Mons. Antonio Livi risponde ai nostri lettori sulle ultime polemiche

L’unico modo per uscire dalla crisi è tornare alla metafisica tomista

Cari Amici, essendoci arrivate molte richieste a riguardo del testo di mons. Antonio Livi intitolato “L’eresia al potere”, pubblicato da Sandro Magister nel suo sito, e a seguito delle polemiche avanzate da chi non solo non conosce i fatti, ma neppure si sforza di capire la situazione, abbiamo scritto direttamente a mons. Livi di aiutarci a darvi una risposta più diretta e verace. Ringraziando mons. Livi (al quale assicuriamo sempre la nostra Preghiera e affetto filiale) per l’umiltà dimostrata nell’aver risposto immediatamente alle nostre richieste, vi lasciamo leggere direttamente la sua risposta, che preghiamo tutti di riflettere attentamente e con tutta onestà intellettuale e di coscienza.

Dopo l’articolo di mons. Livi, “L’eresia al potere”, i laudatores di papa Bergoglio e delle sue “aperture” cantano vittoria: sostenendo che il magistero del pontefice regnante sia nel giusto, perché viene attaccato anche quello dei suoi predecessori. Le cose, in realtà, non stanno così. Ciò che mons. Livi denuncia è che un magistero non dottrinale ma squisitamente pastorale come quello di papa Francesco è l’effetto, non la causa, del fatto che la Gerarchia della Chiesa, dal Vaticano II in poi, ha voluto abbandonare la metafisica tomista, lasciando campo libero all’ambiguità… Mons. Livi, il più grande tomista italiano, spiega che (come già fece in tempi non sospetti in questo libro) il magistero di Benedetto XVI, come quello di Giovanni Paolo II, sono assolutamente ortodossi, in quanto non contraddicono il dogma; tuttavia, non avendo potuto — o voluto — tornare alla prassi pastorale di condannare le espressioni della falsa teologia, che rifiuta le premesse razionali della fede e la legge morale naturale, è stato facile per i modernisti impossessarsi dei posti di potere nella Chiesa e da queste posizioni diffondere l’eresia in tutte le sue forme.


Care direttrici,

vi ringrazio della cortese missiva con la quale mi date l’occasione di chiarire la mia posizione.

Certamente, non intendo rispondere alle scomposte accuse che Massimo Introvigne rivolge a me (e ciò ha qualche appiglio di cronaca per le cose che ho scritto l’altro giorno sul sito di Sandro Magister) e anche alla Nuova Bussola Quotidiana (che invece non ha nulla a che vedere con quello che ho scritto io). La polemica è stata poi gonfiata da La Stampa e dal Giornale (che copia dalla Stampa). Mi dispiace che una mia iniziativa di carattere prettamente teologica sia stata maldestramente commentata da un sociologo come Introvigne (che, in quanto tale, ma anche per sue personali idiosincrasie non coglie l’importanza che nella fede cattolica ha la verità del dogma) e da altri pubblicisti come Tornielli (che, in quanto cronisti di eventi politici, hanno un certo interesse solo per le questioni legate al potere ecclesiastico) i quali, visto il modo con cui polemizzano nei miei confronti, evidentemente non hanno letto e studiato prima (e nemmeno dopo) i documenti ai quali mi riferisco. Essi parlano del mio scritto come se si trattasse della “Prefazione” al libro di Enrico Maria Radaelli: segno che non hanno letto il libro in questione ma solo ne deprecano il contenuto a priori (oggi si direbbe “a prescindere”), che non ha alcuna Presentazione di altri autori. Nel segnalare l’uscita del libro di Radaelli Sandro Magister pubblica una mia riflessione storico-teologica nella quale prendo l’occasione per riproporre un tema a me caro, ossia l’evidente e documentata egemonia della teologia progressista (con il conseguente relativismo dogmatico) negli studi ecclesiastici e nel governo della Chiesa. Questa non è una tesi nuova: è la tesi che da anni cerco di esporre prudentemente e con tutto l’equilibrio necessario. Ne parlo nelle tre successive edizioni del mio trattato su Vera e falsa teologia (Leonardo da Vinci 2017), e poi anche nel volume Teologia e Magistero, oggi (Leonardo da Vinci 2017), nel quale tra l’altro ribadisco, contro Roberto de Mattei, che non è accettabile l’ipotesi di un papa eretico, mentre è possibile verificare che alcuni provvedimenti (attivi oppure omissivi) dei papi abbiano favorito l’estendersi dell’eresia.

I vostri lettori hanno imparato con gli anni a diffidare di quei giornalisti che stravolgono gli eventi della Chiesa cattolica commentandoli con le categorie della propaganda politica, dove vengono sempre bene le fake news e le estrapolazioni arbitrarie, condimento del sensazionalismo. E, siccome mi conoscono (anche se sono soltanto uno tra i tanti tuoi valenti collaboratori, e nemmeno il più assiduo), vi sarò grato se farete loro sapere che il mio pensiero sui papi del Concilio (Giovanni XXXII e Paolo VI) e del post-concilio (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI  e Francesco) non corrisponde affatto alla caricatura grottesca che ne hanno fatto Introvigne e Torrielli ma si basa su questi precisi enunciati:

1) La santità di un papa (presunta o riconosciuta canonicamente) non implica l’esaltazione acritica di ogni sua azione pastorale, soprattutto se una data azione pastorale di un papa è contraria a quella di altri papi altrettanto santi: ad esempio, san Giovanni XXIII, nel celebre discorso di inaugurazione dei lavori del Vaticano II (Gaudet Mater Ecclesia)  dice il contrario di quello che diceva san Pio X riguardo alla condanna degli errori moderni in materia di fede e di morale. Ragioniamo: se san Pio X viene da oltre un secolo criticato e vituperato dai teologi progressisti (che lo dipingono come un despota ottuso che non ha capito le istanze della modernità), perché non si può formulare qualche rispettosa critica nei confronti di chi ora, da Papa, apre invece le porte al modernismo e non condanna, anzi esalta i suoi rappresentanti (Rahner, Kasper, Gutiérrez, Ravasi, Forte et ceteros quosdam)? So che a questa mia domanda retorica viene di solito opposta una risposta sfuggente, in chiave di mero storicismo dialettico, la quale però non regge alla critica storico-dogmatica, quella che io faccio servendomi della mia competenza in materia di logica aletica.

2) La dottrina sulla fede nella Rivelazione è il punto in cui ci si gioca l’ortodossia o l’eterodossia. L’errore sul modo di intendere la fede, sia come ciò che bisogna credere per la salvezza («fides quae creditur») sia come l’atto di assenso dell’intelletto alla verità rivelata («fides quae creditur»), è l’errore di fondo, è all’origine di tutte le eresie.  Il modernismo è la più grave minaccia alla fede cattolica proprio per questo errore iniziale. L’interpretazione modernistica della fede non è innocente e innocua, perché stravolge il senso della rivelazione divina e la verità del del dogma proposto dalla Chiesa, che non può essere interpretato con categorie logiche contrarie a quelle utilizzate dal Magistero fino al Vaticano I (1870). In questo senso, non è logico esaltare san Giovanni Paolo II quando favorisce l’indifferentismo religioso (dottrina già più volte condannata) con la riunione ecumenica di Assisi, e poi denigrarlo quando riporta all’attenzione dei teologi la dottrina sulla fede del Vaticano I, come fece con l’enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998), enciclica che la Santa Sede, all’epoca di Benedetto XVI, considerò come un infortunio, una specie di “passo indietro” nel progressivo allontanamento dal dogma del Vaticano I. Per questo specifico motivo,  l’autorità accademica della mia Università, la Lateranense (che ha il titolo di “Università del Papa”), decise di relegare nel dimenticatoio la Fides et ratio, impedendomi di illustrarla sistematicamente attraverso una cattedra apposita, al servizio degli studi di Filosofia e di Teologia.

3) Per un motivo di fede in Cristo, il quale ha voluto istituire la sua Chiesa come «sacramento universale di salvezza», la devozione e l’obbedienza al Papa sono sempre dovute, chiunque sia colui che esercita tale funzione ecclesiale di grazia e di carità, nell’unità della fede. Ogni fedele ha necessariamente un atteggiamento di cordiale fiducia e di fattivo sostegno, anzitutto con la preghiera liturgica e personale, nei confronti di chiunque abbia ricevuto la potestà sacra di agire “in persona Christi Capitis”, fungendo da vicario di Cristo Maestro, Sacerdote e Re. Ma non può essere un’obbedienza  preferenziale e selettiva, da riservarsi ad humanam personam, qualora serva ai propri interessi ideologici. Proprio per questo non accetto lezioni di fedeltà alla Chiesa da coloro che oggi si atteggiano a difensori dell’autorità pontificia, dopo che hanno passato una vita intera a criticare i più grandi papi del nostro tempo quando non sembravano del tutto uniformati alla loro ideologia… Costoro parlano trionfalmente di una immaginaria “Chiesa di Bergoglio”, che è un’espressione teologicamente insensata. Essi non difendono Francesco come Papa ma come il garante di una situazione di potere accademico, mediatico e curiale che costituisce il loro momentaneo successo personale come propagandisti della riforma della Chiesa, dalla quale devono essere eliminati il dogma (con le categorie metafisiche che gli sono intrinseche) e la morale (con le nozioni della legge naturale che il Vangelo non annulla bensì presuppone e perfeziona). Ma un giorno, forse presto, si renderanno conto che, tolto il dogma (ossia la verità rivelata da Dio che obbliga in coscienza a uniformare il proprio giudizio a quello del Magistero), nessuno è più tenuto in coscienza a credere che il papa sia il vicario di Cristo: resterà allora soltanto il consenso delle masse verso un personaggio mediaticamente rilevante, un leader dotato di un carisma sociologicamente trendy, un uomo che favorisce o almeno accetta il “culto della propria personalità”, destinato, in quanto tale, a uscire di scena, prima o poi, come sempre succede in politica. Chi invece vive di fede, prega per il papa regnante con la preghiera liturgica tradizionale, che è ricavata da un versetto dei Salmi di Davide e suona così: «Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, non tradat eum in manus inimicorum suorum». E poi, quando sembra opportuno, chi vive di fede arriva anche ad aiutare il Papa nel governo della Chiesa attraverso documenti di lavoro e persino pubblici avvertimenti o ammonimenti, come quello che fu correttamente intitolato “correctio filialis de haeresibus propagatis”.

4) Questo è infatti il senso delle mie osservazioni critiche sul modo con il quale i papi del Concilio e del post-concilio han no gestito la marea montante del modernismo, con le sue eresie e il suo programma di riforme: eresie e riforme che oggi, dopo un secolo di progressiva conquista del potere, si configurano sempre più chiaramente come una “luteranizzazione” della Chiesa cattolica. Anche se l’eresia al potere mi accusa di “attaccare il papa” o di “negare l’autorità del Concilio”, nessuno può documentare queste accuse citando i miei discorsi e i miei scritti. Io dico pubblicamente e scrivo tutto i contrario: dico che nessun Papa è finora incorso in eresia, e nessun documento conciliare contiene dottrine formalmente eretiche. Negli atti del Vaticano II e dei papi che si sono susseguito dal 1965 ad oggi ci sono molti insegnamenti di carattere dogmatico, anche se di intonazione pastorale: non sono nuovi dogmi ma sviluppano in modo omogeneo i dogmi del tempo pre-conciliare. Così anche nelle encicliche di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. Ma tutto ciò non toglie che l’eresia dilagante non abbia trovato nei documenti del Concilio e negli atti pontifici successivi una sanzione esplicita e una condanna formale, ma anzi abbia trovato molta accondiscendenza nelle idee e nelle persone. Questo è indubbiamente vero, è documentato già abbondante mente e può esserlo ancora di più, e farlo umilmente notare a chi potrebbe fare qualcosa di più e di meglio non è offensivo né eversivo dell’ordine costituito nella Chiesa.

ANTONIO LIVI (4 gennaio 2018)


Nota: la risposta gentilmente inviata per noi da mons. Antonio Livi, è stata pubblicata anche nel website di promozione della Leonardo da Vinci (www.editriceleonardo.com), che si affianca al website commerciale (ww.editriceleonardo.net).


 

AGGIORNAMENTO:

pubblichiamo il riferimento ad una osservazione, alla risposta di mons. Livi, da parte di Paolo Pasqualucci, sul blog di “chiesaepostconcilio”, vedi qui

Osservazioni in seguito alla replica di Antonio Livi

Sul Concilio mons. Livi si mantiene prudente [vedi], però non salva il Concilio né il magistero postconciliare dalle legittime critiche.

Scrive che “nessun Papa è finora incorso in eresia e nessun documento conciliare contiene dottrine formalmente eretiche“1. Cioè: non si possono accusare i Papi conciliari e postconciliari di “eresia in senso formale“. Sul che si può anche convenire. Ma circa l’accusa di “errore che sa di eresia” o “la favorisce“, errore dottrinale o in fide che può condurre a oppure costituire “eresia in senso materiale“, come risponderebbe mons. Livi?
Infatti, scrive, subito dopo: “Ma tutto ciò non toglie che l’eresia dilagante non abbia trovato nei documenti del Concilio e negli atti pontifici successivi una sanzione esplicita e una condanna formale, ma anzi abbia trovato molta accondiscendenza nelle idee e nelle persone. Questo è indubbiamente vero...”
Pertanto: bisogna ammettere che “l’eresia dilagante” non ha trovato nei documenti del Concilio e negli atti dei Papi successivi, “una sanzione esplicita e una condanna formale“; non solo: ha trovato “molta accondiscendenza nelle idee e nelle persone“. L’accusa, a ben vedere, è pesantissima: l’eresia dilagante (foraggiata dalla nouvelle théologie) non ha trovato nel Concilio lo strumento che avrebbe istituzionalmente dovuto batterla in breccia. Al contrario, pur non potendosi formulare un’accusa di eresia in senso formale a Concilio e Papi, ha trovato “molta accondiscendenza“. Detto in altri termini: ha trovato complicità e forme di assenso, il che significa che, da 50 anni e passa, ci vengono ammannite una dottrina e una pastorale inquinata dal compromesso con le “eresie dilaganti” penetrate ambiguamente nei documenti del Concilio.
In tal modo, se la mia ricostruzione è esatta, credo si sia legittimati (anche secondo mons. Livi) ad individuare in certi passaggi conciliari e nel magistero postconciliare la presenza di errori che favoriscono l’eresia o di vere e proprie eresie ma in senso materiale, non formale.
Mi sembrano, comunque, del tutto errati quegli interventi nel blog, che, con aria saputa, cercano sempre di penetrare le intenzioni degli autori, attribuendo loro quasi sempre scopi che nulla hanno a che vedere con il contenuto dell’intervento stesso che si sta criticando. Bisognerebbe attenersi ai fatti, al contenuto concreto di un testo, lasciando perdere il processo alle supposte intenzioni dell’autore, oggetto per di più di ricostruzioni spesso cervellotiche. Limitarsi alle intenzioni che risultino con chiarezza dal contenuto stesso del testo in questione. (Paolo Pasqualucci)

 1. Il che dipende dal linguaggio fluido e non definitorio, per scelta, messo in atto dalla studiata ma colpevole strategia modernista che ha usato la dichiarata non-dogmaticità del Concilio Vaticano II come varco per introdurre nella Chiesa novità dottrinali attraverso la ‘pastorale’. Solo rimanendo in bilico sul dire e non dire si possono veicolare alcune interpretazioni piuttosto che altre (ed ecco, al culmine, l’A.L.). L’anomala pastoralità priva di principi teologici definiti è proprio ciò che ci toglie la materia prima del contendere.
È l’avanzata del fluido cangiante dissolutore informe, in luogo del costrutto chiaro, inequivocabile, definitorio, veritativo: l’incandescente perenne saldezza del dogma contro i liquami e le sabbie mobili del neo-magistero transeunte. Ѐ questo il nodo sempre più inestricabile, il punto nevralgico che ha permesso la rivoluzione mascherata da aggiornamento. Al momento senza possibili soluzioni in vista, mentre la degenerazione ha già superato i limiti di guardia e chi ha posizioni influenti usa una prudenza del tutto ininfluente che non scalfisce né lascia alcuna traccia in una prassi a ruota libera che appare inarrestabile. (Maria Guarini)

 


ATTENZIONE: come ci è stato richiesto pubblichiamo a seguire il

Testo integrale dell’intervento di mons. Antonio Livi, strumentalizzato dai Media progressisti.

Ritengo che sia indispensabile, nell’attuale congiuntura teologico-pastorale, tener conto di quanto ha esaurientemente dimostrato Enrico Maria Radaelli nel suo ultimo lavoro (“Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo“, Edizioni Pro-manuscripto Aurea Domus, Milano 2017), ossia che l’egemonia (prima di fatto e poi di diritto) della teologia progressista nelle strutture di magistero e di governo della Chiesa cattolica si deve anche e forse soprattutto agli insegnamenti di Joseph Ratzinger professore, che mai sono stati negati e nemmeno superati da Joseph Ratzinger vescovo, cardinale e papa. Questa tesi, che così enunciata potrebbe apparire a molti inaccettabile (mi riferisco a tutti coloro che finora avevano visto in Ratzinger come cardinale Prefetto della congregazione per la dottrina della fede e poi come papa Benedetto XVI un provvidenziale baluardo contro quella che lui stesso definiva “dittatura del relativismo”), ha una sua adeguata giustificazione scientifica nel libro di Radaelli, il quale analizza pagina per pagina il testo fondamentale di Ratzinger, quella “Einführung  in das Christentum: Vorlesungen über das apostolische Glaubensbekenntnis”, che fu pubblicata nel 1968 come rielaborazione delle lezioni di Teologia tenute nel semestre precedente dall’allora giovane professore nell’Università di Tubinga ed ha avuto nel testo originale ben ventidue edizioni, l’ultima nel 2017.

Enrico Maria Radaelli è noto come il miglior discepolo e interprete di quel Romano Amerio che nel 1985 aveva pubblicato “Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX”, che io considero la prima, coraggiosa e seria e documentata denuncia della presenza del modernismo teologico nella forma (retorica) e nella sostanza (ideologica) della “Gaudium et spes” e di altri fondamentali testi conciliari. Imitando lo scrupolo esegetico e l’onestà intellettuale del suo maestro, Radaelli studia attentamente il testo ratzingeriano, citandone i passaggi fondamentali da un’edizione italiana recente (cfr “Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico”, Queriniana, Brescia 2000) e facendo subito notare – ed è uno dei dati a sostegno della tesi di Radaelli – che Joseph Ratzinger, anche quando è divenuto prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, non ha mai sentito il bisogno di rivederne o modificarne il contenuto. In effetti, nel 2000 scriveva che il suo libro avrebbe ben potuto intitolarsi “Introduzione al cristianesimo, ieri, oggi e domani”, aggiungendo:

“L’orientamento di fondo era, a mio avviso, corretto. Da qui il mio coraggio oggi di porre ancora una volta il libro nelle mani dei lettori” (“Saggio introduttivo alla nuova edizione 2000”, in “Introduzione al cristianesimo”, ed. cit., p. 24).

Insomma, conclude Radaelli, la teologia che Ratzinger ha sempre professato e che si ritrova in tutti i suoi scritti, anche in quelli firmati come Benedetto XVI (i tre libri su “Gesù di Nazaret” e sedici volumi di “Insegnamenti”) non è sostanzialmente diversa da quella della “Einführung”, ed è una teologia di stampa immanentistico, nella quale tutti i termini tradizionali del dogma cattolico restano linguisticamente inalterati ma la loro comprensione è cambiata: messi da parte, perché ritenuti oggi incomprensibili, gli schemi concettuali propri della Scrittura, dei Padri e del Magistero (che presuppongono quella che Bergson chiamava “la metafisica spontanea dell’intelletto umano”), i dogmi della fede sono re-interpretati con gli schemi concettuali propri del soggettivismo moderno (dal trascendentale di Kant all’idealismo dialettico di Hegel). A farne le spese – osserva giustamente Radaelli – è soprattutto la nozione di base del cristianesimo, quella di fede nella rivelazione dei misteri soprannaturali da parte di Dio, ossia la “fides qua creditur”.

Questa nozione risulta irrimediabilmente deformata, nella teologia di Ratzinger, dall’adozione dello schema kantiano dell’impossibilità di una conoscenza metafisica di Dio, con il conseguente ricorso ai “postulati della ragione pratica”, il che comporta la negazione delle premesse razionali della fede e la sostituzione delle “ragioni per credere”, che costituivano l’argomento classico dell’apologetica dopo il Vaticano I (Réginald Garrigou-Lagrange) con la sola “volontà di credere”, che fu teorizzata dalla filosofia della religione di stampo pragmatistico (William James). Ratzinger ha sempre sostenuto, anche nei discorsi più recenti, che l’atto di fede del cristiano ha come suo specifico oggetto, non i misteri rivelati da Cristo ma la persona stessa di Cristo, conosciuto nella Scrittura e nella liturgia della Chiesa. Ma è una conoscenza incerta e contraddittoria, troppo debole per resistere alla critica del pensiero contemporaneo. Sicché la teologia di oggi, secondo Ratzinger, non riesce a parlare della fede se non in termini ambigui e contraddittori:

“Il problema di sapere esattamente quale sia il contenuto e il significato della fede cristiana è oggi avvolto da un nebuloso alone di incertezza come mai forse prima nella storia” (“Introduzione al cristianesimo”, Prefazione alla prima edizione, trad. it. cit., p. 25).

In effetti, la teologia di oggi è costretta ad ammettere che, nell’animo del credente, all’atto di fede (voluto anche se infondato) è sempre associato il dubbio. Ciò avviene perché ormai il fondamento dell’atto di fede non è più, come insegnava il Vaticano I, “l’autorità di Dio, che non può ingannarsi né ingannare gli uomini”, ma è l’uomo stesso, il quale ha voluto costruirsi un’idea di Dio che soddisfi le proprie esigenze spirituali. Ma questa idea di Dio, che l’uomo religioso di oggi ha forgiato a propria immagine e somiglianza, è inevitabilmente incerta e problematica, e il teologo ne avverte la radicale incompatibilità con la cultura contemporanea:

“Chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio, oppure addirittura un resuscitato da un vetusto sarcofago. […] Constaterà la condizione di insicurezza in cui versa la sua propria fede, la potenza quasi inarginabile dell’incredulità che si oppone alla sua buona volontà di credere. […] Sul credente pesa la minaccia dell’incertezza. […] Il credente può vivere la sua fede unicamente e sempre librandosi sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio, trovandosi assegnato il mare dell’incertezza come unico luogo possibile della sua fede” (“Introduzione al cristianesimo”, Prefazione alla prima edizione, trad. it. cit., pp. 34-37).

Radaelli mostra come le medesime espressioni si ritrovino nella pubblicistica del cardinale gesuita Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, il quale andava ripetendo: “Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda”. Io aggiungerei che sono le medesime espressioni alle quali fa ricorso Gianni Vattimo, teorizzando il credere del cristiano come facente parte del suo “pensiero debole”. Ma è proprio questa nozione sostanzialmente scettica della fede nella Rivelazione ciò che, secondo Ratzinger, consente alla teologia un proficuo confronto con la filosofia e con la scienza di oggi, concedendo esplicitamente ad esse il presupposto epistemologico dell’impossibilità della conoscenza razionale di Dio e della legge morale naturale. In effetti, se nemmeno il credente ha la certezza dell’esistenza di Dio e della sua presenza visibile in Cristo, nel dialogo della Chiesa con il mondo moderno bisogna parlare di Dio come di un’ipotesi: un’ipotesi che Kant riteneva necessaria per fondare la pietà religiosa, ma non un’evidenza della ragione naturale in base alla quale è ragionevole credere alla parola di Cristo, rivelatore del Padre. E così mi spiego come Ratzinger, nel suo encomiabile impegno di dialogo pastorale con la cultura secolaristica, abbia chiesto agli interlocutori di progettare una morale pubblica basata sull’ipotesi dell’esistenza di Dio (cfr Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, “Ragione e fede in dialogo”, trad. it. a cura di G. Bosetti, Marsilio, Venezia 2005). Così argomentava il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede alla vigilia della sua elevazione al soglio pontificio:

“Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita ‘veluti si Deus daretur’, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno” (“L’Europa nella crisi delle culture”, conferenza tenuta la sera di venerdì 1 aprile 2005 a Subiaco, al Monastero di Santa Scolastica, in occasione del Premio San Benedetto “per la promozione della vita e della famiglia in Europa”).

Io ho letto con particolare attenzione le pagine del libro di Radaelli nelle quali questo concetto di “fede debole” è adeguatamente documentato. Esso investe una problematica filosofico-teologica che, per la sua importanza dal punto di vista pastorale, da sempre sta al centro dei miei interessi di studio (cfr Antonio Livi, “Razionalità della fede nella Rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica”, Leonardo da Vinci, Roma 2005; “Logica della testimonianza. Quando credere è ragionevole”, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007; “Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede”, Leonardo da Vinci, Roma 2010; “Quale pretesa di verità può essere riconosciuta alle dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio”, in “L’esistenza di Dio. Un’innegabile verità del senso comune che dalla formalizzazione metafisica può ricevere piena giustificazione dialettica”, a cura di F. Renzi, Leonardo da Vinci, Roma 2016, pp. 19-36).

Le analisi di Radaelli sui testi di Ratzinger mi hanno fatto comprendere perché questo grande teologo abbia accettato come inevitabile, al giorno d’oggi, l’interpretazione fideistica del cristianesimo e abbia squalificato come inutile “apologetica neoscolastica” il ritorno alla dottrina classica dei “praeambula fidei”, che è certamente di Tomaso d’Aquino ma è stata anche recepita nei documenti dogmatici del Concilio di Trento e del Concilio Vaticano I. La ragione sta nel fatto che fin dagli inizi, cioè fin dalla “Einführung”, Ratzinger partecipava a quell’efficientissima operazione culturale che Cornelio Fabro definì come “avventura della teologia progressista” e che non ha come unico protagonista Karl Rahner. Si suol dare troppo importanza al dissidio dottrinale tra Ratzinger e Rahner, in seguito al quale il primo lasciò la redazione di “Concilium” e si unì ai collaboratori di “Communio”. La verità è che il dissidio era solo sulla metodologia dialettica e non sui contenuti di fondo della “svolta antropologica” che entrambi intendevano imprimere alla teologica cattolica in vista di una radicale riforma della Chiesa. Per convincersene basterà rileggere quanto Ratzinger scrive a proposito della sua iniziale collaborazione con il collega gesuita durante i lavori del concilio ecumenico:

“Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico” (Josef Ratzinger, “La mia vita. Autobiografia”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, p. 123).

Questa mia digressione mi consente di tornare ad affermare che la tematica affrontata nel saggio di Radaelli e l’acume critico con cui essa è trattata rendono un grande servizio alla comprensione di ciò che sta avvenendo nella Chiesa dagli anni Sessanta del Novecento fino a oggi. Sono eventi che io ho spesso sintetizzato parlando di “eresia al potere”. Mi esprimo in termini che possono sembrare semplicistici o esagerati e invece sono pienamente giustificati dai fatti. La realtà è che la teologia neomodernista, con la sua evidente deriva ereticale, ha assunto gradualmente un ruolo egemonico nella Chiesa (nei seminari, negli atenei pontifici, nelle commissioni dottrinali delle conferenze episcopali, nei dicasteri della santa Sede), e da queste posizioni di potere ha influito sulle tematiche e sul linguaggio nelle diverse espressioni del magistero ecclesiastico, e di questo influsso hanno risentito (in grado diverso, naturalmente) tutti i documenti del Vaticano II e molti insegnamenti dei papi del post-concilio (cfr Antonio Livi, “Come la teologia neomodernista è passata dal rifiuto del Magistero ancora dogmatico all’esaltazione di un Magistero volutamente ambiguo”, in “Teologia e Magistero, oggi”, Leonardo da Vinci, Roma 2017, pp. 59-86).

I papi di questo periodo sono stati tutti condizionati, chi per un verso chi per un altro, da questa egemonia, che proprio Joseph Ratzinger designò, poco prima della sua elezione al soglio pontificio, come “dittatura del relativismo”. Paolo VI ha certamente presieduto e diretto sapientemente il Concilio dopo la morte di Giovanni XXIII, e di lui vanno ricordati alcuni interventi provvidenziali, quali la redazione della “Nota explicativa praevia” apposta alla costituzione dogmatica “Lumen gentium”, nonché l’esclusione del tema del celibato sacerdotale e della contraccezione dal dibattito in aula (temi successivamente affrontati nelle encicliche “Sacerdotalis coelibatus” e “Humanae vitae”), ma allo stesso tempo ha avvalorato l’interpretazione del Concilio come una “svolta antropologica” dell’ecclesiologia, come l’istanza suprema di un riconoscimento dei valori umanistici della modernità, sulla base di una comune “religione dell’uomo”.

Giovanni Paolo II ebbe certamente il coraggio di condannare le deviazioni teologiche in campo morale (cfr l’enciclica “Veritatis splendor”) e riprese l’insegnamento del Vaticano I contro il fideismo (cfr l’enciclica “Fides et ratio”), ma permise a Karl Rahner di consolidare la sua egemonia sugli studi ecclesiastici e onorò pubblicamente sia lui (con una lettera di encomio per i suoi ottant’anni) sia altri importanti esponenti della teologia progressista (nominando cardinali Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar). Allo stesso tempo si dimostrava sordo agli appelli di molti autorevoli rappresentanti dell’episcopato mondiale che gli chiedevano di contrastare efficacemente la deriva ereticale del movimento ecumenico e dei rapporti con gli ebrei (cfr Mario Oliveri, “Un Vescovo scrive alla Santa Sede sui pericoli pastorali del relativismo dogmatico”, Leonardo da Vinci, Roma 2017). Del papa attuale non occorre parlare. Bastano peraltro le puntualissime citazioni che di lui riporta Radaelli in questo suo utilissimo libro.


 

presentiamo qui il nuovo libro del prof. Enrico Maria Radaelli

Al cuore di Ratzinger – Al cuore del mondo
Edizioni Pro Manuscripto – Aurea Domus, 2017 – pp. 370, € 39,00.

Chi richiederà l’acquisto direttamente alla Aurea Domus, tramite la posta elettronica: e-mail, fino all’1 gennaio 2018, beneficierà dello sconto del 15% (€ 33,00)
e riceverà la copia numerata con la dedica dell’Autore

Il libro è attualmente reperibile nelle librerie: Áncora, MilanoMonzaTrento e RomaHoepli, MilanoColetti, RomaLeoniana, Roma; e può essere richiesto allo stesso Autore(info@enricomariaradaelli.it)

Gli indici si possono consultare sul sito dell’Autore

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