Il “caso gesuiti”. Giovanni Paolo II convoca una riunione segreta in Vaticano

Giovanni Paolo II si rese conto fin dai primi anni del suo pontificato della deriva catto-comunista della Compagna di Gesù guidata dal basco Pedro Arrupe. Nel 1981 convocò una riunione segreta in Vaticano con i cardinali più importanti della Curia. All’ordine del giorno vi era una non remota ipotesi: sopprimere ancora una volta la Compagnia come fece Clemente XIV. Perché ciò non avvenne? Leggete queste pagine e lo scoprirete.

Estratto del libro “I gesuiti e il tradimento della Chiesa di Roma” di padre Malachi Martin (Sugardo Edizioni, 1988)

Giovanni Paolo II, il papa bianco, e Pedro Arrupe, il
Giovanni Paolo II, il papa bianco, e Pedro Arrupe, il “papa nero”.

Nonostante la forza della sua volontà, Giovanni Paolo II non è arrivato al soglio pontificio già dotato di romanità. La situazione in Polonia e in Nicaragua non gli metteva certo a disposizione del tempo. Seduto a capotavola, nelle sue vesti bianche, quel giorno Sua Santità sembrava contenere a stento la sua forza prorompente.

Primo papa polacco, a sessantun anni era una personalità in ascesa, piena d’iniziativa, circonfusa di carisma personale, una figura di primo piano nei media internazionali. Con tutto il potere del papato dalla sua parte, quale prelato avrebbe potuto resistergli?

Romanità o no, Karol Wojtyla è un uomo avveduto. Sicuramente, gli bastò guardare i sei uomini riccamente vestiti di rosso per capire quale fosse la posizione di ognuno non solo a proposito della Compagnia di Gesù, ma della strategia papale nel suo complesso.

Sulla poltrona immediatamente alla destra del papa sedeva Dottrina — il cardinale incaricato di controllare la purezza della dottrina cattolica nel vasto e variegato mondo della Chiesa. Bavarese dal viso mellifluo, saggio e per niente semplice, «Dottrina» era un teologo professionista con la tipica sicurezza dell’ecclesiastico intellettuale. A 55 anni, con tutti i capelli bianchi, era il più giovane dei presenti. Giovanni Paolo II sapeva che «Dottrina» avrebbe dato tutto il suo appoggio alla volontà del papa.

Come avrebbe fatto Propaganda, il cardinale responsabile della diffusione del cattolicesimo fra i popoli non cristiani dell’Africa e dell’Asia. «Propaganda» era un brasiliano di origine italiana, con un aspetto più venerando e più santo dei suoi colleghi. Di lui si diceva che era semplice come una colomba e non astuto come un serpente. Ma probabilmente era perché i suoi colleghi cardinali non sapevano mai che cosa aspettarsi da lui. Era noto che, nonostante la semplicità e la franchezza del suo stile, «Propaganda» sapeva far esplodere con grande precisione una bomba nel corso di una discussione.

Joseph Ratzinger,
Joseph Ratzinger, “Dottrina” (1981-2005).

L’ultimo alleato di Giovanni Paolo II alla riunione di quel giorno era Clero, il cardinale a capo della congregazione del Santo Uffizio, da cui dipendevano tutti gli ecclesiastici diocesani cattolici.

Degli altri tre cardinali presenti di uno non era detto che si mettesse contro il papa, ma non era neppure detto che si mettesse dalla sua parte. Vescovi, il cardinale che soprintende tutti i vescovi cattolici, era un maestro di romanità. Intelligente, giovane per i suoi 68 anni, una volta era arrivato vicino a essere eletto papa. Sapeva come ricavare un utile dal suo appoggio. Poteva mettere il suo peso dalla parte del papa, in cambio di un appoggio in altre questioni.

Religiosi, supervisore vaticano di tutti gli ordini religiosi maschili e femminili, era un argentino di sangue italiano che sicuramente si sarebbe opposto a Giovanni Paolo II. Era amico intimo di uomini in posizione elevata cui non piacevano i papi che davano scossoni alla barca, e di uomini in posizioni segrete che non desideravano il trionfo del papato in generale e aborrivano questo papa in particolare. Dalla testa curata agli immacolati polsini allacciati con preziosi gemelli d’oro, «Religiosi» dava l’idea di un uomo dall’eleganza asettica.

Al tavolo l’uomo più importante dopo il pontefice era Stato, il cardinale segretario di Stato del Vaticano. «Stato» era in tutto e per tutto l’opposto del papa. Quanto Giovanni Paolo II era robusto ed atletico, tanto «Stato» era minuto, con le guance così infossate da guadagnarsi il soprannome di «teschio». Il contrasto fra il colorito esangue della pelle e il rosso delle labbra e delle orecchie dava l’impressione che si fosse esposto a un vento polare.

Agnelo Rossi,
Agnelo Rossi, “Propaganda” (1970-1984)

Dei prelati della sua generazione, «Stato» era l’unico ad essersi conquistato una certa libertà d’accesso in URSS e nei paesi satelliti. Ma anche questi rapporti erano esangui come il suo colorito: il papa slavo era già riuscito a trovare ben altri contatti oltre cortina. Ma l’uso avveduto della romanità sa trasformare tenui entrature in grandi vantaggi. In ogni caso, dal punto di vista di «Stato», era probabilmente troppo poco il tempo che questo nuovo papa era al potere. Cunctando regitur mundus.

È interessante sapere che la riunione non era stata richiesta dal papa, ma da uno o da due dei cardinali presenti, per avere «chiarificazioni» dei piani del pontefice a proposito dei gesuiti.

Fu così che quando il papa bianco aprì la riunione con un discorso di «chiarificazione» di dieci minuti, sembrò che Pedro Arrupe, il papa nero, fosse l’ottavo invisibile invitato. Tutti e sette i presenti conoscevano il settantatreenne basco dal naso aquilino. E nessuno lo amava. Al massimo qualcuno lo considerava un alleato utile, mentre per gli altri non era che un pericolosissimo nemico. Sua Santità aveva imparato a temerlo.

Spiegando il suo punto di vista sulla Compagnia di Gesù, Giovanni Paolo II centrò le sue affermazioni soprattutto a proposito della fedeltà al papato e alla diffusione dell’autentica dottrina cattolica.

Silvio Oddi,
Silvio Oddi, “Clero” (1979-1986).

Quando il papa ebbe finito, «Religiosi» dichiarò la sua opinione. Anche se formalmente ossequiente, questa non corrispondeva pienamente a quella del pontefice. Dopotutto, ciò che il Santo Padre imputava ai gesuiti, poteva benissimo essere imputato ad altri ordini religiosi — francescani, carmelitani, domenicani ecc. E con la stessa colpa si potevano trovare i vescovi in America Latina e in tutto il mondo.

Per illustrare questo secondo punto, «Religiosi» citò due esempi fra i più ovvi. L’ex vescovo di Cuernavaca, in Messico, Mendez Arceo, cominciava i suoi sermoni domenicali salutando a pugni chiusi e gridando: «Soy marxista!» (Sono marxista!). E il suo venerabile collega, Evaristo Arns di San Paolo in Brasile non perdeva occasione per attaccare il capitalismo e lodare l’idea di una distribuzione della ricchezza che mettesse fine alla povertà endemica. E cosa dire di quei vescovi francesi che insistevano per mettere la nascita di Karl Marx nel calendario liturgico ufficiale della Chiesa insieme con quella dei santi e dei martiri? O quei vescovi canadesi che parlando della questione sociale di Marx si riferivano all’idea di lotta di classe di Marx?

«Religiosi» era certo che il suo venerabile collega «Vescovi», che sedeva accanto a lui e che aveva la responsabilità di tutti i vescovi, poteva verificare ciò che stava dicendo.

Sebastiano Baggio,
Sebastiano Baggio, “Vescovi” (1973-1984)

Probabilmente «Religiosi» riteneva che «Vescovi» non aveva ancora deciso che posizione prendere, ma questa era una valutazione sbagliata.

«Vescovi» aveva delle ottime ragioni per non aiutare «Religiosi». Dopo «Stato», «Vescovi» era il cardinale più potente di tutta la curia. A capo della congregazione dei vescovi, poteva — se voleva — avere un peso decisivo nella nomina di tutti i vescovi, tranne in terra di missione, dove l’ultima parola spettava a «Propaganda». Ma «Vescovi» era anche presidente della commissione pontificia dell’America Latina, una posizione che gli procurava un’enorme influenza. Era noto che «Vescovi» condividesse con Giovanni Paolo II due idee: che l’America Latina doveva essere salvata dal marxismo, e che non c’era molta differenza tra i marxisti espliciti in America Latina e il grosso dei gesuiti, dei domenicani, dei francescani e dei padri di Maryknoll. «Ciò che succede in America Latina», aveva detto «Vescovi» due anni prima, «determinerà, umanamente parlando, le sorti della Chiesa per il prossimo secolo».

No, «Vescovi» non avrebbe accolto l’invito implicito di «Religiosi». Molti di quei vescovi di sinistra dell’America Latina erano stati nominati prima che «Vescovi» avesse il controllo sulle nomine. Fu così che «Vescovi» rimase in silenzio.

Non importava. «Religiosi» era pronto a difendere i gesuiti affermando che agivano in completa obbedienza dei vescovi della Chiesa, che erano, non c’era bisogno di ricordarlo ai presenti, i successori dei dodici apostoli. Il Concilio Vaticano II aveva sottolineato il ruolo del collegio dei vescovi nel governo della Chiesa e nella guida dei fedeli. Il vero problema, secondo «Religiosi», non erano i gesuiti. E neppure i vescovi, che nelle loro diocesi dovevano affrontare il problema in prima persona. Per «Religiosi», il vero problema era la frattura tra i 3.567 membri del collegio dei vescovi e la Santa Sede. «Religiosi» evitò ogni menzione diretta alla persona di Giovanni Paolo II. Ma sul significato delle sue parole non c’erano dubbi.

Secondo la sua analisi, concluse «Religiosi», sia il governo sia l’autorità d’insegnamento della Chiesa dovevano essere condivisi normalmente tra il pontefice e il collegio dei vescovi. Forse il Santo Padre avrebbe consentito che la riunione si dedicasse a questo vero problema: la mancanza di coesione — in realtà il dissenso e la disunione — che esisteva tra la Santa Sede e i vescovi. In ogni caso, i gesuiti non dovevano diventare i capri espiatori di chi aveva colpe ben più gravi — ben più gravi perché maggiore era la sua responsabilità nella Chiesa universale.

Eduardo Francisco Pironio,
Eduardo Francisco Pironio, “Religiosi” (1976-1984)

La posizione di «Religiosi», pur franca e profondamente antagonistica con quella del pontefice, fu espressa in termini accettabili di romanità. Nessun gesto. Nessun dito ammonitore. Mai un tono troppo alto di voce. Così fu per la reazione dei sei. Nessun movimento o gesto tradì l’emozione. Tutt’al più una rapida occhiata all’oratore, a un amico o a un alleato.

Non ci fu neppure una corsa per chi dovesse parlare per primo. In una riunione di quel tipo è la romanità a presiedere. E la romanità indicava inevitabilmente «Dottrina», il teologo professionista seduto alla destra del papa con il compito di controllare la purezza della dottrina cattolica.

«Dottrina» voleva ricordare ai venerabili colleghi le parole con cui il Concilio Vaticano II descriveva il collegio episcopale. Citò il documento in questione: il collegio episcopale doveva «sempre e necessariamente essere inteso col suo capo che, nel collegio, manteneva nella sua integrità l’ufficio di pastore supremo della Chiesa universale e di vicario di Cristo».

In altre parole, sottolineò «Dottrina», era falsa distinzione parlare, come aveva appena fatto il venerabile collega, del collegio episcopale in quanto distinto e separato dal pontefice romano. Invece, senza pontefice romano, non c’era collegio episcopale. Al contrario, l’unica vera distinzione che si poteva fare era tra il pontefice da solo e il collegio dei vescovi che necessariamente comprendeva il pontefice. Il pontefice poteva agire da solo. Il collegio non poteva agire senza il pontefice. Quindi, qualsiasi vescovo che fosse in disaccordo con il pontefice — e il venerabile collega aveva appena assicurato che ce n’erano molti — era in disaccordo con il collegio episcopale. «Dottrina» era sicuro che «Vescovi» si sarebbe preoccupato — dato che dopo tutto era suo dovere — di richiamarli all’ordine.

Un bel colpo di romanità, come non se ne vedevano da tempo. Ma nessuno ebbe un cenno di trionfo o di disappunto. In realtà «Dottrina» non aveva ancora finito.

Agostino Casaroli, “Stato” (1979-1990)
Agostino Casaroli, “Stato” (1979-1990)

In quanto ai gesuiti, continuò, il caso era diverso da quello dei vescovi. Il collegio dei vescovi era stato fondato da Dio. I gesuiti erano stati stabiliti dal pontefice. A questi dovevano la loro esistenza e la loro fedeltà. Sua Santità diceva che erano in rivolta. Come il papa li aveva creati, il papa poteva richiamarli o al limite sopprimerli. L’oggetto di quella riunione era appunto il richiamo all’ordine o la soppressione dei gesuiti.

Il tentativo di «Religiosi» di sviare il tema della riunione era stato amputato drasticamente.

Senza nessun iato della discussione, tuttavia, «Stato» si lanciò in una difesa. Il suo approccio fu molto più indiretto di quello di «Religiosi». «Stato» ricordò ai venerabili colleghi di aver avuto insieme all’attuale Santo Padre più di un incontro con il diplomatico sovietico Ànatoly Adamshin, l’ultimo dei quali nello stesso 1981. Sua Santità aveva garantito ai sovietici che da parte del Vaticano come da parte della gerarchia polacca e dei leader di Solidarnosc non sarebbe stato detto o fatto niente in violazione del patto fra Mosca e il Vaticano del 1962.

«Stato» non aveva bisogno di spiegare ai presenti che nella primavera del 1962 un certo cardinale Eugene Tisserant era stato mandato da Giovanni XXIII ad incontrare un prelato russo, un certo metropolita Nikodim, che rappresentava il polit-buro sovietico del premier Nikita Kruscev. Papa Giovanni desiderava ardentemente sapere se il governo sovietico avrebbe consentito a due membri della Chiesa ortodossa russa di assistere al Concilio Vaticano II che si sarebbe aperto nell’ottobre successivo. L’incontro tra Tisserant e Nikodim aveva avuto luogo nella residenza ufficiale di Paul Joseph Schmitt, allora vescovo di Metz, in Francia. Nikodim aveva portato la risposta dei sovietici. Il suo governo avrebbe acconsentito, purché il papa avesse garantito due cose: che il prossimo concilio non avrebbe emanato una condanna del comunismo sovietico o del marxismo e che la Santa Sede avrebbe accettato come regola futura di astenersi da simili condanne ufficiali. Nikodim ottenne ciò che chiedeva. Tutta la faccenda fu orchestrata per conto del papa dal cardinale gesuita Augustin Bea finché non si arrivò a un accordo conclusivo a Mosca i cui termini furono rispettati nel concilio e nei due successivi decenni di politica vaticana.

«Stato» disse che aveva solo due domande. Il Concilio Vaticano II e i due papi che erano successi a Giovanni XXIII avevano rispettato gli accordi. Li avrebbe rispettati anche Sua Santità? E cosa avrebbero fatto la gerarchia polacca e i leader di Solidarnosc?

La vera domanda di «Stato» era così chiara che non c’era bisogno di formularla: come poteva Giovanni Paolo II mettere sotto accusa i gesuiti per l’appoggio che davano ai pensatori marxisti e ai guerriglieri comunisti in America Latina senza condannare esplicitamente il marxismo sovietico e i suoi alleati comunisti? Senza, in altre parole, violare non solo il patto di Metz, ma l’assicurazione che lui stesso aveva dato ad Adamshin che «Metz», come generalmente ci si riferiva a quel trattato poco conosciuto, sarebbe stato rispettato nel corso del suo pontificato?

Giovanni Paolo II con Lech Walesa, leader di Solidarnosc.
Giovanni Paolo II con Lech Walesa, leader di Solidarnosc.

Il messaggio di «Stato» fu allora chiaro. Pur sapendo che le deviazioni dottrinali dei gesuiti potevano benissimo essere riprovate in termini che non avrebbero violato alcun patto o accordo, voleva proteggere la Compagnia. Che cosa avrebbe fatto Sua Santità? Si sarebbe battuto, o avrebbe accettato il compromesso?

Sperando probabilmente nella seconda alternativa, «Stato» continuò ricordando che il padre generale Arrupe aveva appena pubblicato un articolo che dimostrava che nessun cattolico, né tanto meno un gesuita, poteva fondarsi su un’analisi marxista della società e della storia per decidere da che parte stare nella «lotta fra le classi». Il cardinale segretario dimenticò di far notare che Arrupe aveva aspettato più di tre mesi, dal 30 dicembre 1980 al 4 aprile 1981, per pubblicare quell’articolo; o che le circostanze della pubblicazione sembravano indicare che il generale era stato messo sull’avviso degli argomenti di cui si sarebbe trattato in quella riunione ristretta.

«Stato» aveva concluso la sua difesa dei gesuiti; ora non gli restava che venire all’argomento della strategia papale. In pratica significava alzare il tiro.

«Stato» ricordò ai presenti che la sua posizione di segretario di Stato di Sua Santità gli imponeva di mantenere rapporti cordiali, anche se non ufficiali, coi governi dell’URSS e del blocco orientale. Era vero che nel migliore dei casi non erano che tenui relazioni, ma era molto meglio della posizione di molti altri governi nei confronti della comunità socialista. Per mantenere quei legami avrebbe dovuto prendere le distanze da ogni affermazione della Santa Sede che offendesse quella comunità. L’avvertimento di «Stato», e la sua minaccia di dimissione e di aperta opposizione era chiara; e gli altri sapevano che per ragioni sue Giovanni Paolo II non voleva privarsi della collaborazione di «Stato».

«Stato» assicurò Sua Santità e i venerabili fratelli che nessuno era essenziale nella vigna del Signore e che l’ultima decisione spettava a Sua Santità. Tuttavia, «Stato» e il suo ufficio erano stati singolarmente utili a Sua Santità nella gestione di Solidarnosc — per tutti gli aspetti, sia politici sia materiali, di quel difficile affare.

Paul Marcinkus, presidente dello IOR dal 1971 al 1989. Rimase invischiato nel crack Banco Ambrosiano. Si
Paul Marcinkus, presidente dello IOR dal 1971 al 1989. Rimase invischiato nel crack Banco Ambrosiano. Si “salvò” grazie al passaporto diplomatico della S. Sede.

I presenti conoscevano il ruolo che aveva avuto «Stato» nel trasmettere fondi della Banca Vaticana attraverso canali neutrali — società a proprietà vaticana o straniera, per esempio, società finanziarie estere di cui il Vaticano aveva il controllo — nei forzieri sempre vuoti di Solidarnosc. La posizione di «Stato» lo rendeva membro di diritto del Peca, la prefettura vaticana per gli affari economici. Il Peca prende tutte le decisioni importanti riguardo i movimenti dei capitali del Valicano. Giovanni Paolo li, tuttavia, come molti papi, ha familiarità con l’intricata rete di società finanziarie e di compagnie all’interno della ramificazione della Banca Vaticana. Strettamente parlando, «Stato» avrebbe potuto vietare ogni trasferimento di fondi, mentre, se i piani del pontefice si fossero realizzati, Solidarnosc avrebbe avuto bisogno di una quantità ancora più grande di denaro.

«Stato» non aveva che un commento da fare. L’anno prima la cooperazione con Sua Santità in materia di fondi aveva acquistato un elemento di pericolo. Il governo italiano continuava la sua inchiesta sullo scandalo che era scoppiato nel Banco Ambrosiano di Milano e che aveva investito con la sua onda il mondo della finanza internazionale. A torto o ragione, il Banco Ambrosiano e il suo direttore, Roberto Calvi, indicato come il responsabile dello scandalo della banca, erano stati associati con importantissimi e clandestini finanziamenti a Solidarnosc.

Naturalmente il segretario era fiducioso che la reputazione della Santa Sede e il lavoro del Santo Padre per la sua amata Polonia non avrebbero avuto a soffrirne. Nessuno poteva mettere in dubbio la sua devozione agli interessi della Santa Sede c del Santo Padre. Era in questo spirito che aveva espresso il suo parere sui gesuiti.

Anche la romanità aveva difficoltà a digerire la bomba delle minacce politiche e finanziarie che «Stato» aveva deciso di mettere sul tavolo.

A «Propaganda», con la franchezza che lo contraddistingueva, sembrava ora di cambiare. Sembrava ora, disse in modo disarmante, di discutere di qualcosa che lui potesse capire meglio degli intrighi della politica dell’Europa orientale o dei rapporti tra i gesuiti e i marxisti. Di discutere quello che stava succedendo in quella parte di Chiesa affidata alle sue cure: le terre di missione in Africa e in Asia.

«Propaganda» aveva preparato per tempo il suo rapporto; una copia si trovava in ciascuna delle cartellette di damasco e aveva potuto essere letta con comodo prima della riunione. Il rapporto, che riassumeva brevemente, entrava penosamente nei dettagli di come i missionari gesuiti che lavoravano in India fossero avanzati sulla strada dell’adulterazione della fede cristiana. Il riassunto di «Propaganda» toccò solo il significato deformato del sacerdozio, del battesimo, del sacramento dell’Eucarestia e del primato e dell’autorità del Santo Padre sulla Chiesa, così come venivano in segnati dai gesuiti in India. Parlò dello stemperamento in forme irriconoscibili delle convinzioni cristiane fondamentali sull’immortalità, il cielo e l’inferno, il valore della preghiera, della mortificazione e della penitenza, il significato della messa e della salvazione.

Le osservazioni erano più allarmanti proprio perché «Propaganda» non sembrava perseguire interessi personali. La sua era un’unica domanda: perché? Perché i gesuiti avevano adulterato e deformato anche le più sacre delle convinzioni cristiane? Era cosciente che i gesuiti parlavano di se stessi in termini «d’inculturazione» e «indigenizzazione». Ma il risultato era una costante e organizzata decristianizzazione di quella che era stata in India una florida comunità cristiana di tre milioni di anime.

«Propaganda» si diede la risposta con lo stesso tono pacato con cui aveva posto la domanda. In India i gesuiti erano diventati quello che erano perché avevano continuato, con i loro superiori a Roma, a seguire gli insegnamenti del confratello Pierre Teilhard de Chardin.

De Chardin, nonostante la Santa Sede lo avesse condannato nel 1960 insieme con i suoi scritti, era stato per anni il beniamino degli intellettuali gesuiti. Gli scritti di quell’uomo — «Propaganda» ricordò ai venerabili colleghi le parole della condanna ufficiale — «furono fonte di ambiguità, anzi di gravi errori che offendono la dottrina cattolica». Non c’era da meravigliarsi quindi che i gesuiti, continuando a seguire la stella di de Chardin, si mettessero contro gli interessi della Chiesa. Insomma, «Propaganda» concordava sia con la condanna del 1960 di de Chardin sia con le accuse mosse all’intera Compagnia dai papa nel 1981.

All’inizio sembrò che «Clero» intendesse limitarsi a ribadire il legame indicato da «Propaganda» tra l’opera di Teilhard de Chardin e l’attività attuale dei gesuiti. Come mai la facoltà di teologia e di filosofia del Centro Sèvres di Parigi avrebbe organizzato per il prossimo 13 giugno celebrazioni in onore del centenario della nascita di de Chardin? Secondo le informazioni di «Clero», ciò avveniva con la benedizione degli istituti pontifici a Roma e l’approvazione del segretario di Stato e del generale dell’Ordine.

Il suggerimento di «Clero» fu che gli interessati avrebbero fatto meglio a offrire delle messe per l’anima di de Chardin invece di disquisire su quanto cera di buono e di cattivo nel suo pensiero ambiguo e nelle sue teorie vaghe e pericolose. La proposta di Sua Santità fu più precisa. Il pontefice era sicuro che «Stato» avrebbe comunicato a padre Arrupe che la Santa Sede disapprovava le celebrazioni previste.

Nicaragua, 1981. Giovanni Paolo II rimprovera duramente il gesuita Ernesto Cardenal.
Nicaragua, 1983. Giovanni Paolo II rimprovera Ernesto Cardenal, fratello del gesuita Fernando.

«Clero» aveva però ancora un paio di domande. A proposito di un rapporto arrivato in Vaticano un anno e mezzo prima, nell’ottobre del 1979. Il venerabile fratello cardinale Vincente Scherer di Porto Aiegre, in Brasile, si era diffuso sul Colegio Anchieta dei gesuiti di quella città. Secondo Scherer, in quel collegio si usavano libri di testo marxisti, agli studenti venivano inculcati princìpi marxisti e i sacramenti della comunione e della confessione venivano derisi come anacronistici. Che ne era stato, si chiedeva «Clero», di quel rapporto? Il Colegio aveva continuato allegramente nei suoi metodi. Perché padre Arrupe non aveva corretto quei gravi errori?

E poi, continuò a chiedersi «Clero» ad alta voce, cera lo strano caso del padre gesuita Caprile, che scriveva nella rivista ufficiale dei gesuiti, Civiltà cattolica, pubblicata a Roma. L’oggetto di Caprile era la proibizione cattolica, sotto pena di scomunica, di appartenere a una loggia. La scomunica era lettera morta. Caprile poteva scrivere il suo articolo e l’appartenenza a una loggia era aperta a ogni cattolico. Ciò significava minare apertamente le decisioni del papa a proposito della morale. Come mai Caprile poteva pubblicare cose del genere e godere dell’impunità e della benedizione del padre generale?

Le domande di «Clero» erano indirizzate in particolare a «Stato». L’alleanza tra il cardinale segretario e Civiltà cattolica era un dato di fatto. Era inoltre risaputo che «Stato» si era appropriato del rapporto del cardinale Scherer e lo aveva insabbiato.

«Dottrina» trovò che il momento era appropriato per annodare alcuni fili. Non era solo a Roma, in America Latina o in India che succedevano cose strane con i gesuiti al centro. Nelle cartellette di damasco rosso davanti alle loro eminenze c’erano pagine e pagine su gesuiti che insegnavano, predicavano e agivano in un modo non solo deviarne, ma che contraddiceva sia gli insegnamenti dottrinali della Chiesa sia l’esplicito punto di vista di Sua Santità su numerose questioni essenziali.
«Dottrina» si offrì di ritrovare in quelle pagine una dozzina di nomi d’importanti gesuiti europei, più di due dozzine di gesuiti americani, almeno venticinque latino-americani e più o meno un’altra decina per ciascuno dei seguenti paesi: India, Giappone, Filippine, Irlanda e Inghilterra. L’unico filo che sembrava unire tutti era la convinzione di dover appoggiare «la lotta di classe». Se ciò non era marxismo, allora «Dottrina» non conosceva il significato del termine. Se un fenomeno così generalizzato non aveva la sanzione ufficiale sia del padre generale sia degli altri superiori, allora «Dottrina» non capiva il meccanismo di funzionamento dell’Ordine dei gesuiti. Per quanto lo riguardava, «Dottrina» concluse, le cose erano andate troppo in là. Il Santo Padre avrebbe dovuto agire con decisione. Subito.

«Religiosi» fece un altro tentativo di arrivare a una conclusione favorevole ai gesuiti. Era certo che si trattava di un equivoco. Padre Arrupe aveva riconosciuto che la Compagnia di Gesù era cambiata dopo il Concilio Vaticano II. Aveva anche fornito dei buoni motivi per quel cambiamento: era la Chiesa ad essere cambiata. Con il concilio i cattolici erano arrivati a rendersi conto che la Chiesa è «il popolo di Dio», non un corpo gerarchico. Paolo VI aveva fatto propria questa nuova visione della Chiesa, questa nuova ecclesiologia. Teologi e vescovi avevano adottato con entusiasmo il nuovo punto di vista. I gesuiti, come i vescovi, non facevano che ascoltare la voce del «popolo di Dio». I loro nemici li accusavano naturalmente di essere marxisti; ma in realtà essi non erano che campioni del nuovo concetto di «Chiesa».

«Religiosi» si rendeva conto che in aree isolate della Chiesa, come in Polonia, le nuove idee di cosa fosse in realtà la Chiesa non erano ancora penetrate. Ma era solo questione di tempo. Sua Santità aveva partecipato attivamente al Concilio Vaticano; come avevano partecipato «Dottrina», «Clero» e «Vescovi». Avevano accettato il nuovo concetto di Chiesa. Perché i gesuiti dovevano essere rimproverati di seguirne gli insegnamenti? Solo i loro nemici, «Religiosi» ribadì il suo punto di vista, potevano scambiare l’interesse dei gesuiti per «il popolo di Dio» per un’adesione alla «lotta di classe» marxista.

Tornando a invocare il Concilio Vaticano III, «Religiosi» era tornato a invadere l’area di competenza di «Dottrina».

«Dottrina» ringraziò il Venerabile fratello per avergli chiarito l’idea chiave che muoveva la Compagnia di Gesù di padre Arrupe. La difficoltà tuttavia era che i gesuiti e molti vescovi sembravano aver dimenticato cosa aveva detto il Concilio Vaticano II a proposito del «popolo di Dio»; cioè che quel «popolo» doveva essere guidato non dall’istinto o dalle teorie sociali di Marx o di chiunque altro. A guidarlo dovevano essere la dottrina e la legge morale del pontefice romano e dei vescovi in comunione col pontefice. Ecco che cosa avevano dimenticato i gesuiti e contro un’omissione così grave qualcosa doveva essere fatto.

Fu di nuovo «Stato» a intervenire nel duello tra «Dottrina» e «Religiosi». E tornò a ricordare ai presenti che già in precedenza aveva alzato la posta a proposito della decisione da prendere sui gesuiti.

Sì, si dichiarò d’accordo il segretario, è necessario fare qualcosa a proposito della situazione. Tutta la situazione. Era l’intera situazione della Chiesa che Sua Santità stava cercando di migliorare con i suoi viaggi apostolici e coll’esperimento polacco di Solidarnosc. Tuttavia, c’era il problema di quel patto fra Mosca e il Vaticano del 1962. E forse era meglio ricordare che anche quel patto del 1962 non era altro che il rinnovo di un patto precedente tra la Santa Sede e Mosca.

«Stato» si riferiva alle conversazioni avvenute nel 1942 sotto il regno di Pio XII. Fu in quell’anno che monsignor Giovanni Battista Montini, che sarebbe poi diventato papa col noma di Paolo VI, ebbe colloqui diretti con un rappresentante di Giuseppe Stalin. Quelle conversazioni avevano lo scopo di attenuare i fulmini costanti di Pio XII contro il dittatore sovietico e il marxismo. «Stato» aveva partecipato di persona a quei colloqui. Era stato presente anche a una conversazione tra Montini e il leader del partito comunista italiano Palmiro Togliatti nel 1944.

Se i venerabili colleghi lo credevano opportuno, «Stato» Poteva fornire sull’avvenimento i rapporti dell’ufficio dei servizi strategici alleati, a partire con il rapporto JR-1022 del 28 agosto 1944. Ovviamente «Stato» aveva controllato nei Particolari le sue informazioni prima di arrivare alla riunione, aspettandosi di trovarsi di fronte un’opposizione organizzata.

Monsignor Giovanni Battista Montini incontrava comunisti allinsaputa di papa Pio XII.
Mons. Montini incontrava esponenti comunisti all’insaputa di Pio XII.

L’informazione di «Stato» sembrò preoccupare Giovanni Paolo II che si informò se Sua Santità Pio XII era stato al corrente di quelle conversazioni e accordi. No, «Stato» ammise. Ma restava il fatto che qualcuno deve occuparsi delle cose sgradevoli. Qualche volta i subordinati devono agire all’insaputa dei loro superiori per favorire proprio i progetti dei superiori stessi. Naturalmente i patti tra Mosca e il Vaticano del 1942, 1944 e 1962 erano un affare interno alla Santa Sede. Proprio come le conversazioni e gli accordi che in quel momento Sua Santità stava conducendo con l’amministrazione americana.

Allo stesso modo i gesuiti cercavano di far fronte a una realtà sociale e politica. Non potevano essere tacciati di essere marxisti. Era un’espressione del fermento della Chiesa. Una espressione preziosa.

Di nuovo «Stato» aveva espresso la sua opinione indirettamente, senza fare critiche personali a Giovanni Paolo II. Secondo molti, trattare con gli americani era altrettanto male che trattare con i marxisti sovietici. Ciascuno faceva ciò che riteneva meglio. I gesuiti operavano in situazioni dove i comunisti erano già aggressivi. Forse il loro metodo era accettabile come tanti altri.

«Stato» si affrettò ad aggiungere, tuttavia, che si dovevano correggere gli abusi. Certamente, padre Arrupe e gli altri dirigenti gesuiti avrebbero messo ordine nella loro casa quando si fossero riuniti a Roma per la prossima Congregazione generale. Erano già in corso intensi preparativi. Attendendo pazientemente, era l’opinione di «Stato», tutto si sarebbe messo a posto. L’ultima cosa di cui avevano bisogno infatti erano ulteriori lacerazioni. «Stato» aveva ripetuto la sua offerta di compromesso e aveva rinnovato la sua minaccia.

La duplice possibilità era l’esca perfetta per costringere «Vescovi» a entrare nella discussione. Le sue uniche preoccupazioni erano quelle dell’uomo di buona volontà. Dopo tutto, la soppressione generale dei gesuiti avrebbe creato una quantità di vuoti insostenibili nei collegi, nei seminari, nelle missioni, nelle università e negli istituti. Su molti vescovi sarebbe ricaduto il compito di trovare nuovo personale. E ciò avrebbe vittimizzato molti eccellenti gesuiti che svolgevano fedelmente il loro compito e difendevano pubblicamente la Chiesa e il papato. Ciò di cui Sua Santità aveva bisogno era una riforma della Compagnia. E certamente, come «Stato» aveva detto, sarebbe stato meglio che le cose seguissero un loro corso costituzionale. Che l’Ordine si riunisse per la Congregazione generale. Una volta che i capi fossero riuniti a Roma, Sua Santità avrebbe avuto i mezzi giuridici per intervenire, per indurli a una riforma. Se fosse stato necessario, padre Arrupe si sarebbe potuto dimettere. Come aveva detto «Stato», con pazienza tutto si sarebbe aggiustato.

«Dottrina» non era per niente soddisfatto della mediazione di «Vescovi». Papa Paolo VI, fece notare, il cui nome era stato invocato molte volte nel corso della discussione per giustificare i gesuiti, aveva tentato due volte di riformare la Compagnia proprio con i mezzi suggeriti da «Vescovi» e «Stato». Entrambe le volte aveva fallito. La situazione chiedeva un intervento più significativo.

Cosa intendeva, chiese «Stato», «Dottrina» con «un intervento più significativo»? «Dottrina» si espresse chiaramente: un’azione a due tempi. Primo, accettare le «dimissioni» di padre Arrupe. Secondo, nominare un supervisore papale che si occupasse della preparazione di una riforma veramente efficace nel corso della prossima Congregazione generale.

Come succede di solito in riunioni del genere, si era arrivati a quel punto in cui entrambe le parti avevano capito che il male peggiore poteva non essere accettare una vittoria parziale. «Dottrina» aveva esordito con la speranza nella soppressione totale della Compagnia. «Stato» aveva sostenuto il laissez-faire. L’azione a due tempi proposta da «Dottrina» era un compromesso per entrambi. Per il momento era il massimo che entrambi gli avversari potevano sperare di ottenere.

Si fece silenzio. Giovanni Paolo II guardò brevemente un cardinale dopo l’altro. Tutti assentirono. Il segretario di Stato fu quello che il papa guardò più a lungo. Alzandosi per uscire dalla sala il papa fece solo un commento: «Bene, ci sono voluti otto ballottaggi perché i cardinali mi eleggessero papa!».

Nessuno sapeva come interpretare quel commento. Era una battuta ironica? Oppure il richiamo al rispetto dovuto alla persona del papa? O l’avvertimento che poteva trovare abbastanza appoggio tra i cardinali per scavalcare «Stato» e chiunque altro nella questione dei gesuiti? Dopo tutta quella romanità, quel papa che era, come aveva avuto a dire, «venuto da un paese molto lontano», dove aveva imparato a scambiare colpi pesanti col drago marxista, era riuscito a finire la riunione su una nota inquietante per i suoi cardinali ministri.

Pedro Arrupe con Henri de Lubac e Karl Rahner, esponenti della
Pedro Arrupe (destra) con Henri de Lubac (centro) e Karl Rahner (sinistra), esponenti della “nouvelle theologie”.

Una cosa tuttavia era certa. Molto presto padre Arrupe avrebbe avuto notizia della riunione. Avrebbe saputo tutto ciò che era stato detto. Avrebbe saputo che il Santo Padre non era né un Paolo VI che la debolezza rendeva flessibile, né un Giovanni XXIII che le speranze visionarie rendevano cieco alle macchinazioni dei subordinati. Avrebbe saputo che per il momento l’attacco frontale contro l’Ordine era stato evitato, non per amore di Arrupe o per stima della Compagnia, ma perché ciò faceva comodo alla politica attuale del segretario di Stato e alle ambizioni personali di «Religiosi» e «Vescovi».

Attacco frontale o no, comunque. Arrupe, il papa nero, era altrettanto realista di Wojtyla, il papa bianco.


A confermare tutto ciò, si legga questo testo uscito nel 2019 di cui fa ampia traccia Sandro Magister:

La Compagnia di Gesù allo sbando. L’atto d’accusa di un grande gesuita

“Mi sembra di essere in buona Compagnia…”. Così un esultante Antonio Spadaro ha salutato via twitter l’uscita di “Confesiones de jesuitas”, la riedizione ampliata di un libro già pubblicato nel 2003 col titolo “31 jesuitas se confiesan”, nel quale ora compare anche lui, assieme ad altri 37 suoi confratelli tra cui alcuni di prima grandezza, vivi e defunti, da Avery Dulles a Carlo Maria Martini, da Roberto Tucci a Tomás Spidlik, da Jon Sobrino a Robert F. Taft, da Adolfo Nicolás ad Arturo Sosa Abascal, ultimi due generali dell’ordine fondato da sant’Ignazio di Loyola.

I curatori del libro, i catalani Valentí Gómez-Oliver e Josep M. Benítez-Riera, scrivono nella prefazione che a stimolare l’aggiornamento di questa raccolta di testimonianze è stata l’elezione del primo papa gesuita della storia. A ciascuno degli interpellati hanno chiesto di “confessare” la loro personale esperienza di vita al fine di comporre una sorta di autoritratto collettivo della Compagnia di Gesù, arrivata oggi con Jorge Mario Bergoglio all’apice della Chiesa.

Ma attenzione. “Confesiones de jesuitas” è lontano dall’essere un libro celebrativo. Padre Spadaro non deve essersene accorto, visto come ha esultato a trovarsi in mezzo a una Compagnia che non risulta affatto essere così “buona”, stando al giudizio di alcuni dei suoi stessi confratelli.

Basta leggere, per capire questo, la “confessione” di Xavier Tilliette, francese, morto a quasi cent’anni il 10 dicembre del 2018 e salutato il giorno dopo su “L’Osservatore Romano” come “non solo un filosofo e un teologo di razza, ma un vero gesuita”-

Tilliette non aveva rivali come studioso del filosofo tedesco Schelling, al quale dedicò un libro monumento a tutt’oggi insuperato. Ma le sue ricerche spaziavano oltre, sul confine tra fede e ragione, procurandogli l’ammirazione e l’amicizia di giganti del pensiero cattolico del XX secolo come Gaston Fessard, Henri de Lubac, Jean Daniélou, Hans Urs von Balthasar, i primi tre anch’essi gesuiti. Ed è tutto da leggere il commosso ricordo che gli dedicò su “L’Osservatore Romano” il confratello Jacques Servais, discepolo di von Balthasar e autore della più importante intervista teologica a Joseph Ratzinger dopo la sua rinuncia al papato.

Ebbene, ecco che cosa scrive – tra molto altro – Tilliette nella sua “confessione”.

Per cominciare, queste sue parole fanno come da titolo a ciò che segue:

“La mia vocazione religiosa nella Compagnia di Gesù fu precoce e praticamente non ha mai vacillato. Solo che negli ultimi decenni, di fronte ai cambiamenti che ne hanno reso irriconoscibili i tratti originari, è stata messa a dura prova e mi sono sorti degli interrogativi: sull’esercizio dei voti, sulla povertà e l’obbedienza, sulla funzione dei superiori, sul futuro della Compagnia”.

Uno dei momenti di svolta fu il 1968, che Tilliette visse a Parigi, proprio mentre si dedicava anima e corpo al suo monumentale studio su Schelling e mentre un suo più celebre confratello gesuita, Michel de Certeau – anni dopo definito da papa Francesco “il più grande teologo per il giorno d’oggi” ma bollato da de Lubac come un “gioachimita” infatuato di una presunta epoca d’oro senza più l’istituzione Chiesa – esaltava invece la rivolta come momento di liberazione totale:

“Ho vissuto molto male la crisi del maggio 1968, dalla quale presi subito le distanze. L’entusiasmo di un Michel de Certeau mi sembrava del tutto fuori luogo. Si assisteva al saccheggio di questa venerabile istituzione, l’università, e di rimbalzo a uno sgretolamento della Compagnia dal quale essa non si è più ripresa”.

Questo “sgretolamento”, Tilliette lo descrive così, in una Compagnia di Gesù diventata irriconoscibile per lui e per tanti altri suoi confratelli:

“In parallelo all’improvviso sommovimento del 1968 e senza relazione con esso, ha avuto luogo la ragionata trasformazione della Chiesa a seguito del Concilio. Ma l’aumento di libertà che ne derivò ebbe conseguenze disastrose per gli scolasticati della Compagnia. In quell’occasione vissi molto male anche l’evoluzione o trasformazione del nostro modo di vita. La ribellione degli scolasticati mi sembrava assurda. Restavo convinto che la Compagnia avesse i nervi più saldi e una forza interiore capace di di superare la crisi senza cedere nulla dell’essenziale. Ma il risultato non è stato quello che speravo. Grazie a Dio, lo spirito si è salvato, ma il corpo dello spirito, la lettera, ha sofferto in forma duratura. È una dura prova quella che è stata inflitta ai gesuiti della mia generazione, della generazione precedente e di quella seguente. Sarà carenza di flessibilità, mancanza di adattamento, però essi non si riconoscono più nello stile di vita rilassata che si è instaurato, non si riconoscono più nell’ordine che in tempi precedenti li accolse. Le congregazioni generali hanno preso atto dei cambiamenti che si sono prodotti nei comportamenti, della volontà di indipendenza dei loro membri, della permissività che viene dalla società civile e che si è diffusa tra noi. Hanno messo da parte il tesoro delle regole, la priorità delle priorità non è più la vita religiosa comunitaria, che è finita a pezzi, ma la preoccupazione per la giustizia e la predilezione per i poveri. Belli ideali che però corrono il rischio di ridursi a mere parole e di essere irrealizzabili dalla gran parte”.

Un momento rivelatore della crisi della Compagnia, Tilliette lo individua in ciò che accadde dopo la morte del cardinale Jean Daniélou, nella casa parigina di una prostituta che egli aveva portato sulla soglia della conversione:

“Qualcosa si è rotto in me dopo la morte del cardinale Daniélou, quando la calunnia circolò anche tra le file della Compagnia e l’atteggiamento dei superiori fu impacciato e mediocre. Invece di volare in soccorso di un confratello assassinato, si consumarono basse vendette. Fu allora che dubitai del mio ordine, del suo discernimento, della sua capacità d’essere solidale. Caddi dall’alto del mio ideale, come Mallarmé. Prima del mio ingresso e nel tempo della mia formazione, avevo un ideale molto alto della Compagnia, del suo spirito di corpo, della sua solidarietà”.

Come professore di filosofia, prima negli istituti di formazione dei gesuiti, poi all’Institut Catholique di Parigi e infine alla Pontificia Università Gregoriana, Tilliette dice d’aver visto evaporare nella Compagnia anche il primato degli “intellettuali”:

“Ho trascorso la mia esistenza di gesuita negli incarichi tradizionali di direttore e professore di collegio, di redattore di riviste e di scrittore, di professore di università. Ho assunto questi compiti austeri convinto che l’umanesimo gesuita sia primordiale e che gli intellettuali siano la pupilla degli occhi della Compagnia. Invece pare che oggi non sia più così e che si dia la preferenza ai ministeri direttamente apostolici. Credo che si faccia di necessità virtù: lo scarso reclutamento non permette di mantenere un alto livello di studi e i superiori non dispongono di soggetti in grado di coprire i vuoti man mano che si aprono. Da questo punto di vista, il futuro della Compagnia è piuttosto oscuro. Si chiudono le case e si relegano gli anziani in residenze dotate di personale medico. Senza dubbio non c’è altra soluzione. Ma ci piacerebbe che questo ripiegamento inevitabile non fosse accompagnato da euforici discorsi di rito, che ricordano gli annunci di una sconfitta in tempo di guerra”.

Tirando le somme, il quadro che tratteggia Tilliette sulla società contemporanea è oscuro, anche per il silenzio dei “superiori”:

“Arrivato all’età in cui si stendono le ombre sul cammino, sento il dovere di confessare una delusione che condivido con molti. Sono cambiato infinitamente meno del contesto vitale che mi circonda ed è una sofferenza sentirsi sfasato, antimoderno e, peggio, complice, poiché l’influenza dell’ambiente circostante è troppo forte. Non voglio incolpare nessuno, ma in certi momenti è mancata una parola risoluta da parte dei superiori. La mentalità materialista regna e si estende senza essere contrastata dalla coscienza collettiva. Dio è assente dai cuori. L’innocente e la vittima valgono meno del colpevole. Una società che muove cielo e terra contro la pena di morte e, nel medesimo tempo, giustifica e propaganda l’aborto libero, è al punto più basso della scala della perversione”.

Ma la conclusione resta comunque fiduciosa, perché più che l’appartenenza alla Compagnia vale il servizio alla Chiesa:

“La nostra epoca, una delle più oscure della storia, vede tuttavia fiorire sacrifici sublimi, eroismi, esempi di santità. Viene voglia di ripetere con Gertrud von le Fort dopo la prima guerra mondiale: sola nel disastro e nella rovina universale resiste la Chiesa. La santa Chiesa cattolica, come un faro sulla collina. Che resta intatta nella sua divina essenza anche quando i nostri peccati hanno macchiato il suo nobile volto. La prima educazione mi inculcò l’amore e il rispetto per la Chiesa, i suoi sacramenti, la sua liturgia, il rifugio di misericordia, di orazione e di scienza che offre ai popoli del mondo. La vita dei santi, l’esempio del padre de Lubac, la lettura assidua di Claudel mi hanno insegnato a venerare la Chiesa, a subordinare l’appartenenza alla Compagnia al servizio della Chiesa e del papa, per il quale fu creata e che continua a restare la sua ragion d’essere. Non la Compagnia come tale, ma alcuni gesuiti di tutte le età devono fare un serio esame di coscienza. Il mio non è certo tranquillizzante, e mi istruisco un processo ogni giorno. Ma non credo di aver peccato intenzionalmente contro la luce”.


Un Santo alle prese con i Gesuiti

Dal volume “Testimone della speranza”, George Weigel, Le Scie Mondadori, Milano 1999 (pagg. 526-534)

UN SANTO ALLE PRESE CON I GESUITI.

Ieri come oggi: problemi
Poco dopo il ritorno autunnale da Castel Gandolfo, dove aveva trascorso la convalescenza, Giovanni Paolo II intervenne nel governo dell’Ordine religioso maschile più prestigioso della Chiesa, la Compagnia di Gesù.
Il 5 Ottobre 1981 nominò Paolo Dezza SJ, suo ‘delegato personale ’alla guida dei gesuiti, affiancato da Padre Pittau SJ, come vice.

Era una decisione senza precedenti, che chiudeva anni di tensione fra il Vaticano e la Compagnia, una decisione  con la quale il Papa sfidava i gesuiti a rinnovare radicalmente la loro specifica vocazione.
Accogliendo nel XVI secolo
La proposta di Ignazio di Loyola di costituire una comunità religiosa d’élite, caratterizzata da fervore spirituale, intelletto, coraggio, spirito di corpo, abnegazione ed assoluta lealtà al papato, la Chiesa cattolica aveva corso un rischio di non poco conto.
In qualsiasi organizzazione complessa le élites sono fonte di grattacapi: gelosie, fazioni, intrighi, lotte di potere, tutte difficoltà che la Chiesa del resto conosceva già bene prima della Controriforma.
Ora , però, puntando sui gesuiti, essa faceva una scommessa di altro tipo: scommetteva che  un Ordine religioso autonomo, autoperpetuantesi e consapevolmente  elitario, non sarebbe partito per la tangente, entrando in un’orbita dottrinale e disciplinare diversa, perché quell’Ordine sarebbe rimasto vincolato all’autorità della Chiesa con il cordone ombelicale del suo particolare voto di obbedienza al Vescovo di Roma.
Se quel cordone si fosse allentato o spezzato, un’élite che era il fiore all’occhiello della, Chiesa, avrebbe potuto trasformarsi in una conventicola indipendente , a parole legata all’autorità ecclesiastica, ma nella realtà convinta di essere autorizzata dalla sua superiore intelligenza e rettitudine morale a percorrere una strada autonoma.
Nella storia del cattolicesimo ogni grande carisma racchiude in sé la sua particolare tentazione.
La tentazione francescana è una spiritualità sdolcinata, che è l’esatto opposto dell’abbraccio amoroso di san Francesco a tutte le creature.
La tentazione domenicana è l’arido intellettualismo, che rappresenta la corruzione delle finalità di san Domenico, il quale intendeva creare una compagnia di predicatori di grande forza intellettuale.
I benedettini seguaci della regola dettata da san Benedetto nel VI secolo, fanno voto di stabilità, vincolandosi a restare nel medesimo monastero tutta la vita: la tentazione di questo ordine è lasciare che la stabilità degeneri in autocompiacimento.
La tentazione dei gesuiti è diventare un’élite autoreferenziale, che , immaginandosi più illuminata dell’autorità della Chiesa, ritenga di non dover più rendere conto a quella autorità.
Era accaduto questo alla Compagnia di Gesù negli anni del dopo concilio?
I dirigenti internazionali della Compagnia smentivano seccamente, ma alcuni gesuiti erano molto preoccupati dall’andamento del loro ordine.
Essi mettevano in evidenza i cambiamenti drastici intervenuti nella formazione dei giovani e sostenevano che l’educazione impartita nei loro seminari offuscava lo smalto intellettuale della Compagnia, sostituendo al rigorismo preconciliare, a volte eccessivo, un lassismo disciplinare ed uno psicologismo soffocante, tollerando modi di vita quasi indistinguibili da quelli dei laici, quando non addirittura censurabili.
Questi gesuiti, preoccupati dell’andamento della Compagnia erano uomini che credevano nella dottrina sociale della Chiesa ed in alcuni casi ne erano gli esponenti più capaci.
Tuttavia erano convinti che il gesuita Fernando Cardenal,SJ, avesse messo a repentaglio la sua vocazione sacerdotale  e dimostrato una discutibile capacità di discernimento, assumendo la direzione assumendo la direzione del programma di alfabetizzazione nicaraguense alle dipendenze di un regime che si autoproclamava marxista-leninista.
Deploravano la posizione filoabortista del gesuita Robert Drinan, SJ, deputato per il Massachusetts alla Camera dei rappresentanti statunitense, e si chiedevano perché le gerarchie della Compagnia di Gesù ignorassero queste nuove forme di clericalismo politico.
Alcune facoltà di Teologia della Compagnia, sparse in varie parti del mondo, che un tempo erano famose per la loro ortodossia estremamente rigorosa, ora stavano dilatando le frontiere della speculazione teologica in modi aspramente criticati da altri teologi, compresi alcuni tra gli stessi gesuiti.
Prestigiosi intellettuali della Compagnia di Gesù non si davano ormai più pensiero di contestare pubblicamente le dottrine della Chiesa e la saggezza dei suoi maestri ufficiali.
I numeri non raccontano mai l’intera storia di una comunità, ma qualcosa dicono.
Nel 1965, alla conclusione del Concilio, i gesuiti erano 36mila; nel 1975 erano scesi a 29mila, in parte perché erano diminuite le vocazioni, in parte perché molti avevano abbandonato l’ordine.
Il calo proseguì costante per tutti gli anni Settanta e gli anni Ottanta (con alcune eccezioni, come l’India), ma i gesuiti restarono comunque una delle comunità religiose più influenti della Chiesa cattolica.
Da quando era nata, la Compagnia era sempre stata all’avanguardia e la strada che aveva imboccato dopo il Concilio Vaticano II sembrava a molti quella del futuro.
L’11 Dicembre  1978 il Preposito generale dei gesuiti, Pedro Arrupe, un basco carismatico che era a capo della Compagnia dal 1965, ebbe la sua prima udienza con il Papa e fece promessa di obbedienza in nome del suo ordine.
Dieci mesi dopo, in occasione della riunione provinciale dei padri provinciali convocati per fare il punto sulla situazione internazionale  della Compagnia, padre Arrupe invitò Giovanni Paolo II a parlare ai convenuti.
Il santo Padre pronunciò un messaggio duro che lasciò tutti sgomenti.
Poiché il tempo era poco, disse, non si sarebbe soffermato sui tanti meriti della Compagnia e sarebbe venuto subito al dunque:
“Voglio dirvi che siete stati cagione di preoccupazione per i miei predecessori e lo siete per il Papa che vi parla”.
E, non contento di queste parole franche, spedì a padre Arrupe la copia di un discorso molto critico che Giovanni Paolo I non aveva fatto in tempo a rivolgere ai vertici della Compagnia, dicendo di condividerne ogni parola.
Padre Arrupe aveva cominciato già, nel mese di Giugno del 1979, ad accennare privatamente ai quattro assistenti generali- i suoi massimi consiglieri- ad un possibile ritiro.
Sosteneva di essere stato eletto ad vitalitatem, non ad vitam- cioè finché avesse avuto vitalità non vita- e lui si sentiva calare le forze.
Sei mesi dopo il 3 gennaio 1980, Arrupe chiese udienza al pontefice per fissare una riunione, alla quale avrebbero dovuto partecipare anche i suoi assistenti, per illustrargli i progetti futuri della Compagnia e per confrontarli con le finalità del papato.
Giovanni paolo II dichiarò la sua disponibilità ma non una data precisa.
Arrupe continuava a meditare di dimettersi e nel febbraio 1980 disse ai suoi assistenti generali che ormai aveva preso la decisione ed era sereno.
La prima settimana di marzo  chiese di esprimere un parere formale sulle sue dimissioni, sostenendo che l’età costituiva motivo sufficientemente grave come richiesto dallo statuto della Compagnia.
Passata la settimana di rito gli assistenti convennero che   i motivi erano validi e il più anziano, padre O’Keefe, SJ, lo comunicò ad Arrupe.
Come prevede la procedura furono allora consultati gli 85 padri provinciali di tutto il mondo, che diedero in maggioranza parere favorevole.
Ora non restava che convocare la Congregazione generale, cioè il supremo organo legislativo della Compagnia, alla quale spettava di accettare o respingere le dimissioni.
Arrupe illustò la procedura a Giovanni Paolo II nell’udienza privata del 18 aprile 1980.
O’keefe l’aveva come al solito accompagnato, ma questa volta dovette attendere fuori della porta.
Padre O’Keefe era inquieto: Arrupe che era un ottimo parlatore, a suo avviso, davanti al papa diventava ‘come un bambino’, e gli tremavano le gambe.
Giovanni Paolo II si disse sorpreso che la discussione sulle dimissioni fosse già così avanti e chiese ad Arrupe in quale momento, ammesso  che ce ne fosse uno, era previsto l’intervento del Pontefice.
Arrupe spiegò che lo statuto della Compagnia non lo prevedeva affatto, benché fosse invalsa l’abitudine di informare il Papa del progetto di convocare una Congregazione generale e di discuterne con lui.
Allora Giovanni Paolo II domandò a padre Arrupe che cosa avrebbe fatto se gli avesse chiesto di non dimettersi.
Arrupe replicò che il Papa era il suo superiore.
Giovanni Paolo II chiuse l’udienza dicendo che avrebbe meditato sulla questione e poi gli avrebbe scritto.
La lettera arrivò il Primo Maggio 1980.
Per il bene della Compagnia e per il bene della Chiesa, il papa invitava Arrupe a non dimettersi e a non convocare la Congergazione generale.
Al suo ritorno dall’africa, proseguiva il Pontefice, egli avrebbe aperto u dialogo per risolvere la questione.
Sentendo queste parole gli assistenti generali ne dedussero che finalmente sarebbero stati ricevuti dal papa, ma non era questo che Giovanni Paolo II aveva in mente.
Il 30 dicembre tre degli assistenti generali, i quali non erano ancora riusciti a fissare una data per il loro incontro con il Papa insieme ad Arrupe, misero il Pontefice alle strette nella loro sede accanto alla chiesa del Gesù dove il Papa aveva da poco terminato di celebrare la tradizionale  messa di fine anno con la comunità dei gesuiti di Roma.
Il Papa era appena entrato nella casa dei gesuiti con Arrupe che voleva presentargli i giovani gesuiti, quando gli assistenti gli si fecero incontro, dicendo:”Santità,noi siamo il consiglio di padre Arrupe; siamo noi che le abbiamo scritto e speriamo che lei abbia tempo di incontrare il preposito generale  perché non sappiamo più cosa fare”.
Giovanni paolo II replicò:”Sarà presto”.
Mentre  il Papa si allontanava, monsignor Dziwisz assicurò ad Arrupe che l’udienza si sarebbe tenuta presto.
In effetti si svolse il 17 gennaio 1981, ma non approdò a nessuna conclusione.
Intanto la stampa italiana continuava a parlare di spaccature: fra Giovanni paolo II ed Arrupe, fra il Vaticano e la Compagnia di Gesù, oppure entrambe le cose.
Il Papa ed il preposito generale ebbero un nuovo colloquio il 13 aprile 1981.
Giovanni paolo II disse di essere preoccupato per le decisioni che la Congregazione generale avrebbe potuto prendere qualora non fosse più diretta da Arrupe.
(I favoriti erano padre O’Keefe e padre Calvez ma poi la XXXIII Congregazione generale avrebbe potuto affrontare qualsiasi altra questione)
La XXXII Congregazione del 1974 era stata motivo di grande apprensione per Paolo VI e l’attuale Papa evidentemente, temeva che la situazione potesse diventare ancora più esplosiva in una assemblea non guidata da padre Arrupe.
Il generale dei gesuiti negò che la XXXII Congregazione avesse sfidato Montini e ribadì la sua convinzione in una lunga lettera al Pontefici nei giorni seguenti.
Il Papa concluse l’udienza rassicurando padre Arrupe che il dialogo sarebbe proseguito.
Un mese dopo ci fu l’attentato.
Il 7 agosto, mentre tornava da un viaggio nelle Filippine, Arrupe ebbe un malore all’aeroporto internazionale Leonardo da Vinci di Roma e fu ricoverato all’ospedale Salvator Mundi.
I medici gli diagnosticarono una paralisi al lato sinistro del cervello e a quello destro del corpo.
Padre O’Keefe gli somministrò l’estrema unzione e informò il cardinal Casaroli.
Il segretario di stato Vaticano desiderava andare a visitare Padre Arrupe ma O’Keefe disse che i medici avevano raccomandato di evitare qualsiasi emozione per timore di un nuovo attacco.
Il 10 agosto tre degli assistenti generali furono informati dai medici che Arrupe era in grado di intendere e capire le decisioni e quindi recatisi al suo capezzale gli chiesero se intendeva nominare un vicario generale con pieni poteri per guidare la Compagnia durante la malattia.
Arrupe fece capire di sì.
Gli chiesero se aveva in mente qualcuno.
Il Prepposito generale indicò O’Keefe.
Il cardinal casaroli e i padri provinciali dei gesuiti furono immediatamente informati che Arrupe come prevedeva l’articolo 787 dello statuto della Compagnia, aveva nominato O’Keefe vicario generale per tutta la durata della sua infermità.
Due settimane dopo O’Keefe e gli altri assistenti furono convocati dai medici dell’ospedale e informati che Arrupe non avrebbe più dovuto occupare posti di responsabilità.
Comunque ora il malato era in grado di ricevere Casaroli.
Il segretario di stato passò a rendere O’Keefe nella sede dei gesuiti e assieme andarono all’ospedale.
Durante il percorso O’Keefe tentò di ottenere da casaroli il consenso per convocare la Congregazione generale, ma Casaroli cambiò discorso.
Quando arrivarono, il segretario di stato chiese all’assistente di leggere a padre Arrupe una lettera personale del Papa, nella quale si diceva vicino al generale dei gesuiti, convalescente come lui, augurandogli di guarire presto.
Al ritorno O’Keefe fece di nuovo pressione su Casaroli perché ricordasse al Papa la necessità di convocare la Congregazione generale..
Casaroli disse di inviargli una lettera.
Il 3 settembre la lettera era pronta.
O’Keefe vi esponeva i motivi dell’incapacità di Arrupe e sosteneva che in quelle circostanze il compito del vicario era di convocare la Congregazione generale.
Siccome però era proprio questo che Giovanni paolo II aveva chiesto ad Arrupe di non fare, O’Keefe spiegava che la situazione in cui e gli altri assistenti si trovavano era affatto nuova.
Una copia del messaggio fu inviata a tutti i provinciali.
La soluzione però non fu quella prevista.
Il 6 ottobre , mentre O’Keefe era in riunione, il segretario di Arrupe venne informato che aveva telefonato Casaroli chiedendo di vedere il padre generale, che era stato dimesso dall’ospedale ed ora era nell’infermeria della Casa della Compagnia.
Il vicario chiese se il cardinale desiderasse parlare anche con lui e la risposta fu:”No, non necessariamente”.
O’Keefe diede disposizioni per essere avvertito dell’arrivo di Casaroli e lo intercettò prima che entrasse nella stanza di padre Arrupe.
Casaroli gli comunicò che voleva parlare in privato con Arrupe e O’keefe aspettò davanti alla porta. Dopo un quarto d’ora Casaroli lo chiamò perché non riusciva a capire  quello che il malato diceva.
Entrando O’ Keefe notò alcune carte sopra un tavolino.
Ascoltò con molta attenzione le parole del suo superiore e poi spiegò a Casaroli che Arrupe aveva chiesto di fissare un incontro fra il cardinale e padre Dezza, cosa che O’Keefe si accinse a fare immediatamente.
Fece accomodare Casaroli in un salottino, convocò Dezza e quindi tornò nell’infermeria.
Il preposito generale gli indicò i fogli sul tavolino.
Era una lettera di Giovanni Paolo II con la quale il Papa nominava Dezza, che stava per compiere ottant’anni, suo ‘delegato personale’ a guidare la Compagnia fino a nuovo avviso, affiancato come coadiutore o vice, da padre Giuseppe Pittau, SJ, ex-rettore dell’Università Sophia di Tokyo e provinciale dei gesuiti in Giappone.
Lo statuto di governo della Compagnia di Gesù era sospeso e non ci sarebbe stata nessuna convocazione immediata della XXXII Congregazione generale.
O’Keefe rimase ‘stordito’ e chiese ad Arrupe:”Qual è la posizione del vicario generale”?
“Non lo so” Fu la risposta.
“Va’ a parlare con Dezza”.
O’Keefe illustrò la situazione agli altri assistenti generali e nel pomeriggio ebbe un colloquio con padre Dezza, da cui seppe che era in arrivo una letera del Papa.
Il problema più immediato per O’Keefe era come informare la Compagnia.
Il generalato dei gesuiti e il Vaticano decisero di comune accordo di tenere segreta la notizia per tutto il mese di ottobre fino a che tutti i gesuiti del mondo non fossero informati personalmente.
Ma verso al fine di ottobre la notizia fu pubblicata da un giornale spagnolo e ripresa dalla stampa italiana.
Allora padre Dezza, accogliendo il consiglio di O’Keefe, emanò un comunicato ufficiale.
Per i Gesuiti fu il più grande trauma della loro storia dal tempo in cui Clemente XIV aveva sciolto la Compagnia nel 1773.
(Queste stesse parole ripeté l’attuale occupante del soglio di Pietro nella famosa prima intervista alla Republica di Scalfari. Una curiosità: Clemente XIV era un …francescano. Nota mia)
L’intervento del Papa suscitò le ire di tutti quelli che avevano gradito la direzione di Arrupe e avrebbero voluto che continuasse  con il suo successore.
Ma la teoria di costoro, secondo cui tutta la questione non fosse altro che uno spaventoso equivoco nato da un’interpretazione distorta di quanto era realmente accaduto durante la Congregazione del 1974, non persuade.
Gli ordini religiosi erano entrati in crisi nel periodo postconciliare.
Può anche darsi che Giovanni Paolo II non considerasse la situazione dei gesuiti peggiore di altre, ma la loro influenza era tale che egli ritenne necessario un periodo di riflessione.
Se non avesse tenuto in gran conto il prestigio della Compagnia e la sua capacità di contribuire ad un’applicazione autentica del Concilio egli come disse ai padri Dezza e Pittau, non sarebbe intervenuto.
La sua fu una bella terapia d’urto che si proponeva di mettere fine agli scontri all’interno della Compagnia e fra la Compagnia e le più alte autorità ecclesiastiche, in modo da creare le condizioni per nuovi rapporti basati su maggiore fiducia.
Evidentemente il Papa non riteneva che la XXXIII Congregazione presieduta da padre O’Keefe potesse raggiungere tali obiettivi.
Era un cambiamento drastico di cui né O’Keefe né gli altri tre assistenti sentivano la necessità, come si capisce chiaramente dalle pressioni che essi esercitarono sul Pontefice per ottenere il permesso di riunire la Congregazione generale finché le redini del potere erano nelle stesse mani che la reggevano da anni, vale a dire le loro.
Il punto ora era vedere come avrebbero reagito i gesuiti e se la terapia sarebbe riuscita a risolvere il malessere che Giovanni Paolo II, e non solo lui, aveva diagnosticato.
(Ai posteri l’ardua sentenza…nota nostra)


Papa Luciani e la guerra di dottrina con i gesuiti

Giovanni Paolo I richiamava i tanti gesuiti affascinati da Massoneria, dottrine marxiste, politica, sociologia e sociale, più che a Cristo stesso, per poi radicare questo errore in un fatto: l’allontanamento dalla “solida dottrina”.

di Francesco Agnoli novembre 2017

Nella seconda puntata su Albino Luciani abbiamo affrontato la sua adesione profonda all’enciclica così dibattuta del suo predecessore, l’Humanae vitae. Divenendo papa, Luciani sapeva benissimo che avrebbe dovuto prendere sulle spalle una croce molto pesante. Si presentò subito al popolo di Dio come egli era: un insegnante di catechismo per fanciulli ed un pastore. Per Luciani non vi era alcuna difficoltà a tenere insieme le due cose: il pastore non vuole che nessuna delle sue pecore vada dispersa, per questo è pronto ad indicare ad ognuna, con tutto l’amore e la pazienza possibili, la retta via dell’ovile.

Uno dei suoi pochi testi rimasti si intitola Catechetica in briciole, e contiene riflessioni come questa: Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio… Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano“.

Per Luciani il catechismo ha anche il grande merito di mettere nel cuore il senso del peccato, il rimorso: “il rimorso non lascerà loro aver pace nel peccato e presto tardi li ricondurrà al bene”. In questo era del tutto fedele alla Tradizione della Chiesa, che lungi dal separare verità e amore, carità e giustizia, misericordia e castigo, tiene insieme queste realtà inscindibili. All’inizio d’anno del seminario, il 20 settembre 1977, Luciani si era rivolto così ai suoi giovani: “Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare“.

Nei 33 giorni di pontificato Giovanni Paolo I si trovò di fronte a grandi difficoltà. Aveva intenzione, come si è già visto, di rinnovare la Curia, di riformare lo Ior e di affrontare il dossier spinoso dei prelati iscritti alla massoneria.

La lista dei 121 massoni stilata da Mino Pecorelli proprio nel 1978 conteneva non soltanto il nome di Paul Marcinkus, con cui Luciani aveva avuto a che discutere da patriarca di Venezia, ma anche quello di Donato De Bonis, braccio destro di Marcinkus, sul cui operato criminoso si è fatto luce soltanto pochi anni orsono, e i gesuiti Roberto Tucci, direttore della Radio Vaticana, Virgilio Levi, vicedirettore de L’Osservatorio Romano e Giovanni Caprile, firma insigne della Civiltà cattolica.

Che fossero davvero massoni, Luciani certamente non lo sapeva, ma tutto fa pensare che avrebbe voluto andare a fondo della questione.

Era convinto, infatti, che le idee rivoluzionarie che attecchivano tra i gesuiti, soprattutto i giovani, spesso sprezzanti vesrso la Tradizione e la Dottrina, rappresentassero un grosso problema per la Chiesa. Anzitutto per le loro innovazioni in campo dottrinale, così ben esemplificate dall’opera del gesuita Karl Ranher, non certo un amante del catechismo; in secondo luogo per i loro cedimenti in campo morale; infine, per la loro apertura al mondo, massoneria compresa.

Il vaticanista Benny Lay, ne Il mio Vaticano, ricorda spesso come la questione dei gesuiti fosse all’ordine del giorno anche all’epoca di Paolo VI.

Per esempio il 9 marzo 1970 Benny Lay scrive: “La nota con cui radio vaticana ha condannato le dichiarazioni di tre docenti gesuiti della Gregoriana a favore del divorzio è più severa del comunicato della Compagnia di Gesù…”; il 12 ottobre 1973, invece, Lay ricorda “il duro linguaggio, accompagnato da severi moniti, con cui Paolo VI si è rivolto ai gesuiti per la partecipazione della loro assemblea”; il 7 marzo 1974 nota che padre Tucci “ha risposto picche al cardinal Benelli” che gli chiedeva di partecipare ad una serie di conferenze per attivare i parroci romani contro il divorzio; il 27 febbraio del 1975 ricorda che “la maggioranza dell’assemblea dei gesuiti… ha bocciato la candidatura di padre Paolo Dezza, confessore di Montini”, cioè del papa.

Una questione che angustiava Montini, ed ancora di più Luciani (vedi ad esempio 30 Giorni, del 9 settembre 1993) era l’intenso dialogo aperto da alcuni gesuiti, tra cui il citato padre Caprile, con la massoneria. Il vaticanista Ignazio Ingrao, nel suo documentatissimo Il concilio segreto (Piemme, 2013) dedica un paragrafo al tema. Il titolo è: “Una loggia dei gesuiti?

Ingrao ricorda appunto i sospetti su padre Tucci e padre Caprile, finiti anche nelle lista di prelati massoni pubblicata da Panorama, ma soprattutto i fatti certi: “Ciò che è invece storicamente accertato è l’impegno profuso dal gesuita Caprile e dal religioso paolino Esposito nel promuovere incontri bilaterali con i massoni subito dopo il concilio. Dal 1960 al 1979 si svolgono ben nove ‘conversazioni bilaterali’. Per due volte i massimi vertici della massoneria italiana varcano il portone della sede della Civiltà cattolica per incontrarsi con i gesuiti…”.

E’ certo che Luciani non vedeva di buon occhio tali incontri bilaterali, che riceveranno il definitivo stop, dopo la sua morte, grazie a due cardinali tedeschi, Joseph Stimpfle e Joseph Ratzinger.

Fatto sta che nei suoi 33 giorni di pontificato non riuscì a fare chiarezza e pulizia, nè compiere molti atti di governo, nè a scrivere che poche lettere, molto brevi e per lo più di circostanza. L’unica lettera lunga e approfondita è quella rivolta “Ai gesuiti”. Avrebbe dovuto leggerla e consegnararla il 30 settembre 1978, cioè due giorni dopo la morte, in occasione di una speciale udienza ai procuratori della Compagnia di Gesù convenuti a Roma da ogni parte del mondo.

Si tratta di un testo ricco in cui, a parte i saluti di rito, vi sono continui richiami e severi moniti.

Il papa cominciava così: “Ma poichè voi, in questi giorni dovete procedere ad un esame circa lo stato della Compagnia mediante una valutazione sincera, realistica e coraggiosa della situazione oggettiva, analizzando se necessario le deficienze, le lacune, le zone d’ombra, voglio affidare alla vostra responsabile meditazione alcuni punti, che mi stanno particolarmente a cuore”. Deficienze, lacune, zone d’ombra: come inizio, non è dei più lusinghieri. Voi, continuava il papa, “vi preoccupate dei grandi problemi economici e sociali che oggi travagliano l’umanità”, “ma nella soluzione di questi problemi sappiate sempre distinguere i compiti dei sacerdoti religiosi da quelli che sono propri dei laici. I sacerdoti devono ispirare e animare i laici all’adempimento dei loro doveri, ma non devono sostituirsi ad essi, trascurando il proprio compito specifico nell’azione evangelizzatrice”.

In parole povere, il papa richiamava i tanti gesuiti dediti affascinati dalle dottrine marxiste, dediti alla politica, alla sociologia, al sociale, più che a Cristo stesso, per poi radicare questo errore in un fatto: l’allontanamento dalla “solida dottrina”.

Bisogna qui ricordare che il nome scelto da Luciani, Giovanni Paolo I, era anche in onore di san Paolo, colui che aveva scritto, nella II lettera a Timoteo: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero”.

Se nel passo di Paolo la parola “dottrina” ritorna ben due volte, affiancata, in un caso, dall’aggettivo “sana”, nel prosièguo del discorso di Giovanni Paolo I ai gesuiti la sottolineatura è ancora maggiore, l’insistenza quasi imbarazzante. Il papa ripete piùe più volte una parola che molti gesuiti non vogliono più sentire.

Egli infatti ricorda che “Sant’Ignazio esige dai suoi figli una soda dottrina”; raccomanda, tre righe sotto, di essere fedeli ad una “dottrina solida e sicura, pienamente conforme all’insegnamento della Chiesa”; invita poi a “non permettere che insegnamenti e pubblicazioni di gesuiti abbiano a causare confusione e disorientamento in mezzo ai fedeli”, e aggiunge: “ricordatevi che la missione affidatavi dal vicario di Cristo è di annunciare, in maniera bensì adatta alla mentalità di oggi, ma nella sua integrità e purezza, il messaggio cristiano, contenuto nel deposito della rivelazione”.

Il concetto non è abbastanza esplicito e forte? Luciani lo ripete ancora, invitando i gesuiti a formare i giovani con “una dottrina solida e sicura” perchè chi frequenta le loro scuole lo fa “per la sodezza e sicurezza di dottrina che sperano di attingervi”.

Ma non è finita. Il papa continua: “Non lasciate cadere queste lodevoli tradizioni (legate ad una severa disciplina religiosa, ndr); non permettete che tendenze secolarizzatrici abbiano a penetrare e turbare le vostre comunità”, perchè “il doveroso contatto apostolico col mondo non significa assimilazione al mondo, anzi esige quella differenziazione che salvaguardia l’identità dell’apostolo, in modo che veramente sia sale della terra e lievito capace di far fermentare la massa”.

Giovanni Paolo I, come si è detto, morirà prima di pronunciare questo discorso.

Ma un anno dopo, il 21 settembre 1979, Giovanni Paolo II, vedi qui, che avrà sempre un rapporto molto conflittuale con i Gesuiti, forse riecceggiuando il discorso del suo predecessore, ripeterà loro di dare al novizi una “formazione dottrinale con solidi studi filosofici e teologici secondo le direttive della Chiesa, e formazione apostolica indirizzata a quelle forme di apostolato che sono proprie della Compagnia, aperte sì alle nuove esigenze dei tempi, ma fedeli a quei valori tradizionali che hanno perenne efficacia“. Ancora una volta si trovano le due parole tanto invise: dottrina e tradizione.

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