Le gravi affermazioni scismatiche del card. Kasper

Non cambia la dottrina, ma solo la pastorale: il diabolico inganno dei novatores.

“Eminenza, pensa che la dottrina possa cambiare?”, viene chiesto al cardinale Walter Kasper. Ecco la risposta: “La dottrina non può essere cambiata. Tuttavia, a parte il fatto che esiste uno sviluppo della dottrina che va sempre tenuto in considerazione, e cioè l’evidenza che essa non è una laguna stagnante quanto un fiume che scorre, una tradizione che vive insomma, occorre anche distinguere bene fra ciò che è dottrina e ciò che invece è disciplina. Tutti i Concili ecumenici prima del Vaticano II hanno fatto questa differenza fondamentale, riconoscendo che la disciplina può cambiare quando le situazioni mutano. In merito ai divorziati risposati, ad esempio, fra il Codice del 1917 e il nuovo del 1983 ci sono sviluppi nella disciplina importanti. E, dunque, oggi si può ulteriormente fare nuovi passi in merito. Del resto è il Papa a chiedere dibattito, anche se c’è chi vuole fermarlo”. (1)

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Penne più autorevoli delle nostre hanno risposto egregiamente (2) a queste parole, noi aggiungiamo alcune riflessioni per far rilevare a tutti la gravità non solo del pensiero, ma pure dell’atteggiamento assunto dal porporato tedesco.

“La dottrina non può essere cambiata”: ovviamente non possiamo che concordare. Ciò che umanamente, ragionevolmente e razionalmente stona – in quanto inaccettabile – è quel “tuttavia” con cui il cardinale Kasper filtra la gravità delle sue affermazioni. Se la dottrina non può essere cambiata, non possono esistere né “tuttavia”, né “ma”, né “però”. Questo lo affermò proprio Nostro Signore Gesù Cristo, ammonendo i suoi discepoli di tutte le epoche: “Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21). “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).

Scaltramente Kasper, da una parte, parla di dottrina immutabile, ma dall’altra insinua il cambiamento quando sostiene che “esiste uno sviluppo della dottrina che va sempre tenuto in considerazione, e cioè l’evidenza che essa non è una laguna stagnante quanto un fiume che scorre, una tradizione che vive insomma, occorre anche distinguere bene fra ciò che è dottrina e ciò che invece è disciplina”.

Lo “sviluppo dottrinale” è un progredire, partendo sempre da quello che la dottrina dice, mai adattandone il contenuto. È vero che la disciplina della Chiesa è suscettibile alle esigenze del tempo che vive, ma non certo ai cambiamenti di rotta a seconda delle mode, così come ci rammenta San Paolo: “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie” (2Tim 4,3). Dunque, la disciplina può essere suscettibile ad alcune modifiche, sempre in linea con il diritto divino, ma usare la prassi per scavalcare la dottrina, non si può.

Il precedente codice di diritto canonico, citato da Kasper, al Canone 2536, prevedeva la scomunica per i risposati (3) – una scomunica che era un atto dovuto, perché era la conseguenza della scelta dei coniugi che rinnegavano le promesse fatte davanti a Dio divenendo, in sostanza, infames, cioè privati da se stessi della buona fama (così si esprimeva il Codice di Diritto Canonico del 1917) – perciò non più in comunione con la Chiesa.

Che cosa è cambiato con il nuovo Codice del Diritto Canonico? Secondo il cardinale tedesco ci sarebbe stata un’evoluzione sulla dottrina riguardante la famiglia e i casi irregolari. È davvero così? Assolutamente no.

Il (nuovo) Codice di Diritto Canonico stabilisce: «Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (can. 915). (4)

Il 7 luglio del 2000, anno giubilare, papa Giovanni Paolo II fece pubblicare sull’Osservatore Romano la spiegazione di come questo canone riguardasse direttamente anche i divorziati-risposati. Si tratta di magistero pontificio, non è un’opinione personale dell’allora vescovo di Roma.

«Negli ultimi anni alcuni autori hanno sostenuto, sulla base di diverse argomentazioni, che questo canone non sarebbe applicabile ai fedeli divorziati risposati. Viene riconosciuto che l’Esortazione Apostolica Familiaris consortio del 1981 aveva ribadito, al n. 84, tale divieto in termini inequivocabili, e che esso è stato più volte riaffermato in maniera espressa, specialmente nel 1992 dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650, e nel 1994 dalla Lettera Annus internationalis Familiae della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò nonostante, i predetti autori offrono varie interpretazioni del citato canone che concordano nell’escludere da esso in pratica la situazione dei divorziati risposati. (…)

Qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante.

Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cfr. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti.

La formula “e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto” è chiara e va compresa in un modo che non deformi il suo senso, rendendo la norma inapplicabile. Le tre condizioni richieste sono:

a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare;

b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;

c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale.

Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – “soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi” (Familiaris consortio, n. 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo.

3. Naturalmente la prudenza pastorale consiglia vivamente di evitare che si debba arrivare a casi di pubblico diniego della sacra Comunione. I Pastori devono adoperarsi per spiegare ai fedeli interessati il vero senso ecclesiale della norma, in modo che essi possano comprenderla o almeno rispettarla. Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime». (5)

Come fa allora il cardinale Kasper a parlare di “sviluppo” della dottrina, nella sua erronea interpretazione, affermando un cambiamento di rotta del nuovo Diritto Canonico sui divorziati-risposati? L’unico cambiamento che c’è stato è di aver inserito i “divorziati risposati” in un contesto penitenziale differente, ma non c’è l’accettazione, da parte della Chiesa, di un’unione coniugale in contrasto con il Comandamento del Signore.

Il Documento qui sopra appena riportato, del 2000, sottolineava già all’epoca la strumentalizzazione delle parole del Canone a vantaggio di una imposizione volta a modificare la dottrina sul chi debba ricevere la Comunione.

Il cardinale Kasper, inoltre, replicando alle critiche, ha peggiorato la situazione, addirittura facendosi scudo del papa regnante: “Va bene. Vogliamo un dibattito. Non vogliamo una Chiesa che dorme, vogliamo una Chiesa vivace. Ma quello che ha fatto un quotidiano italiano, cioè pubblicare la mia relazione senza autorizzazione, è contro la legge. Secondo me, in questo modo hanno sabotato la volontà del Papa. Loro vogliono chiudere la discussione, mentre il Papa vuole una discussione aperta”. La discussione sul tema continuerà, ha ricordato Kasper, “nel Sinodo. E dipenderà dal Sinodo e dal Papa, il risultato. Io ho fatto una proposta, come mi ha richiesto di fare il Papa, e si vedrà come procederà la discussione, nei prossimi due anni”. (6)

Nessuno vuole “fermare il Papa”, caro cardinale Kasper! Noi vogliamo “fermare” lei!

L’affermazione è di una gravità inaudita perché apre scenari ad un vero atto scismatico nel quale, il cardinale Kasper, attribuisce a papa Francesco una certa dichiarata “volontà”.

Un conto infatti è la “volontà” del Papa a discutere su questi temi, ad aprire il dibattito e ad ascoltare tutte le correnti per mantenere inalterata la dottrina, ciò è legittimo ed è la prassi della Chiesa bimillenaria, altra cosa è attribuire al Papa la volontà a realizzare le intenzioni di Kasper del quale egli si sarebbe fatto solo “umile portavoce”. Non a caso il porporato dice “secondo me”, “non secondo il Papa”, ma alla fine finisce per attribuire al vescovo di Roma la volontà di questo cambiamento.

Se ciò avvenisse, purtroppo, lo scisma sarà inevitabile.

La Chiesa è sempre desta... è lui quello che se la dorme!

La Chiesa è sempre desta… è lui quello che se la dorme!

Nessuno di noi vuole una Chiesa “addormentata”, ma la “vivacità” di cui si parla non può essere la “dogmatizzazione” dell’accantonamento dei dogmi in nome della “misericordia pastorale”.

Ciò che pretende Kasper è di una tale assurdità che persino uno studente di teologia del primo anno lo capirebbe.

Infatti, dopo il (pseudo) periodo penitenziale che Kasper propone per i divorziati-risposati, per essere riammessi al sacrificio eucaristico, ci si ritroverebbe al punto di partenza, senza aver risolto il problema alla radice, senza aver verificato che il matrimonio sacramentale fosse valido oppure nullo. Perché il problema, per la Chiesa, è proprio questa seconda “unione”, non il matrimonio sacramentale.

Quindi, ci faccia capire, signor cardinale Kasper: è sufficiente una penitenza di continenza temporanea per togliere “il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale”? Ciò Lei propone è fariseismo allo stato puro, è pura ipocrisia. Esattamente il contrario di quanto insegna la già citata Familiaris Consortio.

Infatti, non è forse dovere della Chiesa guidare, istruire ed accompagnare il fedele fuori dalla sua situazione manifesta di peccato? Non è forse necessario che la persona incorsa in un grave peccato faccia di tutto per non commetterlo più?

È davvero questa la “volontà” del papa regnante, spingere i risposati a giustificare la loro situazione di adulterio e concubinato (termini scomparsi nella nuova pastorale post-conciliare)? Roma vuole forse “abolire” il sesto comandamento? Non possiamo crederlo. Non dobbiamo crederlo. Non vogliamo crederlo.

Il cardinale Kasper era stato “congelato” molto diplomaticamente da Benedetto XVI dopo il suo pensionamento, papa Francesco lo ha riportato alla ribalta citandolo nel suo primo Angelus del quale, tuttavia, il teologo domenicano Padre Giovanni Cavalcoli O.P. ne aveva coraggiosamente denunciato alcuni contenuti poco ortodossi con la dottrina cattolica quali, per esempio “La lunga sconsiderata ed ingannevole attività ecumenica del cardinale Kasper” (7).

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma a noi premeva approfondire la gravità delle affermazioni di Kasper perché, se fosse vero che si tratta della “volontà del Papa”, ripetiamo, lo scisma sarebbe inevitabile.

Vogliamo concludere con la “visione” diametralmente opposta a quella di Kasper e dello stesso Pontefice, citando quella di Müller, neo cardinale e Prefetto per la CdF, che aveva già chiuso sulla possibilità di adottare la prassi ortodossa – che prevede la cosiddetta “seconda possibilità” ai divorziati risposati – per la Chiesa cattolica. «È contro la volontà di Dio», scriveva il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’Osservatore Romano, articolo approvato dal Papa Francesco (8).


SETTEMBRE 2014

Non è possibile che il Sinodo possa ignorare la seguente affermazione dottrinale del magistero pontificio della Chiesa:

«Una questione particolarmente dolorosa, come sappiamo, è quella dei divorziati risposati. La Chiesa, che non può opporsi alla volontà di Cristo, conserva con fedeltà il principio dell’indissolubilità del matrimonio, pur circondando del più grande affetto gli uomini e le donne che, per ragioni diverse, non giungono a rispettarlo. Non si possono dunque ammettere le iniziative che mirano a benedire le unioni illegittime. L’Esortazione apostolica Familiaris consortio ha indicato il cammino aperto da un pensiero rispettoso della verità e della carità» (Benedetto XVI, domenica 14 settembre 2008). [9]

Note
1) Intervista al card. Kasper su Repubblica di 11.3. 2014
2) Familiaris Consortio.
3) Can 2356. Bigami, idest qui, obstante coniugali vinculo, aliud matrimonium, etsi tantum civile, ut aiunt, attentaverint, sunt ipso facto infames; et si, spreta Ordinarii monitione, in illicito contubernio persistant, pro diversa reatus gravitate excommunicentur vel personali interdicto plectantur. (CODEX IURIS CANONICI – 1917)
4) Nuovo Codice di Diritto Canonico 1983.
5) DICHIARAZIONE circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati da L’Osservatore Romano, 7 luglio 2000, p. 1; Communicationes, 32 [2000], pp.
6) Il Foglio del 10.3.2014.
7) Riscossa Cristiana del 14.2.2013.
8) Cliccare qui per il testo integrale del cardinale Müller sull’argomento e, ripetiamo, un testo approvato dal Papa per la sua pubblicazione sull’OR e, come vedete, inserito nei testi ufficiali della CdF.
9) Discorso alla Conferenza episcopale francese (Lourdes, 14 settembre 2014).