153 D. Perché il Romano Pontefice è il Pastore universale della Chiesa?
R. Perché Gesù Cristo disse a san Pietro, primo Papa: “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e darò a te le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche in cielo, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche in cielo”. E gli disse ancora: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle”.
192 D. Chi è il Papa?
R. Il Papa, che noi chiamiamo pure il Sommo Pontefice, o anche il Romano Pontefice, è il successore di san Pietro nella Cattedra di Roma, il Vicario di Gesù Cristo sulla terra e il capo visibile della Chiesa.
193 D. Perché il Romano Pontefice è successore di san Pietro?
R. Il Romano Pontefice è successore di S. Pietro, perché S. Pietro nella sua persona riunì la dignità di Vescovo di Roma e di capo della Chiesa; stabili in Roma per divina disposizione la sua sede e ivi mori, perciò chi viene eletto vescovo di Roma è anche l’erede di tutta la sua autorità.
194 D. Perché il Romano Pontefice è il Vicario di Gesù Cristo?
R. Il Romano Pontefice è il Vicario di Gesù Cristo, perché lo rappresenta sopra la terra e ne fa le veci nel governo della Chiesa.
195 D. Perché il Romano Pontefice è capo visibile della Chiesa?
R. Il Romano Pontefice è il capo visibile della Chiesa, perché egli la regge visibilmente coll’autorità medesima di Gesti Cristo, che ne è il capo in visibile.
196 D. Qual è dunque la dignità del Papa?
R. La dignità del Papa è la massima fra tutte le dignità della terra, e gli dà potere supremo ed immediato sopra tutti e singoli i Pastori e i fedeli.
197 D. Può errare il Papa nell’ammaestrare la Chiesa?
R. Il Papa non può errare, ossia è infallibile nelle definizioni che riguardano la fede e i costumi.
198 D. Per qual motivo il Papa è infallibile?
R. Il Papa è infallibile per la promessa di Gesù Cristo e per la continua assistenza dello Spirito Santo.
199 D. Quando è che il Papa è infallibile?
R. Il Papa è infallibile allora soltanto che nella sua qualità di Pastore e Maestro di tutti i cristiani, in virtù della suprema sua apostolica autorità, definisce una dottrina intorno alla fede o ai costumi da tenersi da tutta la Chiesa.
200 D. Chi non credesse alle solenni definizioni del Papa, quali peccato commetterebbe?
R. Chi non credesse alle definizioni solenni del Papa, o anche solo ne dubitasse, peccherebbe contro la fede, e se rimanesse ostinato in questa incredulità, non sarebbe più cattolico, ma eretico.
201 D. Per qual fine Dio ha concesso al Papa il dono della infallibilità?
R. Dio ha concesso al Papa il dono della infallibilità affinché tutti siamo certi e sicuri della verità che la Chiesa insegna.
202 D. Quando fu definito che il Papa è infallibile?
R. Che il Papa è infallibile fu definito dalla Chiesa nel Concilio Vaticano I, e se alcuno presumesse di contraddire a questa definizione sarebbe eretico e scomunicato.
203 D. La Chiesa nel definire che il Papa è infallibile ha forse stabilito una nuova verità di fede?
R. No, la Chiesa nel definire che il Papa è infallibile non ha stabilito una nuova verità di fede, ma solo, per opporsi a nuovi errori, ha definito che l’infallibilità del Papa, contenuta già nella Sacra Scrittura e nella Tradizione, è una verità rivelata da Dio, e quindi da credersi come dogma o articolo di fede.
204 D. Come deve comportarsi ogni cattolico verso il Papa?
R. Ogni cattolico deve riconoscere il Papa, qual Padre, Pastore e Maestro universale e stare a lui unito di mente e di cuore.
Tratto dal “Catechismo di San Pio X”
§3. “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi [i fedeli] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone”.
Codice di Diritto Canonico (212.3)
Approfondimenti
Il potere delle chiavi verità e mistificazioni
Il ruolo del Papa, Vicario di Cristo (prima parte)
L’infallibilità papale non è infallibilismo (parte seconda)
Paolo IV: Cum ex apostolatus officio, infallibilità papale
Pastor Aeternus: la dottrina sulla vera infallibilità del Pontefice
Primato Petrino e Romano? Nota ufficiale del 1998 della CDF e la Communionis Notio
Preghiera per la Chiesa e la Cattedra petrina da un breviario del 1860
Celestino V e la sua rinuncia storica al Papato
Celestino V e Bonifacio VIII poi uno schiaffo chiude il papato medioevale
Papa Gregorio XI, l’ultimo Papa della cattività avignonese
“Amate il Papa”, il discorso dimenticato di Paolo VI
P. Serafino Lanzetta: “Su questa Pietra”: Il vero significato del Papato
P. Serafino Lanzetta: Super hanc petram… Se Atene piange, Sparta non ride…
Roberto Mattei: Antonio Socci e “Il segreto di Benedetto XVI”
Roberto de Mattei: Che cos’è la Tradizione? Qual è la missione del Papa? Risposte cattoliche
Roberto de Mattei: Perché sono fiero di essere un ultramontano (papista)
José Antonio Ureta: In difesa dell’ultramontanismo (papismo)
José Antonio Ureta: Il modernismo, non l’ultramontanismo (papismo) è la sintesi di tutte le eresie
José Antonio Ureta: Leone XIII, il primo papa liberale che andò oltre la sua autorità?
José Antonio Ureta: Capire il vero ultramontanismo (papismo)
Corrado Gnerre: Il Papa è sempre infallibile?
Corrado Gnerre: Un Papa può affermare eresie?
Bonus
Quanto segue è tutto dalle riflessioni di Don Mario Proietti, pubblicati sulla sua pagina di Facebook, riflessioni che vogliamo far nostre, condividendo le attese, le speranze, come anche le giuste critiche alle ambiguità e ad alcuni problemi che, un certo concetto di “sinodalità”, ha generato…🙏😇
L’ULTIMA PROVA DELLA CHIESA: QUANDO IL NEMICO SI TRAVESTE DA ZELO
di Don Mario Proietti cpps – del 17 luglio 2025 su Facebook
Non nascondo un certo disagio nel leggere alcuni commenti, soprattutto da parte di sacerdoti, a delle riflessioni pubblicate su Facebook che facevano riferimento a episodi recenti di celebrazioni della Messa “verso Oriente” o all’uso di forme liturgiche più tradizionali. Ho cercato di tacere, di lasciar correre, ma alla fine non ci sono riuscito. Così, desidero condividere con voi, cari amici, questa mia riflessione ad alta voce. Con rispetto, ma anche con franchezza. Perché amare la Chiesa significa anche aiutarsi a non perdersi lungo la strada.
C’è un passaggio poco citato, ma straordinariamente profetico, del Catechismo della Chiesa Cattolica. È il numero 675, e recita così: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il ‘mistero di iniquità’ sotto la forma di una impostura religiosa che offrirà agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. L’impostura religiosa suprema è quella dell’Anticristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.”
Non si parla di un nemico esterno, brutale e dichiarato, ma di una tentazione interna, religiosa, seducente, che propone una “soluzione apparente” al prezzo della rottura ecclesiale. Non un errore grossolano, ma una falsificazione dello spirito cristiano, travestita da ortodossia, da purezza, da zelo.
Conosco personalmente tanti sacerdoti e laici che amano e vivono con dignità il Vetus Ordo. Ho celebrato io stesso la forma antica del Rito Romano, ho gustato la profondità liturgica che può offrire. Ma accanto a questo tesoro, che può edificare davvero il popolo di Dio, esiste un atteggiamento spirituale pericoloso, sempre più diffuso: la tentazione dell’illuminazione separata.
Si parte dal giusto desiderio di “recuperare la bellezza”, si prosegue con una comprensibile critica a certi abusi liturgici o banalizzazioni teologiche, e poi… scatta qualcosa. Chi ha “scoperto” il Rito antico inizia a sentirsi diverso, migliore, più autentico. E da lì il passo è breve verso il disprezzo degli altri, verso una vera e propria sindrome del messia: “Io ho capito, gli altri sono ciechi”. Questo stato d’animo non è più cristiano, è l’anticamera dell’eresia, e nella storia della Chiesa ha prodotto sempre gli stessi frutti marci: gnosticismo, pelagianesimo, puritanesimo, spiritualità dualiste, i fraticelli ribelli, e via via tutte quelle forme in cui l’uomo spirituale, isolandosi, si illude di difendere Dio… contro la Chiesa.
Spesso chi si riconosce nella Tradizione ha denunciato, con ragione, le derive moderniste che hanno infettato il linguaggio ecclesiale, la dottrina, la liturgia. Il rischio reale di una Chiesa “liquida”, che smarrisce il dogma, svuota il sacro, e relativizza il Vangelo, è stato denunciato con coraggio da papi come san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Ma, ed è qui il punto cruciale, non si combatte il modernismo usando le sue stesse armi. Se il modernismo ha generato confusione dottrinale, non lo si corregge con l’arroganza teologica. Se ha sfigurato la liturgia, non lo si raddrizza con un culto senza carità. Se ha prodotto disobbedienza, non si risponde con una disobbedienza più raffinata, travestita da “fedeltà superiore”.
Perché quando il tradizionalismo si fa giudice del Papa, accusatore dei vescovi, disprezzatore dei confratelli, non è più Tradizione: è un’altra forma di scisma, solo più elegante, ma ugualmente avvelenata. Entrambi, modernisti e neotradizionalisti, si pongono fuori dalla comunione reale: gli uni perché dissolvono il deposito della fede, gli altri perché lo recintano come proprietà esclusiva. Ma entrambi rifiutano la Chiesa concreta, quella che Cristo ha voluto, con la sua gerarchia, le sue ferite, la sua storia.
Il Catechismo è chiaro: “La suprema impostura religiosa è quella dell’Anticristo, uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.” Ogni volta che un cristiano, o peggio, un sacerdote, usa la verità per glorificare se stesso, per farsi paladino di un’idea contro la Chiesa reale, sta già vivendo dentro questo inganno. Sta glorificando sé, la sua intelligenza, la sua purezza, la sua ortodossia, al posto dell’umile obbedienza del Figlio. E così perseguita la Chiesa nel nome della Chiesa. Non brucia le basiliche, ma corrode l’unità, umilia i fratelli, si pone come arbitro delle coscienze, dimenticando che “chi odia il proprio fratello è omicida” (1Gv 3,15).
Il pericolo oggi non è solo fuori, è dentro. Non è solo nel mondo che nega Dio, ma anche nei cuori di chi dice “Signore, Signore”, ma non vuole entrare nella comunione del Corpo. Quanti cristiani oggi, nel nome della Tradizione, stanno rinnegando il volto della Chiesa, e diventano pietre di scandalo! Non si tratta di discutere su riti, preferenze, teologia liturgica. Si tratta di discernere lo spirito: se ciò che vivo mi unisce o mi separa. Se mi fa umile o superbo. Se mi porta ad amare la Chiesa reale, o a crearne una ideale in cui l’unico santo sono io. La vera Tradizione è ubbidiente, paziente, feconda. Si china, non schiaccia. Costruisce, non distrugge. E quando soffre, non si separa, ma offre se stessa in sacrificio, come Cristo.
Nel contesto di questa prova, anche i vescovi e i pastori della Chiesa sono chiamati a discernere e correggere con carità, non con durezza cieca. Il dolore di molti fedeli legati alla liturgia tradizionale, o semplicemente desiderosi di adorare Dio in ginocchio, non può essere ridicolizzato, né represso con misure punitive o provocatorie. Quando un vescovo proibisce un gesto devoto, come l’inginocchiarsi alla comunione, o tratta con sufficienza le istanze di chi chiede rispetto per i segni del sacro, non sta esercitando la sua autorità come servizio, ma come imposizione. Questo irrigidimento non favorisce la comunione, ma radicalizza gli animi, calcarizza le opposizioni, offre ai ribelli la scusa per restare tali.
Tutto questo nasce, purtroppo, da una paura malcelata che serpeggia in parte dell’episcopato contemporaneo. Alcuni vescovi sembrano temere la Tradizione come se fosse un avversario da contenere, non un tesoro da custodire, e arrivano a forzare l’interpretazione della Scrittura e della teologia pur di giustificare decisioni contrarie alla sensibilità cattolica più profonda. Così accade che si producano esegesi artificiose, come nel caso di certi argomentazioni bibliche palesemente forzate, pur di difendere un’impostazione preconcetta.
Ma cosa sono queste paure? Si teme lo scandalo esteriore più della perdita della verità. Hanno un’ossessione per la unità apparente, per l’ordine, per la gestione del consenso. Si teme che accogliere certe istanze, come la comunione in ginocchio o in bocca, possa “riaprire” questioni che credevano chiuse o, peggio, mettere in discussione le scelte conciliari (o post-conciliari).
Non possiamo non considerare che c’è un trauma ancora aperto in molti ambienti episcopali: il Concilio Vaticano II non è mai stato serenamente recepito, ma o idolatrato o combattuto. Alcuni vescovi sono cresciuti con l’idea che il “preconcilio” fosse il nemico, e tutto ciò che richiama la Tradizione venga percepito come una minaccia di restaurazione autoritaria. Così, davanti a un fedele che si inginocchia o chiede la comunione in bocca, scattano schemi ideologici, non riflessioni teologiche. E da lì si arriva alla distorsione. Ma così facendo, preferiscono una comunione solo di facciata, e si dimenticano che la vera comunione ecclesiale si fonda sulla verità. Una menzogna liturgica non unisce: corrode silenziosamente.
Inoltre, sembra che alcuni si trovano umanamente disarmati, senza veri strumenti spirituali, culturali o liturgici per sostenere la complessità del momento. Non sono padri forti, sono spesso amministratori stanchi, mediatori politici tra opposte pressioni. In questo stato, ogni differenza, anche legittima, è vissuta come una minaccia personale. E quando si ha paura di perdere il controllo, si impone, si vieta, si forza, anche la verità.
Forse, il problema risiede anche nel fatto che accogliere certe istanze può far apparire un vescovo “tradizionalista”, e questo, in un contesto ecclesiale polarizzato, è percepito come un rischio di carriera o di isolamento. Allora si preferisce falsificare la dottrina pur di mostrarsi “moderati” o “progressisti illuminati”. Ma qui la coscienza episcopale si degrada, perché si serve l’opinione e non la Verità.
Infine, e lo dico tremando, forse la radice più profonda è questa: alcuni non credono più realmente che la Chiesa sia di Cristo, che il culto sia atto di adorazione, che i sacramenti siano reali. Vivono la fede come linguaggio, non come realtà. E allora tutto ciò che richiama il senso del sacro, della presenza reale, della trascendenza, li mette a disagio. Preferiscono l’assemblea gestibile al Mistero che inchina. E quando un fedele si inginocchia, ricorda loro che Dio è più grande di loro, e questo, per chi ha smarrito la fede viva, fa paura.
Il dramma è che queste paure, invece di proteggere la Chiesa, la espongono ancora di più alla divisione profonda. Perché mentre si cerca di impedire un gesto devoto (come inginocchiarsi o ricevere in bocca), si legittimano deviazioni gravi, si lasciano correre abusi, si proteggono retoriche ideologiche che svuotano la fede del popolo. Così si allontanano i fedeli sinceri e si rafforzano i ribelli.
Il tempo della prova è già in atto. L’“ultima prova” non sarà forse un evento spettacolare, ma una lenta corrosione della comunione ecclesiale, fino a renderla irriconoscibile. Chi non veglia, chi non si purifica interiormente, chi non prega e non ama, sarà facilmente sedotto da un cristianesimo senza la Chiesa, da una dottrina senza obbedienza, da una liturgia senza carità.
Per questo oggi più che mai bisogna chiedersi non solo cosa crediamo, ma come viviamo ciò che crediamo, e soprattutto: “lo viviamo con la Chiesa, o contro di essa?”
Chi ama davvero la Tradizione, non la difende dalla Chiesa, ma nella Chiesa. E se deve soffrire per essa, lo fa come i santi: in silenzio, in preghiera, in obbedienza e con mitezza.

ACQUE PROFONDE, REMI FRAGILI: UN MONITO PER I NOSTRI TEMPI
di Don Mario Proietti cpps – del 17 luglio 2025 su Facebook
«O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti» (Purgatorio, Canto II, vv. 1–6)
“O voi che vi trovate in una piccola barca, desiderosi di ascoltare (il mio canto) e seguite da lontano la mia nave che solca le acque con il canto, tornate a rivedere le vostre coste: non avventuratevi in alto mare, perché forse, smarrito me (la guida), voi stessi restereste perduti.”
Con questo avviso Dante esortava i lettori a non seguirlo nel viaggio se non adeguatamente preparati. Non è un monito di superbia, ma di carità: le acque del mistero non si solcano con leggerezza. Ci vuole una navicella adatta, o si rischia di affondare, o peggio: di trascinare altri a fondo.
Tutto il pomeriggio ho ascoltato il farneticare di persone che parlano di teologia, liturgia, dottrina, con la leggerezza di chi commenta una partita di calcio. Eppure, solo pochi anni fa, ci è stato imposto di tacere, di non discutere, di fidarci solo degli “esperti”, perché non eravamo laureati in medicina. Oggi invece, tutti teologi. Tutti liturgisti. Tutti esperti di ermeneutica conciliare.
Ma qual è la verità?
Oggi i temi più delicati della fede cattolica vengono sbattuti sui social come merce da mercato. Frasi estrapolate, citazioni usate come armi, giudizi duri e assoluti, lanciati come pietre contro la Sposa di Cristo. E il peggio non è solo la superficialità con cui si parla del Sacrificio Eucaristico, della Messa, della Chiesa… È che i più semplici, i meno formati, perfino i più devoti, vengono usati come strumenti inconsapevoli in battaglie che non comprendono fino in fondo.
Una volta li avremmo protetti. Avremmo detto: “Fermati, questa è materia sacra. Ci vuole studio, discernimento, guida”. Oggi invece si dice: “Condividi, reagisci, infiammati!”. Si fa leva sullo zelo per scardinare la fiducia. Si scambiano emozioni forti per discernimento spirituale. Si confonde la fedeltà a Dio con il giudizio sommario contro la Chiesa.
Ma davvero crediamo che Dio voglia questo? Che approvi chi grida “tradimento!” ogni volta che qualcosa non è come la immagina? Davvero pensiamo che si possa costruire qualcosa distruggendo tutto ciò che non ci piace?
Vorrei dirlo con voce calma ma ferma: state giocando col fuoco. Non con quello delle polemiche, ma con il fuoco sacro della fede. State mettendo in bocca ai piccoli parole troppo grandi. State dividendo il Corpo di Cristo per un’idea. E rischiate di fare della vostra lotta un idolo.
Una volta questi dibattiti si svolgevano nei circoli accademici, tra studiosi che parlavano con rispetto e rigore. Oggi si consumano nei commenti sotto i post, dove i nomi dei papi vengono accostati a giudizi sprezzanti, le Costituzioni apostoliche vengono impugnate contro la comunione ecclesiale, e il dolore del passato viene usato per giustificare la rabbia di oggi.
Ma questa non è lotta per la verità. È confusione. E in molti casi è scandalo.
No, non è colpa dei semplici. È colpa di chi li fomenta. Di chi strumentalizza la loro fede sincera per alimentare uno scontro che ha perso di vista il cielo. È una strage di innocenti, senza spargimento di sangue, ma con ferite profonde nell’anima.
Alla fine, tutti quelli che oggi vengono invocati o accusati, papi, teologi, riformatori, liturgisti, sono già davanti a Dio. Ma noi? Noi siamo vivi. E questo è il nostro tempo. Tocca a noi scegliere se viverlo con fede e pazienza, oppure con amarezza e disprezzo.
Dal «Commento sul vangelo di Giovanni» di san Cirillo d’Alessandria, vescovo
(Lib. 12, 1; PG 74, 707-710)
Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi
Nostro Signore Gesù Cristo stabilì le guide, i maestri del mondo e i dispensatori dei suoi divini misteri. Volle inoltre che essi risplendessero come luminari e rischiarassero non soltanto il paese dei Giudei, ma anche tutti gli altri che si trovano sotto il sole e tutti gli uomini che popolano la terra. È verace perciò colui che afferma: «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (Eb 5, 4). Nostro Signore Gesù Cristo ha rivestito gli apostoli di una grande dignità a preferenza di tutti gli altri discepoli.
I suoi apostoli furono le colonne e il fondamento della verità. Cristo afferma di aver dato loro la stessa missione che ebbe dal Padre. Mostrò così la grandezza dell’apostolato e la gloria incomparabile del loro ufficio, ma con ciò fece comprendere anche qual è la funzione del ministero apostolico.
Egli dunque pensava di dover mandare i suoi apostoli allo stesso modo con cui il Padre aveva mandato lui. Perciò era necessario che lo imitassero perfettamente e per questo conoscessero esattamente il mandato affidato al Figlio dal Padre. Ecco perché spiega molte volte la natura della sua missione. Una volta dice: Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla conversione (cfr. Mt 9, 13). Un’altra volta afferma: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). Infatti «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 17).
Riassumendo perciò in poche parole le norme dell’apostolato, dice di averli mandati come egli stesso fu mandato dal Padre, perché da ciò imparassero che il loro preciso compito era quello di chiamare i peccatori a penitenza, di guarire i malati sia di corpo che di spirito, di non cercare nell’amministrazione dei beni di Dio la propria volontà, ma quella di colui da cui sono stati inviati e di salvare il mondo con il suo genuino insegnamento.
Fino a qual punto gli apostoli si siano sforzati di segnalarsi in tutto ciò, non sarà difficile conoscerlo se si leggeranno anche solo gli Atti degli Apostoli e gli scritti di san Paolo.
