J.Ratzinger-Benedetto XVI Riflessioni sulla creazione e il peccato – ultima parte (5)

In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato  (*)

– Conseguenze della Fede nella Creazione

Lectio Magistralis tenuta il 14 marzo 1979 in occasione della festività di San Tommaso d’Aquino presso la Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Salisburgo.

Chesterton, cui tanto spesso sono riuscite delle formulazioni indovinate, ha colto un aspetto d’importanza decisiva nell’opera di san Tommaso d’Aquino quando ha osservato che se al grande dottore si dovesse apporre un nome nel modo in cui si è solito fare nell’ordine dei carmelitani (del Bambin Gesù… della Madre di Dio…), bisognerebbe chiamarlo «Thomas a Creatore»(1)

Il Creatore e la creazione sono il nucleo del suo pensiero teologico; e qualcosa depone in favore della tesi che solo con l’approfondimento intellettuale completo della fede nella creazione l’approfondimento cristiano dell’eredità antica sia giunto al suo traguardo. In una celebrazione di Tommaso viene perciò spontaneo pensare al tema della creazione. Guardando le cose dal punto di vista della nostra odierna situazione teologica, dobbiamo dire che fino a non molto tempo fa tale tema era piuttosto lontano dal pensiero, così come lontani erano finiti Tommaso e la sua teologia.

In effetti nella discussione teologica degli ultimi anni, anzi degli ultimi decenni, il tema della creazione ha svolto solo un piccolo ruolo (2). Sembrava un tema privo di un interesse antropologico concreto; al massimo se ne parlava in un paragrafo a parte, sotto forma della questione della conciliabilità della creazione con l’evoluzione, questione che per sua intrinseca natura sfocia nella questione dell’uomo: esiste una specificità dell’uomo spiegabile in ultima analisi solo teologicamente oppure, a pensarci bene, l’uomo va riassorbito nel campo delle scienze naturali?

Ma anche questa domanda rimase ai margini, perché sembrava troppo poco pratica e perché anche la teologia cercava la sua verità sempre più nella prassi. Cioè non nel problema, a quanto pare insolubile: Che cosa siamo noi?, bensì nel problema più pressante: Che cosa possiamo fare?

Soltanto negli ultimissimi anni la dottrina della creazione ha acquisito una inattesa attualità. La concentrazione dell’uomo sul fare, sulla produzione di un mondo nuovo, tutto suo e ora finalmente migliore, ha fatto diventare sempre più chiaramente percepibile la «resistenza» della creazione: la creazione di Dio, la «natura», si mette sulla difensiva contro l’illimitata creatività dell’uomo che vuole concepire il mondo esistente soltanto più come materia del suo operare. E all’improvviso la creazione prodotta dalle mani dell’uomo non appare più semplicemente come la sua – forse unica – speranza, bensì al contrario come la minaccia che incombe su di lui, come la minaccia mediante cui egli taglia il ramo su cui siede, mentre la creazione esistente appare come il rifugio a cui egli guarda come in retrospettiva e che cerca di nuovo.

Con una inversione radicale di marcia la dottrina cristiana della creazione è adesso vista come la causa del saccheggio del mondo.

Anche la creazione, finora un tema della ragione teoretica, un «tema» per così dire puramente «oggettivistico», diventa pratica e non può più essere accantonata (3). La redenzione non può avvenire senza la creazione e contro la creazione; anzi, viene da domandarsi se alla fine la creazione non sia l’unica vera redenzione.

Comincia a diventare chiaro che non è possibile risolvere nel modo giusto la questione della direzione verso cui dobbiamo andare se ignoriamo la questione del luogo da cui veniamo; che rispondiamo in maniera sbagliata e deleteria alla domanda «che cosa dobbiamo fare?» se ci risparmiamo la domanda «chi siamo?» – che quindi non è possibile separare la questione dell’essere da quella della nostra speranza.

E così con la riscoperta e con la riproposizione della dottrina della creazione, si apre un vasto campo di questioni e di compiti, che in questa sede è possibile solo cominciare ad affrontare: tenterò di proporre soltanto alcune considerazioni frammentarie e ne individuerò a grandi linee l’intima connessione; indicherò un compito più che offrire delle soluzioni o, addirittura, una sintesi compiuta. Se vogliamo fare di nuovo positivamente nostri il contenuto fondamentale e gli insegnamenti della fede nella creazione, dobbiamo prima por fine all’oscuramento, di cui abbiamo allusivamente parlato nella diagnosi della nostra situazione teologica.

_09-dio-creo-cielo-e-terra-ratzinger-12La rimozione della fede nella creazione nel pensiero moderno

L’oscuramento della fede nella creazione, che alla fine ha portato alla sua quasi totale scomparsa, è strettamente collegato con lo spirito dell’evo moderno, anzi è una parte fondamentale di quel che costituisce culturalmente il nostro tempo. Possiamo dire che le fondamenta del moderno costituiscono le fondamentali ragioni della scomparsa della «creazione» dal pensiero determinante lo sviluppo. In questo senso il nostro tema ci introduce nel bel mezzo del dramma che sta vivendo il nostro tempo, nella sua crisi, che è crisi delle coscienze.

Il passaggio dal medioevo a una nuova stagione culturale si presenta nei secoli XV-XVI in una triplice veste ed è, in forme di volta in volta diverse, un allontanamento dalla fede nella creazione. In primo luogo dobbiamo menzionare la nuova filosofia di Giordano Bruno. A prima vista può sembrare strano ascrivergli un oscuramento della fede nella creazione visto che egli riscopre in maniera enfatica il cosmo e la sua divinità. Ma proprio in questo ritorno al cosmo divino è radicalmente revocata la fede nella creazione. Il rinascimento avviene qui molto chiaramente sotto forma di revoca del cristianesimo e di riaffermazione della grecità nella sua purezza pagana. Questo significa che il mondo appare come una pienezza divina riposante in sé stessa. Invece per Bruno la creazione esprime la dipendenza del mondo da un posto al di fuori del mondo. L’idea cristiana della dipendenza del mondo da un altro appare a Bruno come uno spodestamento del mondo: contro ciò il mondo va difeso. Il mondo è ciò che si fonda su sé stesso, come lo stesso divino: la contingenza delle singole cose è indiscutibile, ma non si accetta la contingenza del mondo nel suo complesso (4).

In fondo questo è solo un preludio estetizzante di una opzione che diverrà sempre più netta nella coscienza dell’evo moderno: l’idea della dipendenza, insita nella fede nella creazione, diventa inaccettabile. Essa appare come il vero limite della libertà umana, limite che fonda tutte le altre limitazioni e che va perciò assolutamente eliminato, se l’uomo deve essere effettivamente liberato.

In Galileo il ritorno alla civiltà greca non si presenta nella sua variante estetica ed emancipatrice, bensì nell’interessamento per il lato matematico del sistema platonico: Dio fa geometria, questa è contemporaneamente la sua formulazione del concetto di Dio, del concetto di natura e dell’ideale di scienza. Dio ha scritto il libro della natura con segni matematici; fare geometria significa ripercorrere le orme di Dio. Ma questo significa anche che la conoscenza di Dio è trasformata nella conoscenza delle strutture matematiche della natura; il concetto di natura, nel senso di oggetto delle scienze naturali, prende il posto del concetto di creazione (5). Tutta la conoscenza rientra nello schema soggetto-oggetto. Ciò che non è oggettivo è soggettivo. E oggettivo è solamente ciò che è oggetto nel senso delle scienze naturali, vale a dire ciò che può essere presentato, verificato e calcolato oggettivamente; il soggettivo è il facoltativo, il privato, ciò che sta al di fuori della scientificità e che, in quanto facoltativo, non merita di essere conosciuto. Dio fa geometria: sotto il dominio di questo assioma, Dio non può che diventare «platonico», cioè egli stesso si riduce alle strutture matematiche formali che le scienze naturali riscontrano nella natura.

Naturalmente, in un primo momento, fintanto che il metodo non ha raggiunto la sua perfezione e fin tanto che l’ambito delle conoscenze è limitato, l’idea della creazione continua a sussistere, sotto forma di postulato di una causa prima. In questo senso possiamo essere tentati di dire che proprio il concetto di creazione è stato per così dire l’elemento più stabile della fede, perché il postulato della causa rappresentava la forma in cui un concetto di Dio, un’idea di Dio «divenuta razionale», riusciva a essere ancora in vigore.

Ma qui si manifesta ora una reciprocità fondamentale degli elementi della fede cristiana: una semplice «causa prima», che è diventata efficace in maniera puramente naturale e che non si è mai mostrata all’uomo, che lascia l’uomo completamente al di fuori della propria sfera di azione e che lo affida – deve necessariamente affidare – soltanto a sé stesso, non è più Dio, bensì un’ipotesi-limite delle scienze naturali.

A sua volta neppure un Dio che non ha nulla a che fare con la razionalità della creazione, ma conta solo nello spazio interiore della religiosità, è più Dio, bensì diventa irreale e in fondo insignificante. Solo lì, dove creazione e alleanza si fondono, si parla veramente di creazione e di alleanza: le due si condizionano a vicenda. La semplice causa prima non esprime infatti neppure l’idea di creazione perché è tale sul piano dell’idea di causalità propria delle scienze naturali, e una causa del genere non è Dio, bensì appunto una «causa», un soggetto dell’azione ipoteticamente postulato nell’ordine di grandezza di ciò che è postularle sul piano delle scienze naturali.

Invece l’idea di creazione si colloca su un altro piano: la realtà nel suo complesso è un interrogativo che rimanda al di là di sé e comprendere l’idea di creazione significa mettere in luce il limite dello schema soggetto-oggetto, il limite del pensiero «esatto», e scoprire che solo abbattendo tale limite si coglie l’«humanum», la specificità dell’uomo e della realtà: il fatto di non superare questo limite equivale, con la negazione di Dio, a negare contemporaneamente l’uomo, con tutte le conseguenze del caso.

Questa è la domanda concreta, vera, quella in gioco: esiste propriamente l’uomo? Oppure ostacola la «Science» perché non è oggettivabile in maniera precisa? – e questo è in senso proprio il suo scandalo. Di lui in fondo si tratta o, piuttosto, perché si tratti di lui occorre che si continui a trattare di Dio (6).

In una terza e del tutto diversa forma di allontanamento dall’idea di creazione incontriamo Martin Lutero. Mentre Bruno e Galileo rappresentano l’appassionato ritorno, al di là della sintesi tra cristianesimo e grecità, alla pura grecità, quindi l’interessamento per il mondo precristiano, greco e pagano e, sulla base di tale mondo, la fondazione del mondo razionale postcristiano, per Lutero la grecità è il pervertimento del cristianesimo che egli vuole eliminare, per mettere in luce il cristianesimo puro mondato della grecità (7). Egli vede questa grecità presente nel cristianesimo, e da eliminare, essenzialmente nell’idea di cosmo, nella questione dell’essere e quindi nel campo della dottrina della creazione. Il cosmo o, meglio, l’essere in quanto tale è per lui espressione di ciò che è proprio dell’uomo, della sua realtà vecchia, che costituisce il suo vincolo, la sua catena: legalismo, che significa nello stesso tempo la sua dannazione. La redenzione può consistere soltanto nella liberazione da questo vincolo della realtà vecchia, dal vincolo dell’essere; la redenzione libera dalla maledizione della creazione esistente, che è sentita come il fardello di ciò che è proprio dell’uomo.

Avvaloro questa idea con l’aiuto di un unico testo, peraltro molto significativo: «L’uomo è infatti uomo finché non diventa Dio, il solo che è verace. Partecipando a Dio anche lui diventa tale. Tale partecipazione avviene allorché egli aderisce a Dio con una fede reale e con la speranza. Mediante questo uscire da sé stesso egli ritorna nel nulla. Dove finisce infatti colui che spera in Dio se non nel proprio nulla? E chi finisce nel nulla, dove finisce se non là da dove proviene? Ora però l’uomo proviene da Dio e dal proprio nulla; pertanto chi ritorna nel nulla ritorna a Dio» (8).

La grazia è qui vista come radicalmente contrapposta alla creazione segnata in tutto e per tutto dal peccato: essa presuppone la regressione al di là della creazione.

Dietro queste parole percepiamo una determinata esperienza della creazione quale quella espressa nel libro di preghiere della duchessa Dorotea di Prussia, scritto influenzato dal luteranesimo. Ivi il contenuto del Salmo 6 è trasposto nel grido: «Preferirei che non esistessi, piuttosto che continuare ad essere tormentato da te» (9).

Tale grido è anzitutto completamente contrario all’esperienza del cosmo tipica del rinascimento. Ma per l’evo moderno diventa sempre più tipico proprio il dualismo tra la geometria divina, da un lato, e un mondo che è profondamente corrotto, dall’altro lato. Il mondo senza il mistero dell’amore redentore, che è simultaneamente amore creatore, è necessariamente dualistico: esso è, come natura, geometria, come storia, dramma del male (10).

Il tentativo globale di conciliare questa antinomia e di arrivare così alla filosofia definitiva fu fatto da Hegel. Il sistema hegeliano è in fondo «una gigantesca teodicea» (11). Dio non deve essere concepito come l’onnipotenza eternamente riposante in sé stessa, di fronte alla quale sta un mondo cattivo di cui essa porta la responsabilità. Piuttosto Dio è nel processo della ragione, che può divenire solo nell’altro e che perciò esce da sé per poi tornare, così e soltanto così, completamente a sé stessa. Tutto l’universo, tutta la storia, è questo processo della ragione, nel quale i singoli momenti in sé privi di senso o «cattivi» acquistano il loro senso come parti del tutto: il Venerdì santo storico diventa l’espressione del Venerdì santo speculativo, della necessità di risorgere completamente a sé stessi passando attraverso il fallimento.

In questo modo si risolve il problema della teodicea: al posto del concetto di «peccato» subentra la «conoscenza» che il male è necessariamente legato alla finitezza e che «quindi» esso è «irreale dal punto di vista dell’infinito»; la sofferenza è allora dolore per la limitatezza, e la sua eliminazione avviene attraverso l’assunzione nel tutto (12).

In Hegel questa posizione rimane ancora in larga misura teoretica, «idealistica» (anche se la sua filosofia non manca certo di una finalità politica). Diventa invece un’istruzione per l’uso solo con Marx, per il quale la redenzione è costruita rigorosamente come prassi dell’uomo e come rinuncia alla creazione, anzi come contrapposizione alla fede nella creazione.

Non è possibile in questa sede entrare nei dettagli. Mi limito a menzionare due punti di vista:

  1. La risoluzione del singolo nel tutto, la sua realizzazione e la sostituzione del «peccato» con la «provvidenza» chiamano ora in concreto: non il singolo conta, ma la specie. E lo strumento della storia è il partito come forma organizzata della classe. Significativa in questo senso è una frase di Ernst Bloch: il materialista «muore come se tutta l’eternità fosse sua. Cioè già prima aveva smesso di dare tanta importanza al proprio io; egli aveva la coscienza di classe» (13). La coscienza personale si risolve nella coscienza di classe, nella quale non contano più le sofferenze individuali bensì solo più la logica del sistema, il futuro, nel quale l’uomo è redento dalla creazione mediante la sua propria creazione, mediante il lavoro (14).
  2. La creazione è definita come dipendenza, come origine «ab alio». Al suo posto subentra la categoria dell’autocreazione, che avviene mediante il lavoro (15). La creazione è dipendenza, la dipendenza contraddice la libertà, per cui la creazione contraddice l’orientamento fondamentale del pensiero di Marx ed è ad esso radicalmente opposta. Marx non può contestare che è molto difficile sradicare logicamente l’idea dell’origine «ab alio». Essa non può essere eliminata direttamente bensì soltanto partendo dal complesso del sistema. Il fatto che l’uomo si ponga questa questione è già espressione della sua situazione malsana: «Rinuncia alla tua astrazione e così rinuncerai anche alla tua domanda». «Non pensare, non farmi domande.» (16)

Proprio a questo punto la logica del sistema marxista crolla: la creazione è ciò che propriamente la contraddice ed è nello stesso tempo il punto di partenza nel quale questa redenzione si manifesta come dannazione, come posizione contraria alla verità. L’opzione decisiva, che sta alla base di tutto il pensiero di Marx, è in ultima analisi la protesta contro la dipendenza espressa dalla creazione: l’odio per la vita così come noi la conosciamo, questo atteggiamento fondamentale, è ciò che alimenta nella maniera più forte il pensiero marxista e la prassi marxista.

_09-dio-creo-cielo-e-terra-ratzinger-10Tre modi di occultare il concetto di creazione nel pensiero contemporaneo

Dopo tutto quello che abbiamo detto il concetto di creazione si presenta come il punto di incrocio decisivo della riflessione culturale; chi però oggi cercasse di tirarlo in ballo, constaterà che esso è occultato dalle più diverse parti e che può entrare in azione solo se si smaschera questo suo occultamento.

a) Il concetto di creazione è occultato anzitutto dal concetto di «natura» proprio delle scienze naturali, per cui «natura» è esclusivamente nel senso di oggetto (di tali scienze) e ogni altro senso di questo termine è un non senso. Perciò l’argomentazione teologica poggiante sull’idea di creazione e basata sul «diritto naturale», basata sulla «natura» dell’uomo, gira a vuoto, anzi appare come priva di senso, come relitto di una «scienza» arcaica della natura: la struttura fisico-chimica dell’uomo non fa alcuna affermazione nel senso della teologia morale tradizionale né sul piano dell’etica, al massimo ne fa riguardo ai limiti del fattibile, per cui da questo punto di vista ciò che è morale è identico a ciò che è fattibile. Come surrogato si presenta quindi il concetto di natura del behaviorismo, contro cui però Adolf Portmann ha giustamente obiettato che questo tipo di naturalezza dell’uomo proprio non esiste. Egli parla dell’«artificiosità naturale» delle forme sociali e culturali umane: tipico dei modi della vita sociale umana, «dal linguaggio alla formazione dello stato, dall’ordinamento del rapporto tra i sessi all’allevamento della prole», sarebbe il fatto che essi «appartengono» tutti «quanti al campo della decisione» (17). E naturalmente, se l’alternativa a una naturalezza intesa nel senso del behaviorismo si chiama artificiosità e se la decisione è indispensabile, si ripropone la questione del punto da cui la decisione desume i suoi criteri oppure la questione se ad esempio l’uomo non sia «condannato», nel senso di Sartre, a una libertà senza forme, nella quale egli è destinato a trovarsi: questa caduta nel nulla è inevitabile, se tra la natura e l’artificiosità non diventa conoscibile il centro metafisico della creazione.

b) La reazione del risentimento antitecnico, che fa già capolino in Rousseau, sì è nel frattempo trasformata nel risentimento contro l’uomo, inteso quale malattia della natura: questo essere, che si discosta dall’oggettività esatta e dall’ovvietà della natura, è il vero elemento di disturbo del bell’equilibrio della natura. L’uomo è malato di spirito e della sua conseguenza, è malato di libertà. Lo spirito e la libertà sono le malattie della natura: l’uomo, il mondo, dovrebbero esserne privati per essere redenti – l’uomo dovrebbe essere guarito dalla sua stessa umanità per rientrare nell’equilibrio della natura. Lévi-Strauss è andato in questa direzione partendo dall’etnologia, Skinner partendo dalla psicologia (18); ambedue sono, sul piano della scienza, espressione di uno stato d’animo che va sempre più diffondendosi e che diventa, nelle molteplici forme del nichilismo, una tentazione sempre più grande per la gioventù occidentale.

c) Esiste però anche un occultamento teologico del concetto di creazione, occultamento che ha probabilmente negli altri due la propria causa: lo troviamo lì dove la natura è diffamata per amore della grazia, è privata della sua specificità ed è per così dire revocata di fronte alla grazia. In merito bisognerebbe richiamare con decisione alla mente la proposizione della Prima Lettera ai Corinzi (15,46): prima non viene l’elemento pneumatico, prima viene l’elemento psichico, e solo dopo quello Esiste una successione dei passi, che non va assorbita in un monismo della grazia. Penso che al riguardo bisognerebbe sviluppare una pedagogia cristiana che accetta la creazione, una pedagogia che sia espressione concreta dei due poli dell’unica fede.

Non possiamo voler fare il secondo passo senza aver fatto antecedentemente il primo: prima viene l’elemento psichico, poi l’elemento pneumatico – dove si salta a piè pari questa successione, lì si nega la creazione e si sottrae quindi alla grazia il suo fondamento (19). Un altruismo che voglia eliminare il proprio io degenera in una assenza di io e diventa così una assenza di tu. In quanto diffamazione della creazione esso non può mai diventare un veicolo della grazia, bensì solo dell’«odium generis umani», della profonda avversione gnostica nei confronti della creazione, che alla fine non vuole e non può più volere nemmeno la grazia (20). Il concetto cristiano di amore, che costituisce il vero centro del cristianesimo e la sua vera arma contro lo gnosticismo, viene trasformato in continuazione, nella pedagogia cristiana e anche in teorie esaltate dal cristianesimo, nella porta di ingresso della negazione della creazione e di conseguenza nel suo opposto vero e proprio: invece l’amore cristiano deve contenere in sé, nella sua qualità di fede nel creatore, contemporaneamente l’accettazione di me stesso come creazione e l’amore per la creazione del Creatore, conducendomi alla libertà di accettare me stesso così come qualsiasi altro membro del corpo di Cristo…

La stessa cosa vale per la penitenza: essa è un veicolo del sì ma è falsamente trasformata nel suo opposto, allorché diventa odio della propria realtà.

_09-dio-creo-cielo-e-terra-ratzinger-11La fede nella creazione come decisione antropologica fondamentale

Dopo quanto abbiamo scritto possiamo definire gli elementi decisivi e distintivi delle due opzioni fondamentali che qui si fronteggiano. Nonostante tutti i cambiamenti che rendono così impenetrabile il panorama culturale attuale, mi sembra infatti che in discussione ci siano in fondo soltanto due modelli fondamentali, uno dei quali lo chiamerei il modello gnostico e l’altro il modello cristiano. Quale nucleo comune della gnosi attuale, in tutte le sue concrete rappresentazioni, considero qui la rinuncia alla creazione.

Questo nucleo fa sentire ancora antropologicamente i suoi effetti, in termini comuni nei diversi modelli gnostici, nel fatto di rifiutare il mistero della sofferenza, della rappresentanza vicaria, dell’amore, in favore di un dominio del mondo e della vita per mezzo della conoscenza. L’amore appare per così dire come troppo insicuro perché si possa fondare su di esso la vita e il mondo: così si dipenderebbe infatti dal non calcolabile e dal non esigibile, da ciò che uno non può fare da solo, ma che può appunto solo attendere e ricevere. E la cosa attesa potrebbe non arrivare. Essa mi rende dipendente, appare come un fattore di rischio e di insicurezza, di cui non posso disporre. Posso essere ingannato, sono del tutto impotente di fronte a un’evenienza del genere. Così la bella promessa dell’amore diventa il sentimento insopportabile della dipendenza, dell’abbandono in balia di altri.

Tale sentimento va eliminato: non si può a priori puntare su di esso, bensì bisogna puntare su ciò di cui si può disporre, sul sapere, che dà potere sul mondo e che, nella sua qualità di sistema controllabile, è sottratto all’imprevedibilità. Nell’immagine gnostica del mondo, antica o moderna, la creazione appare come dipendenza, Dio come il fondamento della dipendenza. Questa è addirittura l’essenza di Dio, la sua definizione e il motivo per cui la gnosi non può essere neutrale nei suoi confronti, bensì deve essere combattivamente antiteistica. L’opzione gnostica mira perciò al sapere e al fare mediante il sapere quale unica redenzione affidabile per l’uomo, redenzione che non confida perciò nel mondo creato bensì nel mondo da creare, che non ha più bisogno di fiducia ma solo di capacità.

L’opzione cristiana è esattamente l’opposto: l’uomo è dipendente e può contestare di esserlo solo nella forma della menzogna «entitativa». Questo è il punto: bisogna insistere sul carattere a-razionale, anzi antirazionale, del razionalismo marxista. Per l’uomo socialista, così dice Marx, la questione dell’origine è «diventata praticamente impossibile». Essa decade per Marx al livello della semplice curiosità: non c’è bisogno di conoscere l’origine per essere presso di sé – e che il mondo sia stato fatto da Dio o dal caso non importa nulla e non incide in alcun modo sullo svolgimento della nostra vita (21).

No, al riguardo bisogna dire: essa incide, e Marx non si sarebbe tanto preoccupato di accantonarla se le cose stessero diversamente. Bisogna puntare con insistenza il dito sul fatto che qui il suo pensiero conduce al divieto di domandare; anzi, alla eliminazione delle vecchie questioni fondamentali per mezzo del rinvio al loro presunto carattere di questioni sociologicamente condizionate sta la leva metodica di tutto il suo pensiero, che stabilisce autocraticamente i confini della razionalità. Mentre si distinguono, in base al modello di sistema autocraticamente stabilito, le domande lecite da quelle illecite, si realizza la tutela dogmatica del pensiero per mezzo del sistema, tutela a cui corrisponde il sequestro fisico dell’uomo da parte del sistema (partito).

Ma torniamo al nostro punto: l’uomo è dipendente. Egli non può fare altro che vivere di altri e vivere di una fiducia. La dipendenza non ha nulla di degradante se essa ha la forma dell’amore, perché allora essa non è più dipendenza, non è più diminuzione del proprio a motivo della concorrenza dell’altro, bensì costituisce il proprio come proprio e lo libera, perché l’amore ha essenzialmente questa forma: «Io voglio che tu esista». Esso è il «creativum», la potenza unicamente creatrice che può produrre l’altro come altro, senza invidia, senza paura di perdere ciò che è proprio (22).

L’uomo è dipendente – questa è la sua verità primaria. Stando così le cose, solo l’amore lo può redimere, perché solo esso trasforma la dipendenza in libertà. L’uomo può perciò solo distruggere la propria redenzione, distruggere sé stesso, se «per motivi di sicurezza» accantona l’amore. Ma il Dio crocifisso è per lui la certezza visibile del fatto che già la creazione è espressione di un amore: noi esistiamo a motivo di un amore (23).

Della fede cristiana fa perciò costitutivamente parte il fatto di accettare il mistero come centro della realtà, di accettare l’amore, la creazione come amore, e di vivere di conseguenza.

Alle alternative del pensiero così descritte corrispondono due atteggiamenti di fondo alternativi della vita: l’atteggiamento cristiano fondamentale è un atteggiamento fatto di umiltà «entitativa», non morale – accettare l’essere come una cosa ricevuta, accettare sé stesso come creato e come dipendente dall’«amore». A questa umiltà cristiana del riconoscimento dell’essere si contrappone l’«umiltà» tanto singolarmente diversa del disprezzo dell’essere: di per sé l’uomo è infatti un bel nulla, una scimmia senza peli, un topo particolarmente aggressivo, ma forse potremmo ancora fare di lui qualcosa…

Invece nella dottrina cristiana della redenzione è irrinunciabilmente contenuta anche la dottrina della creazione, essa anzi poggia sulla dottrina della creazione, sul sì non revocato alla creazione. L’alternativa fondamentale stabilita dall’evo moderno tra amore e uomo risulta così identica all’alternativa tra fiducia nell’essere e scetticismo nei confronti dell’essere (dimenticanza dell’essere, rinuncia all’essere), scetticismo che si presenta come fede nel progresso, come principio-speranza, come principio-lotta di classe, in breve come creatività contro «creatio», come produzione del mondo contro essere della creazione.

Nel momento in cui il contenuto di questa alternativa è chiaro, diventa visibile il vicolo cieco in cui si è cacciato un pensiero che si pone contro la creazione: la «creatività» può lavorare solo e sempre con il «creatum» della creazione esistente. Solo se l’essere della creazione è buono, e la fiducia nell’essere ha di conseguenza in linea di principio ragione di esistere, l’uomo è redimibile.

Solo se il Redentore è anche Creatore può essere redentore. Perciò decisiva per la questione del nostro fare è la questione del fondamento del nostro essere: possiamo guadagnare il futuro solo se non perdiamo la creazione.

Grazie.

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(*) tratto da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI – In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato –  Lindau, Torino 2006

Note a: Conseguenze della fede nella creazione

1 Cfr. J. Pieper, Einleitung zu: Thomas von Aquin, Sentenzen iiber Gott und die Welt, Trier 1987, p. 33; cfr. l’ampia trattazione di M. J. Mar-mami, Praeambula ad gratiam. Ideengeschichtliche Untersuchung iiber Entstehung des Axioms «gratia praesupponit naturarti», tesi di laurea, Regensburg 1974, p. 205 sgg e p. 286 sgg.

2 Alcuni importanti lavori avevano ovviamente messo in luce l’urgenza del tema della creazione già qualche tempo fa; ad es. H. Volk, Kreaturlichkeit, in MThZ 2 (1951), pp. 197-210. Per un’ulteriore bibliografia rimando alla voce «Creazione», in H. Reinelt, L. Scheffczyk, H. Volk (a cura di), Dizionario teologico, vol. I, Queriniana, Brescia 1966, pp. 352-379, nonché alla esposizione siste-matica della dottrina della creazione contenuta in J. Auer, Die Welt – Gottes Schópfung, Regensburg 1975.

3) Cfr. G. Altner et al., Sind wir noch zu retten? Schòpfungsglaube und Verantwortung fiir unsere Erde, Regensburg 1978 (soprattutto i con-tributi di K. Lehmann e N. Lohfink).

4) Cfr. R. Buttiglione, A. Scola, Considerazioni sulla problematica della creazione all’interno del pensiero moderno, «Communio», n. 5, 1976, pp. 75-93.

5) Cfr. H. Staudinger, W. Behler, Chance und Risiko der Gegenwart, Paderborn 19782, p. 56 sgg.

6) Cfr. A. Gòrres, Kennt die Psychologie den Menschen?, Mùnchen 1986, pp. 17-47.

7)L’epoca moderna poggia pertanto, anzitutto ed essenzialmente, su una ri-ellenizzazione; il suo polo opposto, la de-ellenizzazione, ha acquistato solo poco a poco un’importanza capace di caratte¬rizzare un’epoca. Non aver visto questo costituisce il vero punto debole dell’opera di L. Dewart, Die Grundlagen des Glaubens, 2 voli., Einsiedeln 1971.

8) WA 5,167,40ss (citato in W. Joest, Ontologie der Person bei Luther, Gòttingen 1967, p. 246): «Homo enim homo est, donec fiat deus, qui solus est verax, cuius participatione et ipse verax efficitur, dum illi vera fide et spe adheret, redactus hoc excessu in nihilum. Quo enim perveniat, qui sperat in deum, nisi in sui nihilum? Quo autem abeat, qui abit in nihilum, nisi eo, unde venit? Venit autem ex deo et suo nihilo, quare in deum redit, qui redit in nihilum». È evidente che queste parole non descrivono in maniera completa la posizione di Lutero nei confronti della dottrina della creazione: ne trattano soltanto l’aspetto spirituale derivante dal carattere drammatico della sua esperienza della grazia. Anche in campo cattolico compare – soprattutto nell’epoca modernaa -, sulla base di altri presupposti e in altre forme, qualcosa di analogo, come mostrerò più avanti.

9) Cfr. L. Gundermann, Untersuchungen zum Gebetsbuchlein der Her- zogin Dorothea von Preussen, Kòln-Opladen 1966, tavola II. Cfr. anche J. Ratzinger, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1978.

10) Cfr. Buttiglione, Scola, Considerazioni sulla problematica cit., p. 77: «Il pensiero moderno si ritrova dunque davanti allo stesso dilemma che era proprio della filosofia classica: o Dio è malvagio oppure non è possibile attribuirgli la creazione del mondo».

11) Ivi.

12) Ivi, p. 78.

13) E. Bloch, Il principio speranza, voi. III, Garzanti, Milano 1994, 1354; cfr. anche Hommes-Ratzinger, La salvezza dell’uomo, Queriniana, Brescia 1976.

14) Cfr. E Hartl, Der Begriff des Schópferischen. Deutungsversuche der Dialektik durch Ernst Bloch und Franz von Baader, Frankfurt 1979.

15) Buttiglione, Scola, Considerazioni sulla problematica cit., pp. 81-82.

16) K. Marx, Nationalokonomie und Philosophie. Friihschriften, Leipzig 1932, p. 307 (citato in E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, Miinchen 1959, p. 36).

17) A. Portmann, Biologie und Geist, 1963, pp. 266-271.

18) Cfr. A. Gòrres, Kennt die Psychologie den Menschen?, Munchen 1986, p. 20 sgg; su Lévi-Strauss cfr. B. Adoukonou, Jalons pour une théologie africane, Paris 1980.

19) Importanti informazioni al riguardo, in Marmann, Praeambula ad gratiam cit., nota 1; l’autore evidenzia l’indispensabilità e il vero significato della distinzione fra natura e soprannaturale e, di conseguenza, il contributo irrinunciabile fornito da san Tomma-so d’Aquino alla teologia.

20) In maniera più dettagliata e ampia mi sono espresso al riguardo in Theologische Prinzipienlehre, Munchen 1982, pp. 78-87 (tr. it. par¬ziale, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Queriniana, Brescia 1986).

21) Cfr.: Buttiglione, Scola, Considerazioni sulla problematica cit., p. 87; Voegelin, Wissenschaft cit.

22) Cfr. J. Pieper, Sull’amore, Queriniana, Brescia 1974.

23) Cfr.: J. Schmidt, Credo in Dio, creatore del cielo e della terra, «Communio», n. 5, 1976, pp. 48-62; G. Martelet, Il primogenito di ogni creatura. Abbozzo di una visione cristologica della creazione, «Communio», n. 5,1976, pp. 18-47.

 


INDICE

Premessa di Joseph Ratzinger – p. 7

I. Dio creatore – p. 13

La distinzione tra forma e contenuto del racconto della creazione – p. 17

L’unità della Bibbia come criterio di interpretazione – p. 21

Il criterio cristologico – p. 30

 

II. Il senso dei racconti biblici della creazione – p. 37

La ragionevolezza della fede nella creazione – p. 39

Il significato permanente degli elementi simbolici del testo – p. 43

Creazione e culto – p. 45

La struttura sabbatica della creazione – p. 50

Sfruttamento della terra? – p. 52

 

III. La creazione dell’uomo – p. 61

L’uomo tratto dalla terra – p. 62

Immagine di Dio – p. 65

Creazione ed evoluzione – p. 71

 

IV. Peccato e redenzione – p. 83

Sul tema del peccato – p. 85

Limiti e libertà dell’uomo – p. 89

Il peccato originale – p. 97

La risposta del Nuovo Testamento – p. 101

Conclusione

Conseguenze della fede nella creazione – p. 107

 

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