Intervista a Dom Giulio Meiattini: Non si può “integrare” il peccato!

L’Amoris Laetitia è in continuità o in rottura con il bimillenario e immutabile magistero della Chiesa? È davvero un testo di stampo tomista? Sì può, dopo aver fatto “discernimento”, continuare a vivere in una situazione di peccato? Le “attenuanti” giustificano la colpa? La Chiesa può tollerare, per vari motivi, unioni adulterine? I sacramenti sono una solamente una “questione morale”? A queste e a altre domande fondamentali ha provato a rispondere il teologo dom Giulio Meiattini, monaco benedettino dell’Abbazia della Madonna della Scala a Noci, docente alla Facoltà teologica della Puglia e al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma, in un libro intitolato Amoris laetitia? I sacramenti ridotti a morale (La Fontana di Siloe, Torino, 2018), opera che — secondo noi — è quella che meglio analizza i gravissimi problemi dottrinali, teologici, morali e pastorali che l’esortazione apostolica di papa Francesco ha recato alla Chiesa cattolica. Abbiamo contattato dom Giulio Meiattini, il quale ha accettato molto gentilmente di rispondere alle nostre domande sul suo libro e sulla questione dell’Amoris Laetitia in generale.

DOMANDA. Rev. d. Giulio, prima di tutto, grazie per averci concesso quest’intervista. Cominciamo parlando dei sacramenti: che cosa sono e perché sono indispensabili nella vita del cristiano? La Chiesa ne è padrona o custode?

Dom Giulio Meiattini OSB

RISPOSTA. I sacramenti sono il tesoro più prezioso che Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa. Nell’atto della loro celebrazione la comunità cristiana esprime e realizza nella forma più piena se stessa e i suoi membri possono entrare nella più profonda comunione con Dio e tra di loro. In essi Dio ci comunica la sua stessa vita divina, facendoci una cosa sola in lui. Dai sacramenti, che sono il cuore dell’universo liturgico, scaturisce tutta la vita cristiana e in essi si raggiunge anche il suo perfezionamento. Per questo il Vaticano II ha definito la liturgia, col suo centro sacramentale, culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa. Naturalmente la liturgia e i sacramenti esigono la corrispondenza della nostra vita, senza la quale scadrebbero nel formalismo e in una forma di ipocrisia. Un po’ come i talenti della parabola attendono di essere messi a frutto con l’impegno personale nel quotidiano. Ma ogni “im-pegno” deriva dal “pegno” della grazia divina che per mezzo di Cristo e nello Spirito ci viene elargita nelle azioni sacramentali e in esse è destinata a confluire arricchita del nostro “sì” responsoriale.

È chiaro che la Chiesa ha l’autorità e la facoltà di celebrare i sacramenti, di regolarne e variarne certe forme e modalità celebrative, di formulare i criteri di ammissione o anche esclusione da essi, ecc. Ma nella loro origine essi non sono una creazione della Chiesa, ma un dono che essa ha ricevuto dal Signore e insieme sono e contengono la sua risposta a questo dono. E come dono vanno custoditi e rispettati in quanto hanno di intangibile. Vale, anche se in modo analogo, per ogni sacramento quello che S. Paolo dice dell’Eucaristia, sacramento per eccellenza: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo…” (1Cor 11,23-24).

D. Il “no” della Chiesa cattolica (v. Catechismo n. 1650) alla Comunione ai divorziati risposati che vivono more uxorio è una legge ecclesiastica positiva oppure una norma di diritto divino?

R. Il numero del Catechismo richiamato esprime in modo molto chiaro e sintetico il motivo dell’impedimento alla piena partecipazione alla celebrazione eucaristica con la comunione sacramentale, per coloro che si trovano in una nuova unione dopo un matrimonio sacramentale valido: “essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la Legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione”. Definire questa prassi una semplice legge ecclesiastica, cioè creata dalla Chiesa – come qualcuno recentemente ha tentato di sostenere – non mi sembra possibile, perché è fondata su una parola di Gesù trasmessa dagli apostoli, la quale definisce “adulterio” l’abbandono del coniuge seguito da una nuova unione, di qualunque tipo. Una persona che vive in adulterio non si trova nella condizione di potersi accostare al sacramento eucaristico, di cui essa contraddice il senso con la sua vita. L’alleanza sponsale è segno sacramentale dell’alleanza fra Cristo e la Chiesa che l’Eucaristia realizza. Violare l’alleanza sponsale significa entrare in conflitto con il mistero della celebrazione eucaristica.

Definirei invece una legge ecclesiastica la prassi, vigente nelle chiese ortodosse, presso le quali la seconda unione (e perfino la terza) è “tollerata”. Per questi casi, in quelle chiese è prescritta una forma penitenziale e poi un rito di benedizione della nuova unione, che però – anche secondo questa tradizione – non è considerata in alcun modo “matrimonio”, perché esso è sempre unico. Io penso (ma come me pensano anche alcuni autori protestanti) che la tradizionale disciplina cattolica, in materia di divorziati risposati, rispetta e riflette fedelmente il dato neotestamentario.

Il libro è disponibile anche in versione ebook.

D. Perché ha deciso di scrivere un libro critico – benché assolutamente rispettoso dell’autorità petrina – sull’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL)?

Penso che i motivi siano abbastanza comprensibili, dopo tutte le discussioni che ci sono state in proposito. Il cap. 8 di AL ha dato l’impressione, fin dall’inizio, che volesse mutare la prassi tradizionale della Chiesa cattolica sul punto in questione, prassi ribadita in tempi recenti da Giovanni Paolo II (Familiaris Consortio) e da Benedetto XVI (Sacramentum Caritatis). L’impressione è diventata certezza dopo che papa Francesco ha formalmente approvato il documento applicativo del cap. 8, pubblicato nel settembre 2016 dai vescovi della regione ecclesiastica di Buenos Aires. Il papa recentemente ha presentato questo documento come l’interpretazione autentica di AL. Se prima si poteva pensare che AL fosse semplicemente poco chiara o ambigua su questo punto, ora alla luce di questo documento argentino, non c’è dubbio che la disciplina precedente – impossibilità della comunione eucaristica ai divorziati/separati viventi more uxorio in una nuova unione – è effettivamente cambiata. La domanda che nel libro mi faccio è questa: questa nuova prassi, che dice di non voler mutare la dottrina, ma di essere solo una misura pastorale, è teologicamente sostenibile oppure no? Essa davvero lascia intatta la teologia comune sul matrimonio? La risposta che viene data nel libro è che questa nuova prassi presenta delle incongruenze a una verifica teologica seria che metta al centro non criteri puramente morali (le attenuanti), ma la teologia stessa del matrimonio contenuta nella lex orandi, cioè nell’atto stesso del sacramento celebrato. Ora, se una misura che si dice pastorale non regge alla verifica teologica non può essere una buona medicina. Per quanto pastorale e teologia debbano cercare di ascoltarsi reciprocamente e venirsi incontro, la prima non può piegare a sé l’altra, in modo strumentale, anche se la seconda per quanto possibile deve avvicinarsi al vissuto delle persone.

D. Non trova quanto meno anomalo che in un documento pontificio il cui argomento è il matrimonio cristiano non vengono mai citati i due brani del Vangelo (Mt 5, 31-32; 19, 1-12;  Mc 10, 1-12 e Lc 16, 18) in cui il Signore abolisce il ripudio?

R. Lo ritengo molto anomalo! Anch’io ho constatato questo fatto fin dal primo momento con molta sorpresa. Le due relazioni finali dei sinodi 2014 e 2015 e poi la stessa AL, non hanno mai avuto il coraggio – dico “coraggio” – di citare per esteso il detto di Gesù sul ripudio/adulterio, nelle sue diverse formulazione sinottiche. Ci si è limitati a un richiamo generico all’indissolubilità con l’indicazione dei versetti evangelici tra parentesi, senza farli risuonare in tutta la loro forza. Questo per me significa non avere il coraggio di guardare in faccia le Scritture, mentre si parla e si scrive su di esse.

D. L’AL è veramente un testo tomista, come ha sostenuto un noto cardinale, oppure il pensiero dell’Aquinate, ivi citato, non è stato ben compreso?

La risposta a questa domanda potrebbe darla, meglio di me, qualche specialista dell’opera di S. Tommaso. La mia impressione, come ho anche brevemente detto nel mio libro, è che i testi di Tommaso citati in alcuni passi strategici di AL, a favore della nuova disciplina, sono stati letti male, in modo parziale oppure sono stati citati fuori del loro contesto e senza tener conto di altri passi di Tommaso. In ogni caso almeno il cap. 8 di AL non mi sembra intonato alla mens tomasiana e al suo realismo. Vi vedo invece un retroterra che, nel mio libro, ho definito a rischio di nominalismo.

D. Alcuni nostri lettori, soprattutto quelli sposati, sono rimasti letteralmente scandalizzati riguardo ai capitoli che l’AL dedica all’eros. Non sarebbe stato più opportuno – più pastorale – ribadire agli sposi cristiani, soprattutto ai divorziati risposati civilmente, il valore fondamentale della castità?

Sulla questione del rapporto fra eros e agape Benedetto XVI ha scritto alcune pagine dense nell’enciclica Deus caritas est. Quelle pagine, che non esauriscono certo l’ampiezza dell’argomento, restano tuttavia un punto di riferimento importante per qualunque altro approfondimento in proposito. L’eros è una dimensione dell’amore umano che non va temuta né obliata; esso è destinato ad essere assunto e trasformato, non eliminato, dall’agape divina. Il cammino concreto di questa trasformazione è delicato e anche complicato. È né più né meno che il cammino della maturazione nella capacità di amare autenticamente. Dunque il tema dell’eros – che non va confuso immediatamente con l’amore erotico o con l’erotismo – non può essere taciuto o sottovalutato. La ripresa che ne fa AL personalmente non mi ha scandalizzato; anche se non vi ho ritrovato la profondità e la limpidezza dell’enciclica di papa Ratzinger su questo tema. Inoltre, per almeno due volte (nn. 151) si usa impropriamente la parola “erotismo”, che come ho detto è, letteralmente, una estremizzazione dell’eros. Darei un consiglio ai lettori “scandalizzati”: se volete capire AL, su questo punto, leggete Deus caritas est. Il tema della castità non esclude l’eros. Nella vita coniugale, il processo di assunzione dell’eros nell’agape, porta esattamente all’amore casto, dove desiderio e dono sono chiamati ad armonizzarsi. La castità non contraddice l’eros, ma lo educa e ne è la piena fioritura. Quello che oggi è quasi del tutto obliato e taciuto è soprattutto l’importanza della castità in preparazione al matrimonio. Non si tratta solo del profilo morale o moralistico (evitare il peccato), ma anche di quello antropologico: il rispetto della castità pre-matrimoniale fa parte di una “iniziazione” che porta a purificare e approfondire il rapporto reciproco nell’amore.

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Papa Francesco

D. È d’accordo con chi sostiene che nell’AL vi è un “cambiamento di paradigma”: la Chiesa dovrebbe, cioè, adeguare la Legge alle esigenze delle persone e non più conformare, o meglio convertire, la vita delle persone alla Legge? Indirettamente, papa Francesco pare abbia sostenuto questo, avendo lodato (all’ultima congregazione generale dei gesuiti) il teologo moralista Bernard Haring, il quale fu il primo a sostenere questo “cambiamento di paradigma”.

R. Il concetto di cambiamento di paradigma oggi va molto di moda in ambito ecclesiale. Io non amo questa espressione e la ritengo inappropriata, anzi sviante nelle discipline teologiche. Proviene dal libro del filosofo della scienza Thomas Kuhn, che coniandola intendeva esprimere, fra l’altro, il carattere non cumulativo e discontinuo nella storia della scienza. Infatti il titolo del libro in cui usa l’espressione “cambiamento di paradigma” è La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Si tratta di “rivoluzioni”, perché il mutamento di paradigma consiste nella falsificazione del linguaggio e delle teorie scientifiche precedenti, comporta una cesura rispetto a quanto assodato e condiviso dalla comunità scientifica in una fase antecedente. Ora non è questo il modo con cui la comprensione della verità rivelata che è Cristo cresce e progredisce nella Chiesa sotto l’azione dello Spirito. Per J. H. Newman, che è maestro indiscusso su questo punto, lo sviluppo è organico, come quello di un corpo vivo. Dunque qui vi è un problema di linguaggio molto serio, dietro il quale si nasconde, a mio modo di vedere, un grave errore di metodo e di approccio alla stessa categoria di tradizione.

A proposito della questione del rapporto fra persona e legge, poi, bisogna ricordare che le norme concrete sono le articolazioni di quella Legge vivente che è la Persona di Gesù Cristo. Non possiamo pensare, in teologia, che la legge sia la norma scritta o formulata, opposta alla persona singolare e concreta. La norma normans, da cui tutto scaturisce, è Gesù Cristo, vivente nello Spirito nella Chiesa e nei cuori dei fedeli, e che si comunica nello Spirito attraverso i sacramenti. Una morale che ripartisse dai sacramenti (nel libro insisto molto su questo punto), invece che dalla sola Scrittura o dall’etica generale, penso che sarebbe più consapevole del fatto che la legge è Gesù vivente e comunicantesi nei sacramenti alle persone viventi che li celebrano e li vivono.

D. Il matrimonio cristiano è veramente un “bellissimo ideale” irraggiungibile per molti battezzati? Dio domanda davvero l’impossibile?

Rispondere affermativamente a queste domande vorrebbe dire ritenere irraggiungibile e impossibile la santità. Ma la santità, cioè l’esperienza dell’evangelo nella vita, non è né un ideale irraggiungibile né un impossibile. O meglio, è impossibile alle sole forze umane, ma non con la grazia di Dio, al quale “nulla è impossibile”. “Tutto posso in colui che mi dà forza”, scrive S. Paolo. Di questa potenza della grazia mi sembra ci siamo un po’ dimenticati, tutti presi come siamo dalle “ferite” e dalle “fragilità” da integrare. Poi la parabola precisa: il seme dà dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno. Non in tutti il vangelo del Regno fiorisce allo stesso modo e con la stessa limpidezza. Ma fiorisce. E, come dice il profeta, la Parola di Dio non torna a Lui senza effetto, senza aver operato ciò per cui è stata inviata.

D. Non trova che l’AL, insista eccessivamente sulle attenuanti? Si può amare davvero il peccatore se non si condanna e denuncia il suo peccato?

R. Ritengo che questa sia una tendenza realmente presente in AL e non foriera di buoni risultati. Naturalmente le attenuanti vanno tenute in considerazione nella valutazione morale. Vi è in proposito una tradizione importante e preziosa nella riflessione teologica che non va trascurata, ovviamente. Ma insistere sulle attenuanti facendone quasi la chiave di volta per risolvere il problema dell’ammissione ai sacramenti delle coppie irregolari, significa puntare con poca audacia evangelica sulle condizioni minimali per poter ammettere ai sacramenti. Questo tipo di strategia minimalista si è già dimostrata deleteria e fallimentare negli ultimi decenni, anzi già prima del Vaticano II, per quanto riguarda la pastorale sacramentale in genere. Specialmente per l’iniziazione cristiana. Ci è accontentati della presenza alle lezioni di catechismo, dei pochi incontri in preparazione al matrimonio, anche per persone che abitualmente non hanno una pratica cristiana e un cammino di fede autentico. Offriamo, in altri termini, i sacramenti al ribasso, come se la grazia non esigesse una risposta di fede seria e impegnativa. Il risultato di questo neo-quietismo è che questi sacramenti non danno nessuno frutto nella vita: i cresimati spariscono dalle parrocchie il giorno dopo la cresima, i matrimoni falliscono a percentuali altissime, e via dicendo. Di fatto, almeno nella nostra Europa, abbiamo già collaudato da decenni il metodo delle attenuanti, pensando che anche se la fede è scarsa, la vita estranea al vangelo, la conoscenza delle verità di fede inesistente, ecc., “tuttavia” i sacramenti non si rifiutano a chi li chiede, perché la grazia — ci si illude — può operare anche in queste situazioni-limite (AL dice “cosiddette irregolari”) o ai limiti dell’irregolarità. Si fa così riferimento a una teologia dell’ex opere operato male applicata. Ostinarsi in questo minimalismo significa votarsi alla desertificazione della Chiesa.

D. Non le pare, inoltre, che in questo documento prevalga una versione orizzontale e non verticale del peccato, come se questo non fosse in primo luogo un’offesa contro Dio?

R. Questo aspetto non mi sembra di averlo notato, almeno stando alla mia lettura e comprensione del testo. Farei invece un’altra osservazione: il termine peccato tende quasi a confondersi con quello di “fragilità” e di “imperfezione”. Almeno nel cap. 8 dell’esortazione, fin dal titolo. Ma la fragilità e l’imperfezione non sono sovrapponibili al peccato, fanno parte della condizione creaturale e storica dell’uomo, che la Bibbia chiama basar (carne), per indicarne appunto il carattere debole, perfettibile e vulnerabile. Anche Gesù, facendosi carne (sarx) ha assunto una condizione fragile e sottoposta alle condizioni temporali e storico-perfettibili di sviluppo progressivo della sua umanità e anche della sua azione salvifica, ma non per questo ha sposato il peccato. Questa non chiarezza nel linguaggio tende ad attenuare il carattere drammatico e perverso del peccato, facendone in fondo una semplice “fragilità” da compatire e alla fine da “integrare”. Nel libro accenno anche a questo aspetto molto problematico. Mentre la fragilità può essere accolta e “integrata”, il peccato no! Esso va condannato senza remissione, perché è il cancro che ci divora.

D. Vi possono essere davvero situazioni (etica della situazione) di cui si possa dire — dopo aver fatto “discernimento” — che Dio permetta all’uomo di continuare a vivere in uno stato di peccato, per poter evitare un altro male?

R. Direi proprio di no! Dio può avere pazienza con noi, e di fatto ne ha infinitamente, magari può anche accettare che per il momento non siamo in grado di obbedire alla sua parola e sollecitarci a crescere. Nella storia veterotestamentaria egli ha tollerato in Israele dei livelli di coscienza religiosa e morale perfino rudimentali, educando lentamente il popolo eletto verso livelli più elevati. Dunque Dio non ci abbandona, anche se siamo in condizioni spirituali disastrose. Ci prende lì dove siamo. Ma per portarci fuori dall’Egitto! Dopo la pienezza della rivelazione cristologica, la Chiesa ha il compito di annunciare la parola di Dio fedelmente e di denunciare ciò che la contraddice, proprio per non far perdere agli uomini il senso e la direzione del cammino di liberazione verso la pienezza dell’umanità redenta.

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“Non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito”

D. Alla fine del suo libro, lei sostiene che il vero modo per uscire dalla crisi che ha investito il matrimonio cristiano è una sana ed efficace iniziazione cristiana, in modo che vengano formati e cresciuti veri cristiani. Ciò vale anche per le vocazioni sacerdotali e religiose? Quali sono, secondo lei, nell’iniziazione cristiana, gli errori fatti finora e da evitare in futuro?

La nostra cultura occidentale ha praticamente smarrito il senso, la pratica e la comprensione di cosa sia “iniziazione”. Per comprenderlo abbiamo bisogno della storia o dell’antropologia culturale, che ci fanno conoscere le pratiche di iniziazione nelle culture cosiddette tradizionali o antiche. Nel mondo della vita religiosa e della formazione al sacerdozio sono rimasti dei moduli iniziatici abbastanza evidenti, ma anch’essi non di rado indeboliti. Data la carenza di vocazioni anche qui si tende ad abbassare le condizioni di idoneità e di cambiamento esistenziale richieste.

L’iniziazione è un processo rituale complesso, fatto di gradualità e di passaggi incisivi che cambiano la persona e tendono a integrarla in una comunità che preesiste all’iniziando e di cui questi deve accettare le regole, la visione del mondo, le relazioni. Ora l’attuale pratica dell’iniziazione cristiana non prevede più nessun “passaggio” e “cambiamento” reali in chi fa questo cammino. La vita di un ragazzo che riceve la prima comunione o la cresima non registra nessun “prima” e nessun “dopo”, non si lancia nessuna sfida, non si pone nessuna condizione vitale e seria per questi accessi. Questi bambini e ragazzi ricevono l’impressione che chiunque può ricevere questi sacramenti, basta che frequenti la scuoletta del catechismo e la sufficienza è garantita (ancora la politica delle attenuanti!). Non c’è praticamente nessun esame della vita di fede e della fede professata alla fine, basta in fondo la frequenza. Così, ragazzi che non sanno il Padre nostro o il Credo o non pregano mai personalmente e per i quali la Messa domenicale è una pratica del tutto esteriore e legata al certificato di frequenza, ricevono la cresima. Diciamo che per un diploma o un esame universitario si suda molto di più. E infatti diploma e laurea segnano ancora degli spartiacque nella vita dei giovani che si ricordano poi a lungo, mentre i sacramenti dell’iniziazione lasciano indifferenti e apatici, non lasciano nessuna traccia.

Non solo, ma è assente anche la “comunità” come ambiente in cui si percepisce di entrare a far parte. Battesimo, cresima, eucaristia – come le fede in genere – sono vissuti come momenti privati e non di rado anche contornati da comportamenti pagani (si vedano le mega-feste al ristorante per la prima comunione, con un’atmosfera non molto spirituale…). Oggi non basta amministrare i sacramenti agli individui, ovvero fare “il cristiano”. Bisogna iniziare a costruire delle “comunità cristiane”, con relazioni e legami di fede fra i suoi membri, nelle quali si avverta che vige uno stile di vita diverso da quello del mondo. Se questo non c’è, se un bambino o un giovane non percepisce che in quella comunità si vive in modo alternativo rispetto alla mentalità di questo mondo, non ci può essere neanche l’iniziazione, il senso di appartenenza, l’identità di fede. Ma di questo chi parla? Ci si preoccupa di riparare con toppe discutibili i danni a valle (vedi la comunione ai divorziati risposati), ma l’iniziazione al matrimonio semplicemente non esiste. Si parla di Chiesa in uscita, ma il vero problema è che nessuno entra più o sente di entrare effettivamente nella Chiesa o desidera entrarci. Ho l’impressione che sia necessaria una revisione profonda, radicale, dei nostri metodi pastorali, partendo ancora una volta dalle esigenze poste dai sacramenti stessi e non dalla sociologia o dalla psicologia dell’età evolutiva. Ma di questo non c’è vera consapevolezza neppure nello stesso episcopato.

D. Grazie per la sua disponibilità.

R. Grazie a voi per l’attenzione.

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