Il concetto di persona nella dottrina di Dio

Cardinale Joseph Ratzinger Dogma e Predicazione 1973 – 2005, terza edizione Queriniana – da pag. 173-189.

Il significato di persona nella teologia

Il concetto di persona, e l’idea che gli sta dietro, è un prodotto della teologia cristiana; in altre parole si è sviluppato soprattutto dalla discussione tra il pensiero umano e i dati della fede cristiana e su questa strada è entrato nella storia del pensiero. Per parlare con Gilson, con il concetto di persona noi ci troviamo davanti ad uno di quei contributi, che la fede cristiana ha agevolato e realizzato nel pensiero umano; questi non sorsero spontaneamente dal filosofare proprio dell’uomo, ma si svilupparono dalla discussione tra la filosofia e le affermazioni della fede e, in particolare, della Sacra Scrittura. Più specificamente il concetto di persona è sorto da due questioni che si sono imposte, fin dall’inizio, al pensiero cristiano come problemi centrali; essi sono i due interrogativi:

Cosa è Dio (il Dio che ci viene incontro nella Bibbia)? Chi è Cristo?

Per rispondere a questi due interrogativi di fondo, che si posero non appena venne introdotta nella fede la riflessione, quest’ultima ha usato il termine di «prosopon» = persona, che fin allora era insignificante in filosofia o non era usato affatto. Ad esso venne dato un nuovo significato e venne dischiusa una nuova dimensione del pensiero umano.

origine-termine-persona-1_5468ee99c21e4Anche se, nel corso dei tempi, ci si è allontanati di molto dalla sua origine e lo si è sviluppato al di là di essa, questo pensiero tuttavia trae vita, anche se non ce n’accorgiamo, dalla sua origine. Il significato vero e proprio di persona, perciò, non può venir afferrato, a mio parere, se non viene di continuo ricongiunto a tale origine.

Per questo motivo mi si voglia perdonare se io, nella mia qualità di sistematico, per rispondere alla richiesta di parlare del concetto dogmatico di persona, non spiego le ultime idee di teologi moderni, ma tento di portare l’idea di persona all’origine, alla fonte principale, dalla quale è stata generata e senza la quale essa non può sussistere.

Da quanto accennato risulta spontanea l’articolazione del tema. Noi dovremo semplicemente riflettere un po’ più da vicino alle due origini del concetto di persona, quella derivante dalla questione di Dio e quella sorta nel problema cristologico.

Il concetto di persona nella dottrina di Dio

1. L’origine del concetto di persona

La prima figura che incontriamo è quella di Tertulliano, il grande teologo occidentale. Tertulliano ha trasformato il latino in una lingua teologica e, con una sicurezza quasi inesplicabile, ha saputo ben presto formulare una terminologia teologica, che i secoli seguenti non riuscirono più a superare, dal momento che essa ha dato la sua impronta, di primo acchito, a delle formulazioni del pensiero cristiano che continuavano a mantenere la loro validità.

Fu Tertulliano quindi ad imporre nell’Occidente la sua formula per la rappresentazione dell’idea cristiana di Dio: Dio è «una substantia – tres personae», un essere in tre persone.

origine-termine-persona-7_5468f1cc345b0È in quest’occasione che il termine di «persona» entra per la prima volta, con piena autorità, nella storia del pensiero.

Passarono ancora dei secoli prima che quest’espressione potesse venir accolta e completata anche spiritualmente, prima che essa divenisse non più un semplice modo di esprimersi, ma un reale passo in avanti nella comprensione del mistero; essa insegnava infatti non a comprenderlo, ma a farlo proprio in qualche modo. Quando noi affermiamo che Tertulliano riuscì a coniare il termine, ma che la sua accoglienza, dal punto di vista spirituale, stava ancora compiendo i primi passi, sorge subito il problema del come egli fu in grado, allora, di trovare questa parola con una tale sicurezza, che ha quasi dell’irreale.

Questo fino a poco tempo fa era un enigma.

Cari Andersen, di Gottinga, esperto in storia dei dogmi, è riuscito di recente a fare piena luce su di esso; di conseguenza l’origine del concetto di persona, la sua vera fonte, ci sta oggi davanti in forma alquanto chiara. Alla domanda sul come si giunge al concetto di persona si risponde che l’origine di esso si trova nella cosiddetta esegesi prosopografica. Cosa vuol dire questo termine?

Sullo sfondo sta la parola prosopon, che costituisce il corrispondente greco di persona. Esegesi prosopografica è una forma di interpretazione, che era stata sviluppata già dall’antica scienza della letteratura.

Essa sosteneva cioè che i grandi poeti dell’antichità, per ravvivare drammaticamente gli eventi, non si accontentavano di raccontarli, ma facevano entrare in scena delle persone che parlavano; essi ponevano sulla bocca delle figure degli dei delle frasi, per mezzo delle quali il dramma procedeva. In altre parole, il poeta crea, come artifizio letterario, dei ruoli, grazie ai quali l’evento veniva rappresentato in forma dialogica. Lo studioso di letteratura svela questo artifizio, mostra che le persone sono state create come «ruoli», per animare drammaticamente gli eventi (il termine di prosopon, che più tardi diventerà persona, significa in origine proprio il «ruolo», la maschera dell’attore). L’esegesi prosopografica è dunque una interpretazione che porta alla luce questo artifizio proprio mentre chiarisce come l’autore abbia creato dei ruoli drammatici, dei ruoli di dialogo, per ravvivare la sua composizione poetica o il suo racconto.

Gli scrittori cristiani, nella loro lettura della Sacra Scrittura, si imbattono in qualcosa di molto simile.

Essi scoprono che anche qui il fatto si svolge nel dialogo. Essi trovano, prima di tutto, il fatto sorprendente di un Dio in persona che parla al plurale oppure di-scorre con se stesso (si pensi a testi come «facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza», oppure alla parola di Dio in Gen. 3: «Adamo è diventato come uno di noi». Opp. nel Sal. 110: «Disse il Signore al mio Signore». Secondo l’interpretazione dei padri si tratta di un dialogo di Dio con suo Figlio).

Questo fatto, la presentazione, cioè di Dio stesso mentre parla al plurale o con sé, viene elaborato dai padri con l’artificio dell’esegesi prosopografica, la quale però guadagna così un nuovo significato. Già Giustino, che scrive ancora nella prima metà del secondo secolo (+ 165), dice che lo scrittore sacro introduce qui diversi prososopa, diversi «ruoli». In verità, questo termine ora non significa più «ruoli», perché la parola, a partire dalla fede nella parola di Dio, viene ad acquisire una realtà del tutto nuova; i ruoli, che vengono introdotti dallo scrittore sacro, sono realtà, sono entità in dialogo. E così il termine di prosopon = ruolo sta qui preparandosi direttamente a far nascere l’idea della persona. Io cito soltanto un testo di san Giustino, per illustrare questo processo: «Se voi udite che i profeti dicono delle frasi, come quando parla una persona allora non crediate che esse vengano dette direttamente dagli uomini ripieni di spirito (=profeti), ma dal Logos che li muove».

Giustino afferma dunque che i ruoli dialogici introdotti dai profeti non rappresentano dei puri artifizi letterari. Il «ruolo» esiste realmente, è il prosopon, il volto, la persona del Logos, che qui partecipa realmente alla conversione nel dialogo con il profeta. Qui si dimostra con tutta chiarezza in che modo i dati della fede cristiana trasformino e rinnovino un antico schema già esistente nell’esegesi dei testi. L’artifizio letterario di far comparire dei ruoli, che col loro dialogo ravvivano la rappresentazione, svela al teologo colui, che qui giuoca il vero ruolo, il Logos, il prosopon, la persona del Verbo, che non è più solamente ruolo, ma persona.

Tertulliano, appena cinquant’anni più tardi, poteva già, nella stesura dei suoi scritti, riferirsi ad una vasta tradizione di tale esegesi prosopografica cristiana, nella quale il termine di prosopon-persona aveva ormai trovato il suo pieno contenuto di realtà. Mi limito a due esempi.

origine-termine-persona-5_5468f0d7d4e97Tertulliano scrive nell’Adversus Praxean:

«Come può una persona, che esiste da sola, parlare al plurale, dicendo: «Facciamo un uomo a nostra immagine e somiglianza? Egli avrebbe dovuto dire invece: ‘Io voglio fare un uomo a mia immagine e somiglianza’, come direbbe uno che esiste individualmente e solo per sé.

Ma anche in seguito Dio diede delle illusioni e scherzò dicendo: ‘Ecco, Adamo è divenuto come uno di noi’; egli lo disse al plurale, benché fosse stato un individuo unico ed autonomo.

Ma egli non era da solo, perché accanto a lui erano già stati posti il Figlio, la sua Parola, ed una terza persona, lo Spirito nella Parola. È per questo che egli parlò al plurale: ‘facciamo’, ‘nostro’, ‘noi’».

Si può vedere qui come il fenomeno del dialogo intra-divino fa emergere l’idea della persona, che è persona in un senso specifico. Nella sua interpretazione del Salmo 110,1 «Disse il Signore al mio Signore», Tertulliano si esprime in termini simili.

Osserva, egli dice, «come anche lo Spirito, la terza persona, parla del Padre e del Figlio: ‘Disse il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi’. Ugualmente in Isaia: ‘Queste parole dice il Signore al Cristo, mio Signore’… Questi pochi passi dunque ci pongono con chiarezza davanti agli occhi la differenziazione (all’interno) della Trinità.

Esiste di per se stesso colui che parla, cioè lo Spirito; inoltre esiste il Padre al quale egli si rivolge, ed infine il Figlio, del quale egli parla».

Non vorrei entrare nei dettagli storici di questi testi, ma riassumere soltanto brevemente cosa da essi si può trarre a proposito dell’idea di persona. Mi sembra che si possano fare due specie di osservazioni.

In primo luogo, il concetto di «persona» si è sviluppato dalla relazione con la Scrittura, come una esigenza della sua interpretazione. È un prodotto del rapporto con la Bibbia. In secondo luogo, esso è derivato dall’idea del dialogo, ossia come spiegazione del fenomeno del Dio che parla in forma dialogica. Diciamolo ancora una volta, con parole diverse: la Bibbia, col suo fenomeno del Dio che parla, col suo fenomeno del Dio che è in dialogo, ha dato l’impulso al formarsi del concetto di persona. Le singole esegesi, che i padri offrono, sono di certo accidentali, e come tali superate, ma la linea esegetica complessiva, che essi seguono, ha colto la direzione spirituale della Bibbia; il fenomeno di fondo, davanti al quale noi veniamo posti nella Bibbia, è il Dio che parla e l’uomo cui viene rivolta la parola, il fenomeno della compartecipazione dell’uomo, chiamato da Dio all’amore nel Verbo. Così però viene alla luce l’essenza di ciò che persona può veramente voler dire.

Quanto affermato finora possiamo riassumerlo così: il concetto di persona, a partire dalla sua origine, esprime l’idea del dialogo e di Dio quale essere dialogico. Esso pensa a Dio come all’essere, che vive nella parola ed esiste come io e tu e noi nella Parola. Questa conoscenza di Dio chiarifica all’uomo, in una maniera nuova, il suo proprio essere.

2. Persona come relazione

Quello che abbiamo detto ha illustrato il primo stadio della disputa attorno al concetto cristiano di Dio. Io vorrei aggiungere ancora un breve prospetto del secondo stadio principale, nel quale il concetto di persona ha raggiunto la sua piena maturità.

origine-termine-persona-2_5468f042ae1b0Circa duecento anni più tardi, sul finire del IV ed all’inizio del V secolo, la teologia cristiana è così estesa, che può esprimere con chiarezza e con concetti ormai formati cosa si intenda con la tesi che Dio è un essere in tre persone. Viene ora affermato che persona si deve intendere come relazione; le tre persone che esistono in Dio sono, per loro natura, — come dicono Agostino e la teologia della tarda patristica — relazioni, rapporti. Esse non sono dunque sostanze che stanno una accanto all’altra, ma sono vere, reali relazioni, nient’altro che questo. Io credo che quest’idea della tarda teologia dell’epoca patristica sia molto importante.

Persona vuol dire, in Dio, relazione. La relazione, Tesser riferimento, non è qualcosa di aggiuntivo alla persona, ma è la persona stessa; la persona esiste qui, per sua essenza, soltanto come riferimento. Ancora più in concreto si può dire che la prima persona genera non come se l’atto della generazione di un figlio si aggiungesse ad una persona completa, ma nel senso che essa è l’azione del generare, de! darsi e dell’effondersi. Essa è identica a quest’atto di dedizione. Si potrebbe dunque definire la prima persona come la dedizione nella conoscenza e nell’amore fruttifero; essa non è colei che dà, colei alla quale appartiene l’atto del donare, ma è essa stessa la dedizione, pura realtà attiva. Qui è anticipata un’idea che è affiorata di nuovo soltanto nel nostro secolo, nella fisica moderna, l’esistenza cioè della con pura attualità. Noi sappiamo bene che nel nostro secolo si tentò di ridurre la materia ad un’onda, alla pura attualità del divenire.

La teologia ha attribuito, nel IV e V secolo, alle persone divine, quella che qui può essere un’idea problematica, l’affermazione cioè che esse non sono altro che l’atto della relatività reciproca. Persona in Dio è la pura relatività dell’essere-rivolti-l’uno-all’altro, essa non si trova sul piano della sostanza — la sostanza è una sola —, ma sul piano del dialogo, della relatività reciproca.

In questo modo Agostino ha poi potuto tentare di rendere comprensibile, almeno a livello intuitivo, la collaborazione di trinità e unità; egli dice, ad esempio: In Deo nihil secundum accidens dicitur, sed secundum sub-stantiam aut secundum relationem (In Dio non esiste nulla di accidentale, di fortuito, ma soltanto sostanza e relazione). Qui il rapporto, la relazione viene riconosciuta come una terza, peculiare categoria di fondo che si inserisce tra sostanza e accidente, le due grandi forme categoriali del pensiero antico; di fronte a noi si presenta di nuovo la cristiana novità dell’idea personalistica in tutta la sua acutezza e chiarezza. Mi sembra che qui diventi visibile e comprensibile in forma del tutto particolare il contributo della fede al pensiero umano; essa ha prodotto quest’idea della pura attualità, della pura relatività, che non si trova sul piano della sostanza e non tocca o partecipa della sostanza come tale, ed ha portato, quindi l’attenzione sul fenomeno personale.

Noi ci troviamo qui in un punto nel quale la penetrazione speculativa della Sacra Scrittura, l’assimilazione della fede tramite il pensiero specifico dell’uomo sembra aver raggiunto la sua massima altezza; potremmo quindi constatare con stupore che proprio qui si apre direttamente anche la via per tornare alla Sacra Scrittura, la quale, appunto, ha messo ben in luce questo fenomeno della pura relatività come essenza della persona, particolarmente nella teologia giovannea.

In essa, ad esempio, troviamo la formula: il «Figlio da sé non può far nulla» (5,19).

Ma lo stesso Gesù, che afferma questo, dice: «Io e il Padre siamo uno» (10,30).

Ciò significa che essi sono uno proprio perché egli, da sé solo, non ha nulla, perché egli non si pone accanto al Padre come una sostanza ben definita, ma esiste nella totale relatività a lui, non rappresenta nient’altro che la relatività a lui, la quale nulla si riserva come proprietà personale. E ciò viene trasmesso anche ai discepoli quando Cristo dice: «Senza di me non potete far nulla» (15,5).

E nello stesso tempo egli prega «affinché siano una cosa sola, come noi» (17,1).

Acquista risalto qui il risvolto antropologico; adesso è parte essenziale anche dell’esistenza dei discepoli il fatto che l’uomo non pone la riserva della pura proprietà, non si sforza di formare la sostanza dell’io isolato, ma entra nella pura relatività verso l’altro e verso Dio, e proprio così arriva veramente a se stesso ed alla pienezza della sua individualità, poiché egli entra nell’unione con ciò cui è relazionato. Io credo che qui si abbia, per conseguenza, una illuminazione molto penetrante sia su Dio che sull’uomo, l’illuminazione decisiva di ciò che, a partire dalla Scrittura, si deve chiamare persona: non una sostanza che si isola, ma il fenomeno della totale relatività, che, naturalmente, può raggiungere la sua pienezza soltanto presso colui che è Dio, ma che stabilisce la direzione di ogni essere personale.

Abbiamo così raggiunto il punto, nel quale — come vedremo ancora in seguito — la dottrina su Dio si trasforma in cristologia e in antropologia.

Si potrebbe seguire ancora per molto questa linea dell’idea della relazione e della relatività in Giovanni e dimostrare che essa è una, o forse addirittura la dominante della sua teologia, senz’altro della sua cristologia. Vorrei ricordare soltanto due esempi ancora. Giovanni mette in collegamento con la teologia sinottica e tardo-giudaica della missione, nella quale l’idea era già espressa, il fatto che colui che è mandato, nella sua qualità di mandato, non ha alcuna importanza propria, ma sta per il mandante, è una cosa sola con il mandante.

Giovanni ampliò questa idea della missione del tardo giudaismo, la quale all’inizio era solo funzionale, descrivendo Cristo come colui che è mandato, «il mandato» per essenza. La frase del tardo giudaismo: «colui che è mandato da un uomo è a lui uguale» viene ad avere un significato del tutto nuovo, approfondito, perché Gesù non sta affatto in relazione con l’essere mandato, ma è lui «il mandato», per sua natura.

Egli è uguale al mandante stesso proprio perché si trova nella pura relatività dell’esistere per il mandante; il contenuto del concetto giovanneo «del mandato» si potrebbe descrivere nel suo tendere all’affermazione dell’aprirsi dell’essere nell’«essere da e per qualcuno». Il contenuto dell’esistenza di Gesù è l’«essere da qualcuno e per qualcuno», la schietta apertura dell’esistenza, senza nessuna riserva per ciò che le è proprio. E ne deriva di nuovo un allargamento all’esistenza cristiana, del quale abbiamo già detto: come il Padre ha mandato me, così io mando voi (20,21). L’altro esempio è il concetto del Logos, il concetto del Verbo, come viene chiamato Gesù.

Giovanni riprende qui uno schema concettuale teologico straordinariamente diffuso sia nel mondo spirituale greco che giudaico, e naturalmente accetta una serie di contenuti, che sono già sviluppati in esso, per trasferirli in Cristo. Forse si può sostenere, però, che la novità, che egli ha inserito nel concetto di Logos, non sta, dopo tutto nella importanza dell’idea di una razionalità eterna — per lui non decisiva, com’era, invece, presso i Greci — oppure nel contributo che può aver dato ad ulteriori speculazioni, ma sta piuttosto nella relatività dell’esistenza, implicita nel concetto di Logos.

È ancora valida infatti l’affermazione che il Verbo, per essenza, deriva da qualcun altro ed è diretto ad un altro: il Verbo è un’esistenza che è solo via ed apertura. Alcuni testi sviluppano ancor più quest’idea e la chiarificano, come quando Cristo, in un passo, dice: la mia dottrina non è la mia dottrina (7,16).

Agostino ha commentato stupendamente questo testo, quando chiede: ‘non è questa una contraddizione? o è la mia dottrina o non è la mia dottrina’. Egli trova la risposta quando osserva che la dottrina di Cristo è Lui in persona ed egli stesso non è sua proprietà, perché il suo io esiste completamente nel tu, letteralmente egli dice: «Quid tam tuum quam tu, quid tam non tuum quam tu – cosa ti appartiene così tanto come il tuo io, e cosa ti appartiene così poco come il tuo io?».

Il tuo io è, da un lato, quello che c’è di più tuo, e dall’altro quanto di più precario tu possiedi, ciò che più di tutto è tua non-proprietà, che può esistere come io soltanto a partire dal tu.

Riassumiamo: in Dio ci sono tre Persone; in base all’interpretazione della teologia questo vuol dire che le persone sono relazioni, puro esistere in riferimento a. In un primo momento questa è solo un’affermazione sull’unica Trinità, ma, insieme, anche l’espressione fondamentale di ciò che ha la preminenza nel concetto di persona, l’apertura del concetto di persona allo spirito umano e la sua origine portante.

Un’ultima osservazione conclusiva.

Agostino — come già accennato — ha espressamente iniziato il trasferimento di queste affermazioni teologiche nell’antropologia, cercando di descrivere l’uomo come immagine della Trinità e di capirlo partendo da questo concetto di Dio. Ma nel far questo egli ha operato purtroppo una decisiva riduzione — alla quale dovremo in seguito tornare ancora —, in quanto egli introduce le persone divine nell’intimo dell’uomo, assume come analogie di esse alcune facoltà psichiche interiori e pone l’uomo nel suo insieme come corrispondente della sostanza di Dio, di modo che il concetto trinitario di persona non viene trasferito nell’umano con la sua carica immediata. Ma questa vuol essere per ora soltanto un’indicazione, che si chiarificherà maggiormente in seguito.

Il concetto di persona nella cristologia

La seconda occasione, in cui la teologia, per riuscire a trarsi d’impaccio, ha fatto ricorso di nuovo al termine di persona, e ha così imposto un nuovo compito allo spirito umano, si trova nella cristologia. All’enigma: «Chi e che cosa è questo Cristo?», la teologia ha risposto con la formula: egli ha due nature ed una persona, natura divina ed umana, ma soltanto una persona divina. Riaffiora di nuovo dunque il termine di persona.

origine-termine-persona-3_5468ef9d0706dSi è costretti ad ammettere che questa espressione ha sofferto di enormi malintesi nel pensiero occidentale e che occorre, anzitutto, eliminare questi, per poter avvicinarsi al senso vero e proprio del concetto cristologico di persona.

Un primo malinteso consiste nell’intendere l’affermazione che il «Cristo ha soltanto una persona, cioè quella divina» come una sottrazione della completa umanità di Gesù; così, di fatto, è accaduto ed accade di continuo.

Si fa, ad esempio, con troppo faciloneria questo ragionamento: il vertice più alto e specifico dell’essere uomo è la persona; essa manca in Gesù; di conseguenza, in lui non sarebbe presente l’interezza dell’umano.

L’idea che qui ci sia una sottrazione dell’umano è divenuta il punto di partenza delle più diverse falsificazioni ed anche di parecchie aberrazioni nella teologia dei santi, ad esempio, e in quella della madre del Signore. In realtà, questa formula non indica affatto la deficienza di qualche cosa nell’umanità dell’uomo Gesù; qui non viene sottratto proprio nulla all’umano. Nella storia dei dogmi si è lottato palmo a palmo per difendere questa realtà; è stato sempre ricorrente, infatti, il tentativo di indicare un qualche punto, dove veniva reciso qualcosa.

L’arianesimo e Papollinarismo, per primi, ritennero che Cristo non avesse avuto un’anima umana; il monofisismo nega a lui la natura umana. Dopo che questi due errori fondamentali furono rifiutati, compaiono delle forme mitigate di essi. Il monotelismo dice che Cristo possiede tutto, tranne una volontà umana, quale centro della persona.

Dopo il ripudio anche di quest’errore, appare il monenergismo; Cristo avrebbe anche volontà umana, non però l’attualizzazione di questa volontà, che verrebbe sostituita da quella divina.

Tutti questi tentativi cercano di collocare il concetto di persona in qualche punto del patrimonio psichico.

Uno dopo l’altro vengono respinti, per affermare che l’espressione non va intesa così, perché in Cristo non manca proprio niente, non è permesso né concesso alcun genere di sottrazione dell’umano.

Io credo che, seguendo lo svolgersi di questa lotta, nella quale si dovette, per così dire, riguadagnare e difendere pezzo per pezzo l’umanità in Gesù, si possa vedere quale enorme fatica e quale mutamento di pensiero si trovino dietro l’elaborazione di questo concetto di persona, il quale, nella sua impostazione, è del tutto estraneo allo spirito greco e latino; non è pensato in termini sostanziali, ma — come vedremo subito — da un punto di vista esistenziale.

Di conseguenza, il concetto di persona di Boezio, ad esempio, che si è poi imposto di fatto nella filosofia occidentale, deve venir criticato perché del tutto insufficiente. Boezio, restando sul piano dello spirito greco, ha definito la persona come naturae rationalis individua substantia, come la sostanza individuale di una natura razionale. Come si vede, il concetto di persona si trova completamente sul piano della sostanza e non è in grado di spiegare nulla né riferito alla Trinità, né usato nella cristologia; è un’espressione che resta a livello dello spirito greco, il quale ragiona in termini di sostanza.

All’inizio del medioevo Riccardo da san Vittore ha trovato, invece, un concetto di persona, che deriva dall’essenza del cristianesimo; egli definisce persona come spiritualis naturae incommunicabilis existentia, come propria esistenza, non partecipabile, di una natura spirituale.

Qui si vede giustamente come persona, in senso teologico, non stia sul piano dell’essenza, ma su quello dell’esistenza; quest’ultima, nell’antichità, non veniva affatto considerata, in se stessa, come oggetto della filosofia. In quel tempo la filosofia era limitata esclusivamente al piano dell’essenza.

La teologia scolastica ha sviluppato, a partire da questo contributo della fede cristiana allo spirito umano, delle categorie dell’esistenza; il suo limite consistette soltanto nell’averle limitate alla cristologia e alla dottrina trinitaria e nel non averle rese operanti in tutta la estensione dello spirituale. Questo mi sembra anche il limite di san Tommaso, in questo campo (un limite, non un errore).

Nella teologia egli procede sul piano dell’esistenza, con Riccardo da san Vittore, ma tratta il tutto come un’eccezione teologica; in filosofia, accettando il concetto di persona di Boezio, rimane del tutto fedele all’altra impostazione della filosofia precristiana. Il contributo della fede cristiana alla totalità del pensiero umano non viene realizzato; rimane isolato da esso, nella sua veste di eccezione teologica, benché il significato di questa novità stia proprio nel porre in questione l’intero modo di pensare umano e nel portarlo su nuove strade.

Sono arrivato così al secondo malinteso, che non permetteva allo sviluppo della cristologia di arrivare alla sua piena validità.

Il secondo, grande malinteso sta nell’idea che Cristo sia Percezione ontologica del tutto particolare; egli deve venir trattato come eccezione e come tale costituisce l’oggetto di speculazioni molto interessanti, ma deve rimanere strettamente nel suo ambito, come eccezione slegata dalle regole, e non può venir mescolata con il resto del pensiero umano.

Credo sia utile ricordare qui un criterio metodologico, che Teilhard de Chardin ha sviluppato in un campo del tutto diverso. Per rispondere alla domanda sull’essenza della vita — se essa sia cioè soltanto un caso fortuito, su un minuscolo pianeta all’interno del grande cosmo, oppure se sia qualcosa di sintomatico per la direzione della totalità del reale — egli porta come esempio la scoperta del radio e scrive: «Come si dovrebbe interpretare il nuovo elemento? Come un’anomalia, una forma aberrante della materia?… Come una curiosità o come l’inizio di una nuova fisica ancora da fondare?».

La fisica moderna, prosegue Teilhard, «non sarebbe sorta se i fisici si fossero messi in testa di considerare come anomalia la radioattività».

Viene qui evidenziato qualcosa di metodicamente decisivo e valido, in genere, per ogni riflessione scientifica; l’apparente eccezione è, in realtà, molto spesso il sintomo che mette l’uomo di fronte all’insufficienza del suo attuale schema d’ordine, che lo aiuta a forzare questo schema e a conquistare una nuova zona della realtà.

L’eccezione gli indica che egli ha disposto, per così dire, le sue caselle in uno spazio troppo angusto e che deve spezzarle e proseguire, se vuol dare un ordine al tutto. La cristologia fin dalla sua origine è intesa così: in Cristo, che la fede presenta, certo, come il caso unico, non si svela soltanto una eccezione speculativa, ma si mostra, in verità, solo ciò che s’intende con l’enigma uomo.

La Scrittura lo esprime chiamando questo Cristo l’ultimo Adamo o il «secondo uomo». Essa lo caratterizza quindi come lo specifico compimento dell’idea di uomo, nel quale viene in piena luce, per la prima volta, la direzione in cui procede l’essere uomo. Se dunque Cristo non è l’eccezione ontologica, ma diventa, dalla sua posizione eccezionale, la rivelazione di tutta l’essenza dell’uomo, allora anche il concetto di persona cristologico costituisce per i teologi l’indicazione di come si deve interpretare la persona. In effetti, questo concetto di persona, cioè la nuova dimensione qui intravista, ha operato in continuazione nella storia del pensiero come materia infiammabile ed ha stimolato lo sviluppo anche quando era giunta, da tempo, ad un punto fermo nella teologia.

Respinti i due malintesi principali, rimane ora il problema di stabilire cosa significa positivamente la formula: «Cristo ha due nature in un’unica persona».

Devo ammettere, in primo luogo, che qui la risposta teologica non è ancora completamente matura.

Nella teologia, nelle grandi dispute dei primi sei secoli, è stato sì stabilito cosa non è la persona, ma non si è spiegato con altrettanta chiarezza cosa voglia indicare positivamente il termine. Perciò io posso tentare soltanto di fornire qualcosa come un abbozzo, che vorrebbe indicare la direzione, nella quale proseguire poi la riflessione.

Io penso che si possano fare due tipi di affermazioni:

a) L’essenza dello spirito in generale è l’essere-in-relazione, la capacità di vedere se stesso e l’altro.

Hedwig Conrad-Martius parla della retro-ascendenza dello spirito, del fatto che lo spirito non ha soltanto la presenzialità, ma risale quasi su di sé ed ha conoscenza di se stesso, rappresenta un doppio modo di esistere, che non è soltanto, ma comprende sé, possiede se stesso. La distinzione tra materia e spirito consisterebbe, perciò, nel fatto che la materia è «ciò che viene proiettato su di sé», lo spirito invece è «ciò che proietta se stesso»; nel’ fatto che egli non soltanto è qui, ma è se stesso nel superare sé, nel guardare all’altro e nel ritornare con lo sguardo su se stesso. Comunque stiano i particolari — non è necessario qui approfondirli di più —, l’apertura, la relazione alla totalità, fanno parte dell’essenza dello spirito. E proprio perché non soltanto esiste, ma oltrepassa se stesso, egli può tornare a sé. Nel superarsi egli si possiede; solo nell’essere presso l’altro egli diventa se stesso, ritorna a se stesso. Oppure ancora, espresso in termini diversi, l’essere-presso-l’altro è il suo modo d’essere presso se stesso.

Viene richiamato alla mente un assioma teologico di base, che qui può venir utilizzato in una forma specifica; si tratta della frase di Cristo: «Soltanto chi perde se stesso, si ritroverà» (cfr. Mt. 10,39). Questa legge fondamentale dell’esistenza umana, riferita lì alla salvezza, caratterizza in effetti l’essenza dello spirito, che soltanto allontanandosi da se stesso, andando verso qualcosa di diverso da sé, torna a se stesso e realizza la sua specifica pienezza.

Dobbiamo fare ancora un passo avanti. Lo spirito è quell’essere che è in grado di pensare non soltanto a se stesso e all’esistente, ma al totalmente diverso, al trascendente, a Dio. Forse proprio questo è il peculiare risalto dello spirito umano nei confronti delle altre forme di coscienza, che incontriamo nell’animale; lo spirito umano è in grado di pensare il totalmente diverso, il concetto di Dio. Possiamo allora dire che l’altro, per mezzo del quale lo spirito toma a se stesso, in fin dei conti, è quel completamente altro, al quale, balbettando, diamo il nome di Dio. Stando così le cose, possiamo adesso chiarire ulteriormente, nell’orizzonte della fede, quanto prima detto e possiamo affermare che se l’uomo è tanto più vicino a se stesso, quanto più è in grado di andar oltre sé, quanto più è vicino all’altro, di conseguenza l’uomo è tanto più se stesso, quanto più è vicino al totalmente altro, a Dio.

In altre parole si può dire che lo spirito torna se stesso nell’altro, diventa completamente se stesso, quanto più è vicino al totalmente altro, a Dio. Dato che quest’idea mi sembra importante, desidero esprimerla ancora una volta, in termini diversi: la relatività all’altro costituisce l’uomo. L’uomo è l’essere della relatività. Egli è tanto più se stesso, quanto più totale e finalizzata è la relatività al suo ultimo scopo, alla trascendenza.

b) A partire da qui possiamo osare una seconda messa a punto, aggiungendo: in Cristo, secondo la testimonianza della fede, ci sono due nature ed una persona, quella del Logos.

Questo vuol dire però che in lui esiste in forma radicale l’essere presso l’altro. La relatività verso il totalmente altro è già radicalmente affermata, prima di ogni forma di coscienza, come l’elemento portante della sua esistenza. Ma tale essere-totalmente-presso-l’altro, che noi incontriamo in lui, non sostituisce l’essere-presso-se-stesso; porta invece solamente al pieno compimento di sé. Si dovrà ammettere, naturalmente, che la terminologia scelta, «una persona – duae naturae», rimane contingente e non è senza problemi. Ma ciò che ne deriva per il concetto di persona e per la comprensione dell’uomo, ciò che è decisivo in materia mi sembra sia del tutto evidente: in Cristo, l’uomo che è pienamente accanto a Dio, non viene annullato l’essere uomo, ma giunge invece alla sua più alta possibilità, che consiste nell’andare oltre se stesso, verso l’Assoluto e nel raggiungere, da parte della sua relatività, l’assolutezza dell’amore divino.

A partire da Cristo, il nuovo Adamo, emerge allo stesso tempo una definizione dinamica dell’uomo. Cristo è, per così dire, la freccia direzionale, che indica dove tende l’essere dell’uomo; questi, finché dura la storia, non riuscirà a raggiungere completamente se stesso. È evidente che una tale definizione dell’essere uomo esilia l’uomo e la persona nella loro storicità. Se la persona è relatività a ciò che è eterno, con questa relatività è collegato, nello stesso tempo, anche il trovarsi in fase di svolgimento della storia umana.

origine-termine-persona-6_5468f153c0da9c) Infine, per concludere, un terzo pensiero. La cristologia, come mi sembra, ha ancora un ulteriore significato per la comprensione del concetto di persona.

Essa inserisce nell’idea di io e di tu quella del noi. Cristo infatti, che viene definito dalla Scrittura come l’ultimo Adamo, come l’uomo definitivo quindi, appare nelle testimonianze della fede come l’ampio spazio nel quale il noi degli uomini si raccoglie per rivolgersi al Padre. Egli non è soltanto un modello, dietro cui camminare, ma è lo spazio in cui viene incluso, nel quale può raccogliersi il noi degli uomini verso il tu di Dio.

Qui viene bene in luce qualcosa che nella filosofia moderna, anche cristiana, non è stato compreso a sufficienza. Nel cristianesimo non esiste un semplice principio dialogico nel senso moderno della relazione-io-tu; questo puro principio dialogico non esiste né a partire dall’uomo, che ha la sua collocazione nella continuità storica del popolo di Dio, nel vasto noi storico che lo sostiene, né a partire da Dio, che, per quanto lo riguarda, non è un semplice io, ma il noi di Padre, Figlio, Spirito.

Da ambedue le parti non esiste né il puro io né il semplice tu; da tutti due i lati, invece, l’io è nascosto entro un noi più grande. Proprio quest’ultima affermazione, che anche Dio non è il puro e semplice io al quale l’uomo tende, è un’idea di base del concetto teologico di persona, il quale, dopo aver esplicitamente negato la monarchia divina nel senso antico, si è dedicato invece a definire Dio come la pura monarchia e singolarità; il concetto cristiano di Dio ha dato, per principio, identica dignità sia alia molteplicità che all’unicità. Mentre per gli antichi la molteplicità appare soltanto come la dissoluzione dell’unità, per la fede cristiana, che ragiona in termini trinitari, la molteplicità possiede a priori la stessa dignità dell’unicità.

Con questo noi trinitario, con il fatto che anche Dio esiste come un noi, è già stato approntato anche lo spazio per il noi umano.

Il rapporto del cristiano con Dio non si chiama semplicemente io e tu, come lo ha illustrato, con una certa unilateralità, Ferdinand Ebner, ma significa, come ce lo spiega ogni giorno la liturgia, per Christum in Spiritu Sancto ad Patrem. Cristo, la persona singola, è qui il noi nel quale l’amore, cioè lo Spirito, ci raccoglie; egli rappresenta qui il legame sia fra di noi che con il comune tu dell’unico Padre. Il non prendere in considerazione questa realtà del noi di Dio, che appare nelle tre persone ricordate dalla frase: «Per Cristo nello Spirito Santo al Padre», e che ci inserisce nel noi di Dio, e quindi nel noi del prossimo, questo lasciar fuori la realtà del noi di Dio dalla pietà cristiana ha avuto luogo in seguito alla decisione antropologica, prima ricordata, all’interno della dottrina trinitaria di Agostino, fu una delle evoluzioni più gravida di conseguenze della chiesa occidentale; essa ha influenzato radicalmente sia il concetto di Chiesa che la comprensione della persona, che venne sospinta nel ristretto ed individualistico rapporto di io e tu; ed esso, con questa restrizione, va perdendo in fin dei conti anche il tu.

Fu infatti conseguenza della dottrina trinitaria di Agostino il processo per cui le persone di Dio vennero rinchiuse per intero nell’intimità divina – (la Nota a piè pagina dello stesso Ratzinger: “Oggi io non darei più un giudizio cosi decisivo come in questa relazione, poiché per Agostino la «dottrina psicologica trinitaria» rimane un tentativo di interpretazione che viene controbilanciato dai fattori della tradizione. Più incisiva fu la svolta compiuta da Tommaso con la sua separazione tra la dottrina dell’unico-Dio filosofica e la dottrina trinitaria teologica. Essa portò Tommaso a considerare legittima la formula, ritenuta eretica nella chiesa antica, che Dio è una persona” -5. theol. Ili q 3 a 3 ad x-).   Dio diventò, nei suoi rapporti verso l’esterno, il puro io e così l’intera dimensione del noi ha perduto il suo posto nella teologia; l’io e il tu individualizzati si restringono sempre di più, finché alla fine, nella filosofia trascendentale, di Kant ad esempio, il tu non si trova neppure più.

Proprio questo livellamento di io e tu in un’unica coscienza trascendentale ha aperto poi, in Feuerbach (l’ultimo luogo dunque, nel quale si avrebbe potuto aspettarselo!), la via d’uscita verso il personale ed ha dato così l’avvio al nuovo ritorno all’origine del nostro essere particolare, che la fede conosce perché svelato, una volta per tutte, nella parola di Gesù, il Cristo.

Sia lodato Gesù Cristo + sempre sia lodato