F 405); «noi siamo domenicani e facciamo l’apostolato per la nostra propria perfezione; lo scopo è di salvare delle anime individuali» (F 405). Ci torneremo nella prossima puntata.

Anche nell’Ordine c’è solitudine e incapacità di comprendere

Se molti domenicani non militano nell’esercito nemico, vivono in ogni caso in una spiacevole neutralità, che provoca intorno a Congar l’amarezza della solitudine.

Come capita nel breve periodo a Gerusalemme nel 1954: «Mercoledì santo 14 aprile 1954, sera. Prima giornata a Santo Stefano. Malgrado la gentilezza dei Padri, avverto fortemente la solitudine per non dire l’isolamento. C’è la preghiera e il pasto in comune e anche la ricreazione, ma, al di fuori di questo, passo il giorno intero senza vedere nessuno, senza incontrare nessuno» (F 272).

Stessa e peggiore scena l’anno dopo (1955) a Cambridge, ove Congar è assegnato da Browne: «Rientro a Cambridge, provando un insondabile sentimento di vuoto e di assenza (…): nessuno che sia veramente un amico, nessuno con cui comunicare» (F 419). «I miei rari confratelli – uno solo perché gli altri stanno rientrando dalle vacanze – sono gentili. Ma, a parte l’ostacolo terribile della lingua, non si interessano quasi nulla di ciò che mi interessa; sono loro riconoscente per più di una cosa, ma sento che non saranno mai miei amici» (F 428).

Le sorti si rovesciano, ma è vero o è una vetrina?

Il 20 luglio 1960 Congar è nominato consultore della Commissione teologica preparatoria insieme a Henri de Lubac. Le sorti sembrano rovesciarsi, ma Congar non si fa illusioni:

«È Roma che fa le nomine, e si salva la coscienza e la reputazione ampliando il ventaglio dei nomi, ma solo perché ha già preso le sue precauzioni, e le ha presse in modo efficace, per evitare ogni pericolo. Lubac e io siamo stati nominati per essere messi in mostra. Nella Chiesa c’è sempre una vetrina – attraente – e una bottega. La vetrina mostra de Lubac, ma in bottega lavora Gagnebet. Mi sento proprio avvilito» (I,75).

Un anticipo della malizia

La presente malizia, comportando un discorso un po’ lungo, occuperà questo e il mese seguente. Pensata all’inizio più o meno come “Al Vaticano II non c’erano solo Congar e Chenu”, si è poi evoluta nell’attuale titolo più cripxico della vetrina e della bottega, il cui riferimento è il testo citato poco sopra.

Infatti non solo Roma al 1960, ma spesso noi oggi attraverso Congar/Chenu e figli e nipoti e pronipoti si allestisce una vetrina: i domenicani al Vaticano II e il senso del nostro Ordine, il ruolo della nostra teologia, quello che possiamo “umilmente” offrire alla Chiesa ecc. Ma quel’è il senso di questa operazione? E soprattutto: quale è la ragione di essere e di vivere per chi non è in vetrina? E chi non è in vetrina è ancora un buon domenicano o è un domenicano per caso? La risposta arriverà alla prossima puntata con un’analisi un poco più sottile.

(1. Continua)

ALLEGATO: Congar vs. romanità

© Ordine dei Predicatori. Provincia San Domenico in Italia

Fonte: domenicani.it


La bottega e la vetrina di Yves Congar

Al concilio per una Chiesa “diversa”

di P. Riccardo Barile O.P.

La presente “malizia” fa tutt’uno con la precedente. Prenderà in esame il Diario conciliare di Congar (edito in italiano in due volumi), che si riferisce ad avvenimenti tra il 1960 e il 1966 (ma non senza qualche incursione del Diario precedente), per sfociare poi in considerazioni conclusive che saranno la vera “malizia”. Il punto di vista è analogo alla malizia precedente: porre in evidenza i domenicani “non in linea” con Congar, con qualche digressione in più. Anche il modo di citare è lo stesso: le sigle dei tre volumi seguite dal numero della pagina:

Le citazione dei Diari avvengono con una sigla che indica il volume e il numero della pagina:

  • F = Yves Congar, Journal d’un théologien 1946-1956. Ed du Cerf, Parigi 2001, pp. 464.
  • I = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 – I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 540.
  • II = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 – II. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 526.
I periti conciliari Ratzinger e Congar.

I periti conciliari Ratzinger e Congar.

Il Concilio: quasi una schizofrenia di atteggiamenti

Congar visse il Concilio con atteggiamenti esemplari, in primis con «un’etica teologale, anche nei minimi dettagli. Ho adottato come norma pratica di fare solo quanto mi è richiesto dai vescovi. Il Concilio sono loro» (I,199).

A Concilio concluso riconoscerà che l’opposizione della minoranza «ha dato un contributo che nel complesso si è rivelato felice e positivo. Anche se a volte è stata irritante, ha obbligato a scavare in profondità, a sfumare o a precisare meglio, ad accettare altri aspetti» (II,50).

Invece c’è qualcosa che non convince in atteggiamenti rivendicativi dell’inizio: «mi sono impegnato a smuovere l’opinione pubblica perché si aspetti e chieda molto. Ho ripetuto di continuo, dappertutto: forse otterremo il 5% di quanto chiediamo. Una ragione di più per chiedere molto» (I,66).

Ombre sui Papi

Non del tutto allineati con Congar c’erano Papi e Cardinali, per cui in questo e nel successivo paragrafo spenderò una breve parola su di essi, perché – è straevidente – molti domenicani avevano le stesse “ombre” che Congar percepiva in loro.

San Pio V — ci mancherebbe — «non riesco ad amarlo e il suo ufficio è troppo ampolloso. Il Rinascimento ha segnato Roma e la Curia! E le istituzioni conservano il segno della loro origine! Il papato moderno è davvero tridentino e post tridentino» (II,309).

Ancora peggio il beato Pio IX, che proprio l’11 ottobre 1962, giorno di apertura del Vaticano II, torna alla mente come uno «che del procedere della storia non aveva compreso nulla (…) sventurato, che non sapeva cosa fosse né l’Ecclesia né la Tradizione, e che ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo» (I,148).

All’inizio Pio XII sembra salvarsi. Negli appunti serali dopo l’udienza del 26.5.1946, Congar riconosce che «davanti a lui non ci si sente bloccati da nulla di artificiale» (F 122), l’udienza non è stata banale e «il Santo Padre dà l’impressione di una grande semplicità. Non dice “Noi”, ma “io”. Si ha l’impressione che in lui l’uomo spirituale o semplicemente l’uomo è superiore alla funzione e la domina. Appare desideroso di piegarsi verso gli uomini che sono davanti a lui, di essere aperto con loro, di mettersi al loro servizio» (F 124). Ma, una volta morto, contrariamente a quanto accade – si sa che tutti i bambini sono belli e tutti i morti sono buoni -, la memoria su Pacelli peggiora: «il regime soffocante di Pio XII» (I,66), l’«insopportabile satrapismo di Pio XII» (I,67), la necessità odierna di convertirsi «a non pretendere di dettar legge su tutto: una volontà che sotto Pio XII ha assunto dimensioni mai raggiunte prima e ha condotto a un paternalismo e a una imbecillità senza limiti» (I,27-28).

Roncalli e Montini, i futuri Giovanni XXIII e Paolo VI.

Roncalli e Montini, i futuri pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI.

In realtà papa Pacelli patisce il confronto con il beato Giovanni XXIII, che – questa volta tutti i morti sono buoni – ha un necrologio più che positivo: con lui «la Chiesa, ma anche il mondo, ha fatto un’esperienza straordinaria (…) ci si è accorti che aveva trasformato la visione religiosa e anche umana del mondo: restando semplicemente quello che era (…) non si tratta di pretendere e di rivendicare con arroganza di essere il vicario di Cristo, ma di ESSERLO veramente» (I,361-362). Peccato che in vita «le sue decisioni e la sua azione di governo smentivano in gran parte tutto quello che aveva suscitato speranze» (I,67), un suo discorso «mi pare molto banale» (I,84) e, peggio, per la festa di san Tommaso all’Angelicum il 7.3.1963: «lungo discorso del pontefice, che sostiene di non aver preparato niente (…) il papa, molto stanco, non mostra alcun slancio oratorio» (I,329).

Subito dopo, Paolo VI «è uomo di intelligenza superiore e ben informato. Suscita una profonda impressione di santità». Continuerà Giovanni XXIII ma «sarà molto più romano, più tipo Pio XII: vorrà, come Pio XII, stabilire le cose partendo dalle idee, e non semplicemente lasciandole crescere da sole partendo da qualche apertura prodotta da un moto del cuore. Amerà anche lui il mondo, ma su una linea di sollecitudine» (I,362). Poi però con il tempo «il Papa fa grandi gesti simbolici, ma dietro di essi non vi sono né la teologia né il senso concreto delle cose che quei gesti esigerebbero» (II,233).

Ombre su alcuni Cardinali

Il card. Alfredo Ottaviani «pare essersi costruita una sintesi, coerente e priva di dubbi, degli errori di cui mi crede complice, errori che attacca come in un sogno ad occhi aperti. Uccide la tarasca (N.d.R.: animale leggendario e dunque inesistente)» (I,89-90).

Mons. Pietro Parente, poi Cardinale è «l’uomo della condanna di padre Chenu, il fascista, il monofisita» (I,67; Congar in parte si ricrederà su di lui).

Il card. Giuseppe Pizzardo, avendo proibito la pubblicazione di un manuale destinato ai seminari, compie un «miserabile abuso di potere. In nome di che cosa Pizzardo, che è un imbecille ritenuto tale da tutti, fa queste minacce?» (I,101).

Gli ambienti domenicani italiani

Milano è il primo convento italiano visitato nel primo viaggio italiano. Il 9.5.1946 Congar e Feret a Milano incontrano P. Giuseppe Riboldi (1966) (a sinistra nella foto) «che sente come noi i grandi problemi dei tempi moderni e della Chiesa nei tempi moderni. Ma ha avuto delle difficoltà e quasi ha l’interdizione di predicare e di confessare» (F 65-66).

P. Giuseppe Riboldi

P. Giuseppe Riboldi

Ma dopo, nei viaggi durante il Concilio, non sarà più così. A Milano, al posto dell’impegnato Riboldi, Congar vede «grossi domenicani dal ventre prominente mentre scendono le scale» (I,407). Il priore (Giordano Ghini, 1983) e altri sembrano fare buona impressione, ma «ho saputo da altri, sono al di fuori della grande corrente. Svolgono il ministero classico di chiesa e di predicazione occasionale; non sono inseriti nella vita di questa città universitaria (2 università e 2 grandi Istituti tecnici di livello universitario). San Domenico aveva scelto le città universitarie e anzitutto Parigi e Bologna, i due emisferi intellettuali del mondo cristiano (…) ritengo che i miei confratelli non capiscano bene quanto di notevolmente nuovo o rinnovato rechino i grandi testi Lumen gentium, De divina Revelatione ecc.» (II,407-408).

Dalla penna di Congar, Bologna non esce bene. Prima del Vaticano II nel 1950 «alle 16,20 arrivo a Bologna (…). Alla sera a ricreazione i Padri parlano dell’enciclica Humani generis e mi dicono che prima ancora che apparisse alcuni giornali italiani hanno annunciato che questo documento atteso avrebbe condannato la teologia di P. de Lubac e l’ecumenismo di P. Congar. Bisogna lasciare che i cani facciano la pipì al portone» (F 169).

Durante il Concilio Congar tornerà a Bologna ma per incontrare Alberigo e Lercaro e non i frati, né si degnerà di alloggiare in convento. Però una visita all’Arca di san Domenico è d’obbligo:

«Vado sino al sepolcro di san Domenico. Crollo su un banco, privo di forze, ma prego tuttavia come se avessi molta forza. Alle 18 si celebra una messa. Vi assisto in raccoglimento. Passano molti Padri o confratelli. Andatura da monaci che escono dalla loro quiete separata e protetta, per fare un giro fra gli uomini che frequentano il loro santuario. Antropologicamente, un’impressione mediocre» (I,343).

Santo cielo! Ma chi si crede di essere, Congar, per elaborare in un attimo questi giudizi?

In compenso a Napoli (1962), dove Congar è stato invitato, tutto fila più che liscio. I frati «stanno conducendo un’interessantissima esperienza di lavoro domenicano per sostenere la predicazione del clero. Desideravo aiutarli. Ritengo che QUANTO SARÀ FATTO PER CONVERTIRE L’ITALIA DALL’ULTRAMONTANISMO POLITICO, ECCLESIOLOGICO E DEVOZIONALE AL VANGELO, sarà un guadagno anche per la Chiesa universale» (I,302).

Nei sogni di Congar i frati italiani (o almeno alcuni) «nei prossimi trent’anni saranno in grado di FARE PER L’ITALIA CIÒ CHE NOI ABBIAMO FATTO PER LA FRANCIA: animare ideologicamente un rinnovamento della Chiesa attraverso un autentico ritorno alle fonti» (I,198-199).

A parte la constatazione che la storia successiva dei domenicani italiani non si è evoluta in questo senso, qualsiasi mediocre lettore intuisce subito che gli italiani si riscatteranno se saranno come i francesi versione Congar. Neppure il sospetto che ci sia una “via italiana” verso il rinnovamento, diversa dalla Francia.

Le istituzioni dell’Ordine in Italia

Il card. Ciappi

Il card. L. Ciappi, definito da Congar “una mente povera e ristretta” (II, 238).

Il domenicano P. Mario Luigi Ciappi (¿ 1996), Maestro del Sacro Palazzo e poi Cardinale (nella foto), è deprezzato perché cita lo Zigliara (Tommaso Zigliara ¿ 1893, domenicano e cardinale) (I,98). È «ultraprudente, ultracuriale, ultrapapista» (I,341).

Per completare, è anche ultramontanista: «Ho letto l’articolo del P. L. Ciappi, Unico Pastore e unico Fondamento della Chiesa universale O.R. 29.1.1964. È la tesi ultramontana secondo la quale: 1) tutta l’ecclesiologia si riduce al Papa o si deduce dai suoi poteri; 2) solo il Papa ha potere sulla Chiesa universale: il collegio dei vescovi non è citato, ma è escluso» (II,18).

Il domenicano P. Michele Browne è incontrato da Congar prima come Maestro dell’Ordine e poi come Cardinale.

Cominciamo da Maestro dell’Ordine, al cui riguardo Congar accetta la valutazione di alcuni frati: «Incontro con padre Trémel. socius di Lione al Capitolo generale. Mi dice che il Capitolo è stato penoso e che padre Browne è “un rimbambito”; con padre Gomez e i socii, così mi dice, fanno cinque “rimbambiti”. È il vuoto, il nulla (…). Ha avuto la sensazione che le province sulla nostra linea siano un’infima minoranza in un mondo tutto italiano, spagnolo, americano molto diverso» (I,119).

Browne è creato Cardinale: «Pover’uomo, completamente prigioniero del sistema. So da buona fonte che la sua nomina a cardinale (…) è venuta dai vescovi della Commissione centrale, che vorrebbero avere un teologo fra loro!!!» (I,134-135).

Ritratto del card. Browne. «Dio ci guardi da Browne! Preferisco Ottaviani...» (I, 310), scrisse Congar.

Ritratto del card. M. Browne. “Dio ci guardi da Browne! Preferisco Ottaviani” (I, 310), scrisse Congar.

Di conseguenza Browne ha un certo rilievo nei lavori del Concilio, ma «un melo produce mele, e un pero pere», per cui Browne «non può fare una relazione adeguata ai nostri tempi» (I,223), anche perché «il ritorno alle fonti non lo ha scosso di un micron. Per lui, oggi come vent’anni fa, il Papa è episcopus universalis: questa è tutta la sua ecclesiologia (…) tutto ciò che afferma la sottomissione è bene, tutto ciò che parla a favore della libertà è da limitare e, se possibile, da escludere. Non perde occasione per parlare a favore di questi principi miserabili (…). Quando ci sono le parole “amore”, “esperienza”, sicuramente trova una difficoltà. Mentre se verrà affermato per la ventinovesima volta che tutto si svolge sub Petro e che bisogna reverenter oboedire, andrà tutto bene» (II,192).

È criticato perché vuole il prete definito dall’eucaristia (II,192-193; 403) e mette il Papa «non nella Chiesa ma al di sopra della Chiesa (…). È l’ecclesiologia che renderebbe definitivamente impossibile l’unione con gli ortodossi» II,73). Appartiene a un gruppo conservatore (cardinali Ruffini, Siri, Browne, Larraona, Santo) (II,157), che ha proposto dei modi contrari alla collegialità: «Si tratta proprio dell’odio verso ogni apertura “democratica” e l’espressione dell’integrismo» (II,197).

Unico cenno positivo e al fondo ironico: in una riunione è andato tutto bene perché «il cardinale Browne è stato molto cordiale, leale, pacificatore. È in gran parte merito suo se le cose sono andate per il verso giusto. Ci ha anche divertito, sostenendo, per due volte, che Abramo aveva, nelle intenzioni, osservato la castità più di molti vergini, pur avendo avuto sei mogli» (I,360).

Come mai un giudizio simile su P. Aniceto Alonso Fernandez (¿ 1981, nella foto), che come Maestro dell’Ordine successe a Browne?

P. Fernandez, per Congar "spaventosamente meschino e senza ampie vedute" (II,109)

P. Fernandez, per Congar fu “spaventosamente meschino e senza ampie vedute” (II, 109).

Perché incontrando Congar lo rimproverò di mettere troppo le sue vicende in pubblico, mentre «se il Sant’Ufficio fosse altrettanto indiscreto e proponesse un racconto vero dal suo punto di vista, forse non ne uscirei troppo glorioso. Il padre Generale dice che dovrei, in un prossimo articolo, fare gli elogi del Sant’Ufficio e dei servizi che ha reso e rende alla Chiesa»; questo è troppo e Congar conclude: «Trovo tutto questo miserabile. Ritengo il padre Generale spaventosamente meschino e senza ampie vedute» (II,109). Va precisato che il povero Fernandez troverà il suo momento di riscatto quando… in riparazione elogerà Congar (I,371).

Stando alle confidenze di un suo collaboratore, P. Fernandez «parla solo di sicurezze e precauzioni da prendere e vive sotto l’incubo di ciò che si dice al Sant’Ufficio: sempre il medesimo cancro che rode il cuore evangelico della Chiesa!» (I,357); nelle commissioni «fa sempre delle dissertazioni ogni volta che parla; mi porgono le condoglianze» (I,445).

Fernandez vive e vibra «nel clima ispanico di anticomunismo e di trionfo del tomismo» (II,36) e sostiene posizioni insostenibili sulla libertà religiosa, tanto che «Padre Gy mi conferma ciò che pensavo: volutamente il padre Generale non ha preso la parola durante la discussione sulla libertà religiosa. Ha saputo che gli viene rimproverato di non rappresentare completamente l’Ordine. Ha voluto dare questo segno di buona volontà» (II,342).

Nel già citato viaggio a Milano, il 26.11.1965 Congar in refettorio deve sorbirsi la lettura del «discorso di apertura dell’ultimo capitolo generale tenuto da padre Fernandez: una scolastica tutta astratta e analitica, con distinzione netta tra naturale e soprannaturale e l’invito ai motivi e mezzi “soprannaturali”. Una cosa del tutto indigesta e piuttosto inutile. Perché non parlare la lingua del Vangelo e di san Paolo? È molto più virile e più vera!» (II,407).

In parallelo alla conclusione su Browne, concludiamo con un momento in cui Fernandez fa ridere tutti: 8.3.1963 «a proposti della conoscenza di Dio in certe popolazioni primitive, il Padre generale racconta di aver visitato alcune regioni dell’Amazzonia dove uomini e donne vivono nudi. Fa ridere tutti quando aggiunge di avere delle fotografie» (I,329).

Qualcosa sugli altri confratelli

C’è qualche piccolo riscatto, ma non totale, di Gagnebt (I,115.129).

P. Giacinto Bosco (¿ 1996), assistente del Maestro dell’Ordine per l’Italia, che ha coinvolto Congar in una poco utile commissione dell’Ordine sul ministero, incassa una benevola neutralità (I,358); invece P. Raimondo Spiazzi (¿ 2002) migliora rispetto alla “malizia” precedente in quanto nella predetta commissione ha sintetizzato un testo di Congar (II,310).

Nella stessa commissione si scontrano con Congar due domenicani spagnoli che forse difendono (troppo) il Rosario: «Sancho e Reeves soprattutto contestano ciò che dico sulle devozioni e il Rosario; mi spiego e mi difendo, esponendo con calore la necessità di riprendere (contestare) gli elementi di “religione” istintiva nella “fede”» (II,310).

Le diverse tendenze intellettuali ma non solo si manifestano in un congresso degli ecclesiologi domenicani in Spagna nel marzo 1964: «Ci sono i sostenitori del concettualismo e ci sono quelli che vogliono un approccio più storico ed esistenziale. E tra questi ultimi ci sono quelli che hanno avuto la loro formazione prima di Heidegger e delle esigenze di oggi e quelli che partono proprio da queste esigenze: due generazioni. Io sento il problema attuale dei giovani per i quali la tradizione non è un valore assoluto» (II,438).

Schillebeeckx, ovviamente, aveva la stima di Congar.

Schillebeeckx, ovviamente, aveva la stima di Congar.

Qui Congar incontra Schillebeeckx, il quale, unitamente ad altri confratelli olandesi, lo informa che il reggente degli studi ha rassegnato le dimissioni perché «non può prendersi la responsabilità dell’insegnamento di 5 o 6 docenti che, mi dice Schillebeeckx, riconducono il cristianesimo a un puro umanesimo e sposano radicalmente le tesi bultmaniane o quelle di Honest to God. Sono dispiaciuto per quello che mi dicono» (II, 439).

Tutto si conclude con un fraterno e nobile “dispiacere”, mentre – lo si può legittimamente pensare senza pensar male – se ci fossero stati di mezzo Pizzardo, Browne, Fernandez, Garrigou Lagrange ecc. sarebbero volati degli “imbecilli”, delle “nullità”, degli “incapaci di comprendere” ecc.

Insomma, a un livello diverso vale anche per Congar la constatazione e il consiglio di Giovanni Giolitti (¿ 1928): le leggi con i nemici si applicano e con gli amici si interpretano.

E giunti a questo punto facciamo il punto sulla vetrina: per Congar

Può essere utile ritornare all’immagine della vetrina e della retrostante bottega. Abbastanza in fretta con il Concilio e nel dopo Concilio è cambiata la posizione dei personaggi: quelli che erano solo in vetrina sono entrati nella bottega a confezionare testi autorevoli e anche a governare la Chiesa, compreso ovviamente Congar.

Congar ritratto a Varsavia.

Congar ritratto a Varsavia.

Il quale però nel giro di pochissimi anni con la contestazione del ’68 da parte dei giovani frati si trovò ad essere annoverato tra i “tradizionalisti” o comunque tra quelli “con troppe certezze”: «Un giovane frate domenicano mi diceva un giorno: “Lei sta benissimo nella sua pelle; noi invece ne siamo fuori”. È vero, io sto bene nella mia pelle (…) talvolta mi dico: ho troppe certezze». Poi, dopo una serie di considerazioni, Congar pronunciò una frase tanto bella e profonda da fargli perdonare tutte le altre infelici sin qui riportate: «Nell’incertezza in cui sembrano compiacersi molti giovani, c’è una ricchezza d’apertura della quale io mancherei un poco? Mi capita di domandarmelo. Ma il mio ruolo, se un ruolo c’è, sarà senza dubbio di essere un testimone della Tradizione in mezzo al cambiamento; essendo la Tradizione tutt’altra cosa che un’affermazione meccanica e ripetitiva del passato: essa è la presenza attiva di un principio a tutta la sua storia» (Jean Puyo, J. Puyo interroge le Père Congar. Le Centurion, Parigi 1975, pp. 238-9).

Nel dopo contestazione e con la svolta di Giovanni Paolo II, Congar tornò flebilmente su posizioni simili ma non identiche a quelle dei Diari. Così, in un’intervista del 1989 «accennando alle posizioni del moralista Häring, fortemente osteggiate dalla Santa Sede, disse: “Penso che a Roma si trattino allo stesso modo problemi che non hanno la stessa importanza. È evidente che l’aborto è un crimine, ma la masturbazione…”. Se la prese con il “giuramento di fedeltà”, dal 1° marzo dell’89 esteso a più categorie di persone: “Non bisogna abusare dei giuramenti. L’ha detto Gesù nel Vangelo”».

Sull’inferno commentò: «È molto difficile parlarne. Lei, ci crede veramente, dico veramente, all’inferno, al purgatorio? A quale inferno lei crede? Sta qui il problema. C’è un inferno al quale io non credo affatto. L’inferno del castigo eterno non è possibile, perché Dio si è rivelato come amore. Dunque, se c’è un inferno, di che inferno si tratta?» (Francesco Stazzari, Yves Congar. «Non sono disorientato» in Il Regno 14/1995, p. 433).

E giunti a questo punto facciamo il punto sulla vetrina: per noi oggi

Capita oggi di allestire una vetrina, quella dei domenicani al Concilio e di fronte alla Chiesa quando ne parliamo tra di noi o agli altri, mettendoci Congar, Chenu e figli e nipoti e pronipoti e mettendo non nella bottega ma fuori dalla vetrina quelli dell’altra parte, cioè i vari Garrigou Lagrange, Cordovani, Browne, Fernandez e i loro figli e nipoti e pronipoti.

Yves Congar (1904-1995)

Yves Congar (1904-1995)

L’operazione può essere giusta o ingiusta, legittima o illegittima.

Se si afferma di preferire questa teologia perché è la più adatta al mondo di oggi o semplicemente perché la storia attuale l’ha valutata come quella più spendibile, nulla da eccepire.

Ma se si afferma che questa è “la” teologia domenicana, allora l’affermazione è scorretta e grave da più punti di vista.

Dal punto di vista della verità e della teologia come tale, la verità è sinfonica e nasce dalla sinergia e dal dibattito delle varie tendenze, per cui gli oppositori hanno sempre un senso. Inoltre la verità nasce dal confronto con l’insegnamento “autorevole”, quali che siano le tendenze attuali. Congar ha detto e scritto cose pregevoli e per le quali non lo benediremo mai abbastanza, ma se il Vaticano II fosse stato fatto solo da lui, che cosa ne sarebbe risultato?

Dal punto di vista della storia e dell’appartenenza: i teologi domenicani e i frati alternativi a Congar/Chenu sono tutti appartenuti all’ordine domenicano e, se hanno fatto teologia, la loro è la teologia dell’Ordine né più né meno della teologia di Chenu/Congar. Sembra infatti più corretto verificare che la teologia dell’Ordine è quella che l’Ordine nella sua storia ha prodotto – dunque anche quella di Reginaldo Garrigou Lagrange -, che non scegliere un certo tipo di teologia e affermare: “questa è la teologia dell’Ordine”. Così facendo bisogna non solo togliere qualcuno dalla vetrina, ma anche vergognarsi di lui.

Ricordo che in un recente Capitolo generale a livello di commissione stava per uscire un testo affermante che la teologia domenicana è quella di san Tommaso d’Aquino e di Marie-Joseph Lagrange (¿ 1938) – da non confondersi con Reginaldo Garrigou Lagrange! – non solo per il loro apporto innovativo nella speculazione e nelle scienze bibliche, ma anche perché entrambi… erano stati condannati! Fortunatamente dopo un serrato confronto il testo fu interamente rielaborato, ma a livello di altre affermazioni meno controllate non sempre così capita…

In conclusione, è del tutto legittimo distinguere e scegliere secondo le proprie preferenze, ma è illegittimo separare o addirittura escludere, un po’ come, si licet parva componere magnis, Calcedonia esigeva per le due nature di Cristo: «inseparabiliter agnoscendum» ma senza togliere la «differentia naturarum» (D 302). Così Congar non è Reginaldo Garrigou Lagrange, ma tutti e due sono domenicani, la teologia di entrambi è domenicana e non si può ridurre la teologia nell’Ordine all’uno o all’altro. D’altra parte è solo questione di tempo: la storia mostrerà che anche gli idoli attuali hanno delle crepe…

(2. Fine)

© Ordine dei Predicatori. Provincia San Domenico in Italia

Fonte: domenicani.it