Ratzinger Benedetto XVI: la Liturgia opera di Cristo (1)

La liturgia: opera del Cristo vivente

Teologia della liturgia – questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia e che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non possiamo costruire la nostra via verso Dio. Questa via non è percorribile, eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E una volta per sempre: le vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono delle non-vie.

Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso ci parla e non solo parla: viene con il Suo corpo, la Sua anima, la Sua carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a Lui, per fare di noi “un solo corpo”. Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia cristiana è una liturgia cosmica – abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8, 19).

Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa.
(da La teologia della liturgia, Conferenza tenutasi nel monastero di Fontgombault dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, svoltasi presso l’Abbazia benedettina di “Notre Dame de Fontgombault”, in Francia, 22-24 luglio 2001)

Penso che ciò che avviene nel Battesimo si chiarisca per noi più facilmente, se guardiamo alla parte finale della piccola autobiografia spirituale, che san Paolo ci ha donato nella sua Lettera ai Galati. Essa si conclude con le parole che contengono anche il nucleo di questa biografia: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un “non” e si trova continuamente in questo “non”: Io, ma “non” più io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e che, semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande.

Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Paolo ci spiega la stessa cosa ancora una volta sotto un altro aspetto quando, nel terzo capitolo della Lettera ai Galati, parla della “promessa” dicendo che essa è stata data al singolare – a uno solo: a Cristo. Egli solo porta in sé tutta la “promessa”. Ma che cosa succede allora con noi? Voi siete diventati uno in Cristo, risponde Paolo (Gal 3, 28). Non una cosa sola, ma uno, un unico, un unico soggetto nuovo. Questa liberazione del nostro io dal suo isolamento, questo trovarsi in un nuovo soggetto è un trovarsi nella vastità di Dio e un essere trascinati in una vita che è uscita già ora dal contesto del “muori e divieni”. La grande esplosione della risurrezione ci ha afferrati nel Battesimo per attrarci. Così siamo associati ad una nuova dimensione della vita nella quale, in mezzo alle tribolazioni del nostro tempo, siamo già in qualche modo introdotti. Vivere la propria vita come un continuo entrare in questo spazio aperto: è questo il significato dell’essere battezzato, dell’essere cristiano. È questa la gioia della Veglia pasquale.

La risurrezione non è passata, la risurrezione ci ha raggiunti ed afferrati. Ad essa, cioè al Signore risorto, ci aggrappiamo e sappiamo che Lui ci tiene saldamente anche quando le nostre mani si indeboliscono. Ci aggrappiamo alla sua mano, e così teniamo le mani anche gli uni degli altri, diventiamo un unico soggetto, non soltanto una cosa sola. Io, ma non più io: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo. Io, ma non più io: se viviamo in questo modo, trasformiamo il mondo. È la formula di contrasto con tutte le ideologie della violenza e il programma che s’oppone alla corruzione ed all’aspirazione al potere e al possesso.
(dall’omelia di Benedetto XVI nella Veglia Pasquale nella Notte Santa del 15 aprile 2006)

Cari fratelli… il Giovedì Santo è il giorno in cui il Signore diede ai Dodici il compito sacerdotale di celebrare, nel pane e nel vino, il sacramento del suo corpo e del suo sangue fino al suo ritorno. Al posto dell’agnello pasquale e di tutti i sacrifici dell’Antica Alleanza subentra il dono del suo corpo e del suo sangue, il dono di se stesso. Così il nuovo culto si fonda nel fatto che, prima di tutto, Dio fa un dono a noi, e noi, colmati da questo dono, diventiamo suoi: la creazione torna al Creatore. Così anche il sacerdozio è diventato una cosa nuova: non è più questione di discendenza, ma è un trovarsi nel mistero di Gesù Cristo. Egli è sempre Colui che dona e ci attira in alto verso di sé.

Soltanto Lui può dire: «Questo è il mio corpo – questo è il mio sangue». Il mistero del sacerdozio della Chiesa sta nel fatto che noi, miseri esseri umani, in virtù del sacramento possiamo parlare con il suo io: in persona Christi. Egli vuole esercitare il suo sacerdozio per nostro tramite. Questo mistero commovente, che in ogni celebrazione del sacramento ci tocca di nuovo, noi lo ricordiamo in modo particolare nel Giovedì Santo. Perché il quotidiano non sciupi ciò che è grande e misterioso, abbiamo bisogno di un simile ricordo specifico, abbiamo bisogno del ritorno a quell’ora in cui egli ha posto le sue mani su di noi e ci ha fatti partecipi di questo mistero.
(dall’Omelia di Benedetto XVI per la Messa del Crisma del Giovedì Santo 13 aprile 2006)

Il messaggio del Nuovo Testamento: fine del rito o nascita della liturgia nuova?

Poiché, in effetti, non si possono separare i principi morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto a Israele. L’idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e dall’altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto inseparabili.

Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un’interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele.
La sua apertura della Legge Gesù l’ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L’interpretazione della Legge data da Gesù ha senso solo se è un’interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a spiegare se stesso.
Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell’ Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte al loro significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L’universalizzazione della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell’estrarre alcune prescrizioni morali universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l’unità di culto ed ethos. L’ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell’adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale.
(da Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, pagg.9-26)

Il punto di partenza (dei nuovi problemi sulla natura del sacerdozio) è dato da un’osservazione di carattere lessicale: la futura Chiesa, per denominare i ministeri che in essa si andavano formando, non si servì di un vocabolario sacro, ma attinse a una terminologia profana. Essa non lascia scorgere alcun tipo di continuità tra questi suoi ministeri e il sacerdozio della legge mosaica; inoltre, per lungo tempo questi ministeri restano poco definiti, assai vari nelle designazioni e forme in cui li incontriamo, e solo verso la fine del I secolo si cristallizza una forma ben definita, che peraltro ammette ancora delle oscillazioni.

Soprattutto non è dato individuare un compito cultuale di questi ministeri: in nessun luogo essi vengono posti espressamente in connessione con la celebrazione eucaristica; come loro contenuto appare in primo luogo l’annuncio del vangelo, poi il servizio della carità tra i cristiani e funzioni comunitarie a prevalente carattere pratico. Tutto ciò desta l’impressione che i ministeri fossero considerati non come sacri ma semplicemente come funzionali, e quindi amministrati esclusivamente a fini specifici.

In epoca postconciliare venne del tutto spontaneo ricollegare a queste osservazioni la teoria del cristianesimo come desacralizzazione del mondo, che si rifaceva alla tesi di Barth e Bonhoeffer sull’opposizione tra fede e religione e quindi sul carattere areligioso del cristianesimo. La lettera agli Ebrei sottolinea con forza che Gesù soffrì fuori delle porte della città esortandoci ad andare verso di lui (Eb 13,12-13). Questa circostanza divenne un simbolo: la croce ha squarciato il velo del tempio, il nuovo altare si erge in mezzo al mondo; il nuovo sacrificio non è un fatto cultuale, bensì una morte totalmente profana. La croce appare così come un’interpretazione nuova e rivoluzionaria di ciò che unicamente può ancora considerarsi culto: solo l’amore quotidiano in mezzo alla profanità del mondo è, secondo questa teoria, la liturgia rispondente a questa origine.

Queste argomentazioni, risultanti dalla fusione della moderna teologia protestante con talune osservazioni esegetiche, a un esame più attento si rivelano come l’esito delle scelte ermeneutiche fondamentali fatte nella Riforma del XVI secolo. Il punto centrale di tali scelte era una lettura della Bibbia basata sulla contrapposizione dialettica di legge e promessa, sacerdote e profeta, culto e promessa. Le categorie reciprocamente correlate di legge-sacerdote-culto furono considerate come l’aspetto negativo della storia della salvezza: la legge porterebbe l’uomo all’autogiustificazione; il culto risulterebbe dall’errore che, ponendo l’uomo in una sorta di rapporto di parità con Dio, gli consentirebbe di stabilire, mediante la corresponsione di determinate offerte, un rapporto giuridico tra sé e Dio; il sacerdozio è allora per così dire l’espressione istituzionale e lo strumento stabile di questo scambievole rapporto con la Divinità.

L’essenza del vangelo, come apparirebbe in modo assai chiaro soprattutto nelle grandi lettere di san Paolo, sarebbe perciò il superamento di questo apparato di distruttiva autogiustificazione dell’uomo: il nuovo rapporto con Dio poggia totalmente su promessa e grazia; esso si esprime nella figura del profeta, che di conseguenza viene costruita in stretta opposizione a culto e sacerdozio. Il cattolicesimo appariva a Lutero come la sacrilega restaurazione di culto, sacrificio, sacerdozio e legge e dunque come la negazione della grazia, come il distacco dal vangelo, come un regresso da Cristo a Mosè

Il paradosso della missione di Gesù trova probabilmente la sua espressione più chiara nella formula giovannea interpretata in maniera così profonda da Agostino: “Mea doctrina non est mea…” (7,16). Gesù non ha nulla di proprio per sé, oltre al Padre. Nella sua dottrina è egli stesso in gioco, e perciò dice che perfino ciò che ha di più proprio – il suo io – non gli appartiene affatto. Il suo è il non-suo; non c’è nulla oltre il Padre, tutto è interamente da lui e per lui.

Il parallelismo tra la forma di missione di Gesù e quella degli apostoli viene poi sviluppato in modo particolarmente chiaro nel quarto vangelo: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (13,20; 17,18; 21,21). La portata di questa affermazione diviene evidente solo se richiamiamo alla mente quello che poc’anzi abbiamo detto sulla struttura della missione di Gesù, vale a dire sul fatto che tutta la sua missione è relazione. Di qui comprendiamo l’importanza del seguente parallelismo:
“Il Figlio da sé non può fare nulla” (Gv 5,19.30);
“Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Questo “nulla” che i discepoli condividono con Gesù esprime in pari tempo forza e debolezza del ministero apostolico. Da sé, con le sole forze della ragione, della conoscenza e della volontà essi non possono fare nulla di ciò che in quanto apostoli sono tenuti a fare. Come potrebbero dire: “Ti rimetto i tuoi peccati”? Come potrebbero dire: “Questo è il mio corpo”? Come potrebbero imporre le mani e dire: “Ricevi lo Spirito Santo”? Nulla di quanto è costitutivo dell’azione apostolica è prodotto della capacità personale. Ma proprio in questa totale assenza di proprietà è fondata la loro comunione con Gesù, il quale, a sua volta, è interamente dal Padre, solo per lui e in lui, e non sussisterebbe affatto, se non fosse un permanente derivare e riconsegnarsi al Padre. Il “nulla” per quanto attiene al proprio li coinvolge nella comunione di missione con Cristo.

Questo servizio nel quale noi siamo interamente dati all’altro, questo dare ciò che non proviene da noi, nel linguaggio della Chiesa si chiama sacramento. Quando definiamo l’ordinazione sacerdotale un sacramento intendiamo precisamente questo: qui non vengono ostentate le proprie forze e capacità; qui non viene insediato un funzionario particolarmente abile, che trova l’impiego di suo gusto o semplicemente perché ci può guadagnare il pane; non si tratta di un lavoro con il quale, grazie alle proprie competenze, ci si assicura il sostentamento, per poi progredire nella carriera. Sacramento vuol dire: io do ciò che io stesso non posso dare; faccio qualcosa che non dipende da me; sono in una missione e sono divenuto portatore di ciò che l’altro mi ha trasmesso. Perciò nessuno può dichiararsi prete da sé; così come nessuna comunità può chiamare qualcuno di sua propria iniziativa a questo compito. Solo dal sacramento si può ricevere ciò che è di Dio, entrando nella missione che mi fa messaggero e strumento dell’altro.

Questo legame al Signore, per cui a un uomo è dato di fare ciò che non lui stesso, ma solo il Signore può fare, equivale alla struttura sacramentale. In questo senso la qualificazione sacramentale del nuovo stile di missione derivante da Cristo risale fino al nucleo centrale del messaggio biblico, vi appartiene. Al tempo stesso è divenuto evidente che qui si tratta di un ufficio totalmente nuovo, che non può essere derivato dall’Antico Testamento, ma è spiegabile unicamente sul piano cristologico. Il ministero sacramentale della Chiesa non fa che esprimere la novità di Gesù Cristo e mantenerla attuale nel corso della storia.

Il ministero dei presbiteri e dei vescovi è, secondo la sua natura spirituale, identico a quello degli apostoli. Questa identificazione, con la quale viene formulato il principio della successione apostolica, Luca l’ha precisata ulteriormente con un’altra scelta terminologica: limitando la nozione di apostolo ai Dodici, egli distingue l’unicità dell’origine dalla continuità della successione. In questo senso, il ministero dei presbiteri e dei vescovi è qualcosa di diverso dall’apostolato dei Dodici. I presbiteri-vescovi sono successori ma non apostoli essi stessi. Alla struttura della Rivelazione e della Chiesa appartiene così il “semel” e il “semper”. La potestà, fondata cristologicamente, di conciliare, di pascere, di insegnare prosegue immutata nei successori, ma questi sono successori in senso corretto solo quando “sono assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli” (At 2,42).

Dice Jean Colson: “La funzione dei “Kohanim” (ιερεις) è essenzialmente quella di mantenere il popolo consapevole del suo carattere sacerdotale e far sì che esso viva come tale per glorificare Dio con tutta la sua esistenza”. Non si può non riconoscere la somiglianza con la formulazione paolina… a proposito del compito dell’apostolo come ministro di Gesù Cristo; solo che ora, a seguito della rottura dei confini d’Israele compiuta sulla croce di Cristo, il carattere missionario e dinamico di questa missione emerge molto più chiaramente: lo scopo ultimo di tutta la liturgia neotestamentaria e di tutti i ministeri sacerdotali è di fare del mondo il tempio e l’oblazione per Dio, vale a dire di far sì che il mondo intero entri a far parte del corpo di Cristo affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28).
(da Joseph Ratzinger, Natura del sacerdozio, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.75-93)

  • continua….