La Tunica stracciata di Tito Casini: nel fumo di satana, verso l’ultimo scontro…

Cari Amici, nei nostri video ed articoli, abbiamo citato spesso una raccolta grandiosa – purtroppo poco conosciuta – dello scrittore Tito Casini. Egli ha vissuto in prima persona i cambiamenti epocali tra gli anni Sessanta precedenti il Concilio Vaticano II e l’immediato “dopo”, cambiamenti sia sociali e culturali, quanto quelli inerenti la Chiesa e quindi – essendo egli un cattolico perseverante e praticante – inclusa la vita dei fedeli all’interno della Chiesa, la vita sacramentale e le varie novità….

Nostra Premessa:

Tito Casini…. chi era?

interessante che il curatore del sito è: – dal quale abbiamo preso tutta integrale la raccolta e che vi offriamo in formato pdf – Fra Pier Damiani Maria obl. O.S.B. Cam. una consolazione dal momento che non si tratta di un laico…

Scriveva così Tito Casini:

I protestanti, ho detto (dimenticando che dovevo dire i «fratelli separati», e di quale fraternità si tratti è palese presentemente in Irlanda), per dire appunto i padri e maestri di questi nostri riformatori da cui essi, come il paggio Fernando della famosa partita, si riconoscono di gran lunga superati, e ricordare ciò che il santo pontefice pur ora citato diceva e prediceva, in quella sua prima enciclica alle soglie del secolo: «L’errore dei protestanti diè il primo passo su questo sentiero; il secondo è del modernismo; a breve distanza dovrà seguire l’ateismo».

Siamo prossimi a questo, all’ultimo stadio, la «morte di Dio», e la Riforma, la «nostra», n’è la propellente: il principio protestante, cuius regio illius et religio, ogni regione la sua religione, ha nel «pluralismo liturgico» – nella legge del culto autonoma, regionale, lingua e riti, rispetto a quella del Credo – il suo equivalente, con la conseguenza che la religione, la vera, la buona, langue in ogni regione, che il pluralismo si risolve in nullismo, avverandosi in tutte, anche in quelle dove il volgare è meno volgare, meno barbaro, ciò che il Marshall scriveva, per i cattolici riformisti, dell’Inghilterra riformata: «Non c’illudiamo: non sarà la liturgia in volgare a far venire gl’invitati al festino di nozze. La Chiesa anglicana canta il più bell’inglese davanti ai banchi più vuoti, mentre il (cattolico) più ignorante in latino intende benissimo ciò che fanno i monaci di Solesmes».

e ancora scriveva profeticamente negli anni ’70:

Risorgerà, vi dicevo… [la Santa Messa Tridentina] risorgerà, come rispondo ai tanti che vengono da me a sfogarsi (e lo fanno, a volte, piangendo), e a chi mi chiede com’è che io ne sono certo, rispondo (da «poeta», se volete) conducendolo sulla mia terrazza e indicandogli il sole… Sarà magari sera avanzata e là nella chiesa di San Domenico i frati, a Vespro, canteranno: Iam sol recedit igneus; ma tra qualche ora gli stessi domenicani miei amici canteranno, a Prima: Iam lucis orto sidere e così sarà tutti i giorni (in questo pdf a pag.206, e da pag. 215 LA TUNICA STRACCIATA, ulteriori riflessioni dell’Autore).

Il sole, voglio dire, risorgerà, tornerà, dopo la notte, a brillare, a rallegrar dal cielo la terra, perché… perché è il sole e Dio ha disposto che così fosse a nostra vita e conforto. Così, aggiungevo, è e sarà della Messa – la Messa «nostra», cattolica, di sempre e di tutti: il nostro sole spirituale, così bello e santo e santificante – contro l’illusione dei pipistrelli, stanati dalla Riforma, che la loro ora, l’ora delle tenebre, non debba finire; e ricordo: su questa mia ampia terrazza eravamo in molti, l’altr’anno, a guardar l’eclisse totale del sole; ricordo, e quasi mi par di risentire, il senso di freddo, di tristezza e quasi di sgomento, a vedere, a sentir l’aria incaliginarsi e addiacciarsi via via, ricordo il silenzio che si fece sulla città, mentre le rondini, mentre gli uccelli scomparivano, impauriti, e ricomparivano svolazzando nel cielo i ripugnanti chirotteri.

A uno che disse, quando il sole fu interamente coperto: – E se non si rivedesse più? – rammento che nessuno rispose, quasi non si addicesse, in questo, lo scherzo… Il sole si rivide, infatti, il sole risorse, dopo la breve diurna notte, bello come prima e, come ci parve, più di prima, mentre l’aria si ripopolava di uccelli e i pipistrelli tornavano a rintanarsi.

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Tito Casini era scrittore, magari anche poeta, squisitamente Cattolico che pur rimanendo fedele alla Chiesa non accettò tuttavia gli eventi che susseguirono al Concilio, denunciandoli attraverso questi scritti malinconici se vogliamo, ma anche profetici e poetici…

Scrisse negli anni ’30 “Storia Sacra”, in tomo di 500 pagine impregnate di Tradizione pura da lui riportata in tono poetico, come si porta un gioiello ad una sposa…

Nato a Cornacchiaia, frazione di Firenzuola, il 23 novembre 1897, da una famiglia di antiche tradizioni rurali e religiose, Tito Casini fin dalle prime classi elementari dimostrò una particolare attitudine alla letteratura.

Nella notizia biografica redatta da Nicola Lisi, in “Antologia degli scrittori cattolici”, è definito “Avvocato per la laurea e per gli occhiali a stanghetta, per tutto il resto colto, intelligentissimo montanaro, esaltatore e difensore di tutto ciò che vive e si muove all’ombra dei suo campanile”.

Ben presto, infatti, depose la toga di avvocato, una professione che necessitava di compromessi che maL si confacevano al suo carattere, e si unì a un gruppo di scrittori fiorentini, tra i quali Papini, Bargellini, Giuliotti e Betocchi. Insieme fondarono il “Frontespizio”, la famosa rivista pubblicata a Firenze tra il 1929 e il 1940. Muore nel 1987.

L’uscita de “La vigilia dello sposo”, uno dei libri più gradevoli di Tito Casini, veniva, sul “Frontespizio” del giugno 1930, così salutata:

“E’ un diario quaresimale, dove, con squisitezza d’animo l’autore canta, in pulitezza trecentesca di lingua e spontaneità di affetti, la vita liturgica dei periodo di penitenza che precede la Pasqua, armonizzandola in sapiente vigilia ed attesa della Resurrezione, massimo e sublime evento per il cristiano… Lo stile, ravvivato specialmente dal brio e dalla belle proprietà dei parlare toscano, fiorisce spontaneo sotto la penna dei giovane e brioso scrittore, al quale va dato atto di farsi leggere con gusto”. Per chi scrive libri è davvero il massimo.

Ne “La Tunica stracciata” troviamo così una raccolta di brani, scritti poeticamente, che descrivono di una grande apostasia nella Chiesa a seguire dopo il Concilio…

“sublime” per le parole usate, ma drammatico al tempo stesso è questo racconto della “prima messa riformata di Paolo VI” intitolato: IL GRANDE SACRIFICIO che vi invitiamo  a meditare:

” Non questo, non così egli, Paolo VI, aveva creduto o mostrato di credere – allorché, parlando dalla finestra quel non limpido mezzogiorno del 7 marzo 1965, aveva detto: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina. La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento… Il bene del popolo esige questa premura».

E quasi dolendosi, quasi rimpiangendo, al contempo, ciò che si è obbligato a immolare (come Iefte l’amata figlia che ignara del voto paterno gli è venuta incontro festosa con cembali e danze e saputolo gli chiede di poter prima andare con le compagne sui monti a piangere la sua giovinezza): «È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino: lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante».

E ancora, ancora e più conscio della gravità di ciò che diceva: «Ha sacrificato, la Chiesa, tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio nei vari popoli…»

Così aveva parlato e scritto il devoto suo antecessore Giovanni, dimenticando la sua nota mitezza per percuotere con le più dure parole e minacce chi avesse parlato o scritto, o lasciato, da Superiore o da Vescovo, che si dicesse o scrivesse in contrario, «contra linguam Latinam in sacris habendis ritibus»; così il suo ascetico predecessore, pio XII; così il forte Pio XI; così tutti i sommi Pontefici – nel loro cognome di «romani» – con ragioni e sanzioni come quelle che la Veterum Sapientia confermava poc’anzi nel nome stesso della civiltà universale… Tutti, fino a lui, e d’essere stato lui a spezzar la catena, a chiuder la tradizione, a privar la Chiesa di quella sua «propria lingua», pareva non essere interamente tranquillo, come di un cambiamento che i fatti avrebbero potuto giustificare o condannare: «Questo per voi, fedeli… e se saprete davvero…»

Aveva visto da sé, poche ore innanzi, nell’àrribito di una chiesa, che cosa comportasse nell’àmbito della Chiesa il sacrificar, col latino, «l’unità di linguaggio nei vari popoli».

Vari popoli, d’Europa e d’altre parti del mondo, riconoscibili al colore, all’accento, alla foggia degli abiti, erano infatti casualmente presenti, quella mattina, nella chiesa d’Ognissanti, in via Appia Nuova, dov’egli s’era portato a celebrar la sua prima messa riformata. Erano stranieri, di religione cattolica, affluiti per diporto a Roma ai primi richiami della primavera in arrivo, e si trovavano lì per assolvere il precetto festivo; ma, differentemente dal loro solito di ferventi cristiani, essi se ne stavan lì muti e come smarriti, stranieri, anche lì, tra quei pur fratelli di fede ch’erano i fedeli romani, dai quali li separava, precisamente, ciò che prima li univa, li affratellava; e il Papa sentiva con pena, pena di padre comune, il loro silenzio, le loro mancate risposte ai suoi auguri, detti in lingua italiana, che il Signore fosse con essi, che il Signore desse loro la pace; li sentiva, li vedeva assenti, quasi dissenzienti, quando nella lingua degli italiani diceva ciò che nella lingua di tutti si era detto – o cantato, nelle dolci universali note del gregoriano – fino a stamani: … unum Deum… unum Dominum… unam Ecclesiam… conforme al monito dell’Apostolo: ut unanimes, uno ore honorificetis Deum… Con pena aveva sentito, il Papa, quel loro muto lamento: Extraneus factus sum fratribus meis, et peregrinus filiis matris meae, avvertendo com’egli stesso, il padre, si fosse, così, fatto loro straniero e pellegrino, in quella Roma patria spirituale di tutti.

Con pena aveva così visto e sentito – in quella sua prima messa dalla brutta denominazione di «riformata», che nei paesi di molti fra quegli stranieri equivaleva a «protestante» – i primi effetti del «sacrificio» detto poi in quel discorso, la rinunzia della Chiesa alla sua univocità, temendone di conseguenza quello dell’unanimità…

Con pena, e si tradiva nel tono stesso della sua voce: voce di chi dubita, entro sé, dubita di ciò che afferma: voce che si fece sicura, giulivamente sincera, allorché, terminando, disse: «Noi pregheremo la Madonna, la pregheremo ancora in latino», e in latino intonò il Saluto dell’Angelo, a cui si uni, dalla piazza, la folla cosmopolita, fatta, per quella comune lingua, non più di stranieri gli uni agli altri, ma di fedeli, di credenti, gli uni agli altri fratelli.


Casini, Tito
La Tunica Stracciata. Lettera Di Un Cattolico Sulla ‘Riforma Liturgica’. Prefazione del Cardinale Antonio Bacci – Roma : Sates, 1967. – 103 p. 20 cm.


La prefazione del Card. Antonio Bacci

Il Cardinale Antonio Bacci

Città del Vaticano, 23 febbraio 1967

Sono stato invitato a fare una breve presentazione di questo volumetto di Tito Casini. Non posso né voglio rifiutarmi, anzi lo faccio volentieri, pur con alcune riserve, sia perché conosco Tito Casini fin dalla prima fanciullezza e lo apprezzo come uno dei primi scrittori cattolici d’Italia per quel suo stile fresco, caustico e sincero, che mi ricorda l’aria pura e montanina della sua e mia Firenzuola, sia perché egli è un cristiano tutto di un pezzo e può ripetere quello che diceva di sé un antico scrittore sacro: «Christianus mihi nomen, catholicus cognomen»; sia infine perché se questo suo scritto può sembrare ad alcuni poco riverente, tutti però dovranno riconoscere che è dettato soltanto da un ardente amore verso la Chiesa ed il suo decoro liturgico.

In ogni modo si può e si deve affermare che quanto egli scrive in questo volumetto non è mai contro ciò che ha stabilito nella sua Costituzione Liturgica il Concilio Vaticano II, ma piuttosto contro l’applicazione pratica che della detta Costituzione Liturgica alcuni smaniosi ed esagerati innovatori vorrebbero fare ad ogni costo. E non partiamo di quello che, su questo piano sdrucciolevole, stanno facendo alcuni con le cosiddette cene Eucaristicbe, con le messe-beat, con le messe yè-yè, con le messe dei capelloni, e “simili lordure”.

Lo faccio volentieri, ho detto, perché penso che queste pagine, che ricordano quelle ancora più focose, ardite e spregiudicate di S. Caterina da Siena, potranno raddrizzare qualche idea e fare del bene.

Confido pertanto che gli interessati vorranno perdonare generosamente all’Autore certe frasi che potranno sembrar loro poco riguardose, riflettendo che esse sono state vergate non per offendere, ma solo perché il cuore era esacerbato da certe innovazioni, che sembrano e sono vere profanazioni.

Del resto c’è sempre da imparare per tutti; anche dalla voce dei laici, specialmente di quei laici, che sono, come Tito Casini, dei perfetti cattolici.

E qui non posso fare a meno di ricordare che è stata costituita una Federazione Internazionale per la salvaguardia del latino e del canto gregoriano nella liturgia cattolica, Federazione che annovera innumerevoli persone di ogni ceto di undici Nazioni, e che ha sede in Svizzera, a Zurigo. Essa pubblica una rivista che con frase latina si intitola “Una Voce”, frase latina che per noi può essere anche italiana, perché la nostra lingua nazionale, come è stato detto, è quasi un dialetto latino; ed il latino della liturgia, erede del “sermo rusticus” parlato dal popolo, può essere inteso facilmente, almeno in gran parte, meglio anzi di certe traduzioni barbare, per le quali tradurre è lo stesso che tradire.

Nel numero di gennaio di quest’anno la detta rivista asserisce che “sente il dovere di denunciare certe situazioni di fatto, che assolutamente non corrispondono al rinnovamento auspicato dal Concilio”. La detta Costituzione Conciliare (art. 36, 1) ha stabilito come principio generale la conservazione del latino nei sacri riti, pur concedendo che si possa nelle lezioni ed in certe determinate parti della Messa usare il volgare, se ciò si ritiene utile ad una migliore intelligenza da parte del popolo. Ma l’uso totale ed esclusivo del volgare, come si la in molte parti d’Italia, non solo è contro il Concilio, ma causa anche un’intensa sofferenza spirituale per molta parte del popolo.

Penso quindi che la supplica inviata alla Conferenza Episcopale dalla sezione italiana della detta Associazione Internazionale per la salvaguardia della lingua latina e della musica sacra nella liturgia cattolica, meriti essere presa in attenta e favorevole considerazione, affinché non avvenga che mentre si celebra in un pessimo italiano la Messa, e gli altri sacri riti in lingua volgare, ed anche in esperanto, il Latino – lingua ufficiale della Chiesa – sia poi bandito totalmente dai sacri riti come un cane lebbroso.

Sembra perciò opportuno che, almeno nelle Chiese Cattedrali, nei Santuari, nei centri turistici e dovunque vi è sufficiente numero di clero si celebrino almeno alcune Messe in latino, ad ore stabilite, per rispondere al giusto desiderio di coloro – stranieri ed italiani – che preferiscono il latino al volgare ed il canto gregoriano a certe canzonette volgarucce che oggi tentano di sostituirlo, certo con poco decoro del culto cattolico.

+ Antonio Card. Bacci


 

Tito Casini, lo scrittore di Cornacchiaia

Una delle figure più importanti, nel panorama culturale di Firenzuola, è senza dubbio Tito Casini. Su d lui esistono numerose sue biografie e scritti critici.

Nato a Cornacchiaia nel 1897, da un’antica famiglia del luogo di solide tradizioni religiose e assai legata alla propria terra: suo zio era don Stefano Casini, pievano della locale chiesa di San Giovanni Decollato e scrittore e storico; suo fratello, don Leto, si prodigò nel periodo delle leggi razziali, per difendere e assistere numerose persone di religione ebraica, tanto da meritarsi, da parte dello Stato di Israele, il riconoscimento di “Giusto tra le nazioni “.

Dopo aver frequentato la scuola elementare di Cornacchiaia, compì, verosimilmente, i suoi studi ginnasiali e liceali presso il Seminario di Firenzuola. Si laureò in legge a Pisa, ma non esercitò mai la professione di avvocato in quanto, per la sua rigorosa morale, non si sentiva di difendere in giudizio, e magari di fare assolvere, persone colpevoli di un un qualche reato. Volse, quindi, i suoi interessi verso ambienti della cultura letteraria fiorentina degli anni ’20.

Nel 1929, insieme a Papini, Bargellini e Giuliotti, fondò la rivista “ Il Frontespizio “, che fu pubblicata fino al 1940.
Sempre nel 1929 dette alle stampe anche il suo primo lavoro: “La bella stagione”. Fu l’inizio di una lunga carriera di scrittore che lo portò a pubblicare ben 26 libri, fra i quali ricordiamo: “I giorni del ciliegio”, “I giorni del castagno” (articolo qui), “Al fuoco e all’ombra”, “Per un’Italia migliore”, “Medicina”.

I protagonisti dei suoi racconti sono spesso i poveri, gli umili, gli ultimi, persone che incontrava tutti i giorni, persone che dal basso facevano la storia di Cornacchiaia. Li faceva protagonisti e li rendeva importanti, dando loro un senso di dignità che il mondo non riconosceva loro e focalizzando l’attenzione del lettore, non sulla condizione sociale ma sulla loro dimensione umana e morale.

Fu scrittore dei poveri che rimase povero in spirito egli stesso, rifuggendo da quegli onori che la sua professione avrebbe potuto dargli. Fu narratore di storie e di luoghi del suo paese dal quale non volle mai separarsi e dove, anche quando si era ormai trasferito a Firenze, tornava spesso e per lunghi periodi.

Fu difensore del mondo e della vita rurale visti come baluardo della cultura cattolica nei confronti del laicismo che avanzava. Questa strenua difesa delle tradizioni lo portò a non cogliere i segni di rinnovamento della Chiesa, facendolo scherare decisamente su posizioni molto critiche nei confronti del Concilio Vaticano II (fece scalpore, nel 1968, il suo libro “La tunica strappata”; e questo lo portò anche, a torto, a venire emarginato dalla cultura ufficiale dagli anni settanta in poi, non riconoscendo quello che di buono c’era nel suo messaggio letterario: quella attenzione per i più deboli e quella difesa delle tradizioni di solidarietà e del mondo rurale che oggi in tanti stanno riscoprendo.

Il suo è un mondo contadino, forse idealizzato, popolato di persone che conducono una vita modesta ma dignitosa, persone che vivono del loro lavoro e che vivono in pace con se stesse e con il mondo. Sono l’emblema del povero evangelico, distaccato dalle ricchezze ma attaccato agli affetti e con una profonda fiducia nel Signore.

Se poi si volesse definire Tito Casini in poche parole si potrebbe utilizzare quelle con le quali Nicola Lisi, scrittore di Scarperia, e con lui animatore del “Frontespizio, ce lo descrive nella sua “Antologia degli scrittori cattolici”: “Avvocato per laurea e per gli occhiali a stanghetta, per tutto il resto colto, intelligentissimo montanaro, esaltatore e difensore di tutto ciò che vive e si muove all’ombra del suo campanile”.

Tito Casini morì nel 1987, riposa nel cimitero di Cornacchiaia.

Sergio Moncelli

 

 

 

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