Cooperatores Veritatis

Mi è stata data una spina nella carne (2Cor 12,7)

Menu

Vai al contenuto
  • Home
  • Dottrina
    • Padri e Dottori
    • Teologia
  • Catechesi
    • Catechist’s Mail
  • Apologetica
    • Biblioteca
  • Mariologia
    • Apparizioni
  • Liturgia
    • Crisi liturgica
  • Oremus
  • Santi e Beati
    • Testimoni
  • Interviste
  • Don Camillo
    • Serafino Lanzetta
    • Alfredo M. Morselli
    • Padre Brown
    • Antonio Livi
    • Carlo Caffarra
    • Francesco Marino OP
    • Riccardo Barile OP
    • Giorgio Bellei
    • Leonardo Ricotta
    • Stefano M. Manelli
  • Dossier
    • Falsi profeti
    • Karl Rahner
    • Mario Palmaro
    • Il Matrimonio
    • Il Celibato
    • Fare chiarezza
    • I Gesuiti
    • Il caso Valtorta
  • Storia
    • Curiosità
  • Vitam Ecclesia
  • Magistero dei Papi
  • Ratzinger
    • Vita
    • Magistero
    • Scritti
    • Pensieri
    • Gesù
    • A-Dio Benedetto XVI (1927-2022)
  • Fatima (1917-2017)
  • Dottrina in rima
  • Video
    • SoundCloud
  • E-books
  • Download
  • Appelli
  • Eventi
  • Donazioni
  • Contatti
  • RadioRomaLibera.org

Gli articoli più belli di Mario Palmaro

13 marzo 201420 febbraio 2023Cooperatores Veritatis Staff

Collezione di articoli di Mario Palmaro, in particolare quelli scritti per il mensile Il Timone.

img005_54fcabd840850

 

Tratto da: Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro, “Viva il Papa!”, Vallecchi, 2010, pp.171 e seguenti

«La fedeltà e l’obbedienza al Papa non va confusa assolutamente con i sentimenti di simpatia, di affetto, di stima umana che si possono provare per la persona del Sommo Pontefice. È del tutto ovvio che questi sentimenti siano un fatto molto positivo, che essi devono essere alimentati, e che sono anzi del tutto comprensibili, visto che normalmente colui che veste i panni del Papa è anche un uomo amabile, buono, pieno di carità e di pazienza, colto, intelligente. Ma sarebbe un errore confondere la grandezza del papato con la grandezza “mondana” di un singolo Papa. Il cattolico ama, difende e segue il Papa perché ama, difende e segue la Chiesa e la sua ininterrotta tradizione. Un Papa può essere più o meno telegenico, può muovere poco o tanto le folle, può apparire più o meno simpatico. Tutto questo conta, ma non è l’essenziale. L’essenziale è riconoscere che la grandezza di questo uomo vestito di bianco dipende da un unico fatto sovrumano: egli è il successore legittimo di una lunga catena di successori dell’apostolo Pietro. Il papato è il centro della Chiesa non per volontà umana, e nemmeno per il carisma comunicativo o per la leadership dell’uomo che incarna il ruolo del Pontefice. Diciamo tutto questo perché l’utilizzo di criteri sbagliati conduce coerentemente a formulare giudizi sbagliati. Capita così di sentire cattolici che si abbandonano a considerazioni banalmente superficiali proprio sulla figura del Santo Padre: “Questo Papa mi piace di meno di quello che c’era prima”, “Questo Papa è più colto del suo predecessore”, “Quel tal Papa sì che era umano, questo è freddo”, “Però, si vede che questo non è italiano”».


 

Il giuramento di Ippocrate

2500 anni fa, in una piccola isola della Grecia, un medico metteva per iscritto le norme fondamentali della sua arte. Nessuno spazio per aborto e eutanasia. E una struggente nostalgia per la divinità. Che oggi è del tutto scomparsa nelle formule moderne dei giuramenti deontologici.

Alla Biblioteca Vaticana si conserva un manoscritto bizantino dell’XI secolo, nel quale si vede un testo greco che occupa il foglio formando una croce. Quel testo emozionante è il Giuramento di Ippocrate, un documento pagano che risale al V secolo avanti Cristo. A scriverlo fu un medico che apparteneva alla corporazione degli Asclepiadi e che visse sull’isola greca di Kos fra il 460 e il 370 a.C.

Ippocrate era un contemporaneo di Socrate, di Democrito, di Tucidide, e visse dunque molti secoli prima dell’avvento di Nostro Signore. Egli ignorava completamente la tradizione e la morale giudaica, e non aveva mai sentito parlare dei dieci comandamenti. Tuttavia, quel copista bizantino dell’anno mille decise di trascrivere il giuramento a forma di croce: perché? Per una ragione molto semplice: Ippocrate è non solo il padre della medicina scientifica moderna, ma l’autore di un documento deontologico che, per ricchezza e profondità, anticipa in modo sorprendente i principali elementi della legge naturale confermati dalla divina Rivelazione. Il Giuramento di Ippocrate è la prova che nell’uomo esiste un’inclinazione naturale verso la conoscenza del bene e del male, come avrebbe magistralmente insegnato nel 1200 Tommaso D’Aquino. Certo, la storia dimostra anche che senza la Rivelazione questa ricerca della verità da parte dell’uomo procede a tentoni, come in una notte caliginosa. Ma si conferma che il bene e la verità possono essere colti, in modo imperfetto, dalla ragione umana.

Ippocrate definì i contenuti dell’arte del buon medico, senza avere a portata di mano né il Vangelo, né il Vecchio Testamento. Innanzitutto, Ippocrate definisce la prima regola di buon senso: evitare di arrecare danno al malato, cosa che la medicina primitiva del tempo rischiava spesso di fare, con azioni maldestre o farmaci inadeguati. In seconda battuta, il Giuramento definisce la illiceità assoluta di due condotte che oggi sono diventate un simbolo del diritto e della medicina moderna: l’aborto e l’eutanasia. 2500 anni fa, un medico ignaro di tutta la moderna scienza medica, ignaro di Gesù Cristo e delle Tavole ricevute da Mosè sul Sinai, proclama che «non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». Queste condotte non vengono definite immorali, o condannate dagli dei, ma sono bollate come azioni che non rientrano negli atti medici. Il medico certe cose, semplicemente, non le fa. E se le compie, si colloca fuori dal recinto dell’arte ippocratica. E la volontà del paziente? Il medico la deve tenere in considerazione, ma non al punto da piegarsi al suo capriccio, e da tradire il bene oggettivo definito dall’arte medica.

In terzo luogo, il Giuramento stabilisce la barriera invalicabile del rispetto del malato. Fatto fondamentale, se si pensa che il medico è l’unico “estraneo” che può toccare il malato e vederlo nell’intimità: «In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi». Ippocrate definisce la perfetta equivalenza di dignità di ogni essere umano: straordinario, in secoli che ammettevano – soprattutto in Grecia – l’idea della schiavitù e dello schiavo nato secondo natura per essere tale.

Il medico ippocratico si impegna a custodire con innocenza e purezza la sua vita e la sua arte, mantenendo il segreto professionale, quasi sacerdote del corpo che non può raccontare quello che il malato gli ha confidato: «ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili».

Ippocrate definisce su un piano razionale i contenuti del suo giuramento, ma la fondazione di ogni virtù è – seppure nelle nebbie degli dei “falsi e bugiardi” – sempre di origine soprannaturale. All’inizio del Giuramento, egli chiama infatti a testimoni le divinità pertinenti la sua arte, perché che senso avrebbe giurare se un Dio non esiste a farsi garante di quell’atto sacro? «Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto».

Così ragionavano i pagani. I medici venuti 2500 anni dopo, i nostri contemporanei, cresciuti in una civiltà con radici cristiane,

hanno fatto strame del testo di Ippocrate. Oggi il giuramento è stato riscritto, cancellando ogni riferimento esplicito all’aborto. Dio è stato sfrattato – ovviamente per rispetto verso la sensibilità delicata degli atei – e non c’è più traccia nemmeno di Apollo medico. È il freddo, gelido vuoto del laicismo.

IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 46


La civiltà dell’aborto

Sono almeno 400 milioni i bambini uccisi dall’aborto in Cina. Una strage prodotta dalla legge del “figlio unico”. Ma se Sparta piange, Atene tace: anche il mondo occidentale è diventato una spaventosa macchina per l’aborto. Così il comunismo e il liberalismo dichiarano guerra totale al bambino non nato.

Ci sono fatti che sono difficili da descrivere, e ancor più da concepire con la fantasia. È impossibile immaginare 400 milioni di esseri umani innocenti che vengono eliminati senza alcuna pietà: la ragione si ribella a un dato che sembra incredibile. Ma chi pensava che con la Shoa si fosse compiuto nella storia il “male assoluto”, ora sarà costretto a ricredersi: 400 milioni di vittime sono una carneficina che fa impallidire i crimini di Hitler, di Stalin, di Pol Pot. Che ridicolizza la terribile mattanza della seconda guerra mondiale, costata 50 milioni di morti. Eppure è successo, e continua a succedere: 400 milioni sono i bambini non nati eliminati con l’aborto nella Repubblica Popolare Cinese. A portare alla luce questa strage è stato il Ministero della Salute di Pechino, secondo il quale negli ultimi trent’anni – da quando esiste la legge sul figlio unico – sono stati praticati in Cina quasi 400 milioni di aborti.

L’aborto obbligatorio…

I contorni di questo spaventoso genocidio sono abbastanza netti: l’agenzia Agi China ha spiegato che gli aborti praticati sono pari ai 336 milioni (13 milioni nel solo 2012), a cui si dovrebbero sommare «403 milioni di donne sottoposte (spesso con la forza) all’introduzione di dispositivi anticoncezionali intrauterini». E com’è noto, la spirale non è un contraccettivo ma un abortivo che impedisce all’embrione di impiantarsi nel corpo della madre. Dunque, 400 milioni rischia di essere una stima per difetto rispetto a quanto è accaduto e accade nel silenzio assordante della stampa occidentale. E tutto questo, nonostante ci troviamo di fronte alla più colossale strage di vite umane pianificata per legge da uno Stato. Perché è spesso l’autorità ad imporre l’aborto per motivi demografici. La Cina ha infatti impegnato molte energie per abbattere la crescita della popolazione, usando le armi più efficaci per perseguire questo obiettivo: sterilizzazione, contraccezione e aborto. Il tutto in un quadro perfettamente coerente con la cultura totalitaria del regime di Pechino, che non propone ma impone le sue scelte al popolo. Ecco così materializzarsi leggi e prassi fortemente ostili alle coppie che si siano macchiate della grave colpa di mettere al mondo più di un figlio. Dal 1980 ad oggi lo Stato cinese ha incassato 380 milioni di dollari per le multe comminate a chi aveva messo al mondo più di un bambino. Inducendo così con la minaccia milioni di padri e di madri a utilizzare l’aborto per evitare guai, oppure per selezionare la nascita dei figli in base al sesso, prediligendo un figlio maschio ed eliminando le figlie femmine.

Il risultato è che nel 2010 in Cina si contavano per ogni 118 maschi solo 110 ragazze. A livello nazionale ciò significa che ci sono 37 milioni di maschi in più rispetto alle donne. Tra pochi anni un quinto degli uomini avrà difficoltà a trovare una donna cinese per sposarsi.

Questa strada ferocemente antinatalista ha portato addirittura – secondo testimonianze riportate da alcuni mass media occidentali – a praticare dei veri e propri aborti coatti e obbligatori, che non hanno lasciato alcuno scampo ai nascituri e alla contraria volontà dei genitori.

…e l’aborto libero

Ma se Sparta piange i suoi figli abortiti, Atene non ride. E non può ridere perché i Paesi campioni della libertà, i simboli della democrazia da esportazione, i paradisi della tutela dei diritti umani sono praticamente tutti quanti delle gigantesche macchine dell’aborto. Negli Stati Uniti, dal 1973 a oggi sono stati censiti 53 milioni di aborti legali. In Francia, dal 1975 gli aborti volontari sono almeno 8 milioni. In Gran Bretagna le vittime dell’aborto sono circa 190.000 all’anno, il che fa stimare gli aborti dal 1967 ad oggi in una decina di milioni. In Italia, dal 1978 si contano circa 5 milioni e mezzo di aborti da legge 194.

Cifre impietose che dicono una cosa sola: i sistemi liberali da decenni hanno legittimato l’aborto e lo praticano su scala industriale. C’è una differenza: ciò che in Cina è coatto in Occidente è frutto della “libera scelta”. Ma questo, paradossalmente, comporta un coinvolgimento di responsabilità delle singole coscienze ben più massivo ed esteso. In Cina si può sperare che l’orrore coinvolga solo i funzionari di partito e i medici ufficiali, e che dunque l’aborto sia frutto di una volontà perversa dello Stato, alla quale un giorno forse i singoli potranno sottrarsi. Ma nel mondo libero sono gli uomini e le donne che, senza imposizione alcuna, scelgono la morte dei loro figli. Una spaventosa corresponsabilità che genera una cultura di morte capillare e ostinata.

L’imbarazzato silenzio del mondo occidentale

L’Onu non ha speso mezza parola per condannare la mattanza obbligatoria di nascituri in Cina. Silenzio da parte dell’Unicef, che pure dovrebbe occuparsi di bambini indifesi. Bocche cucite dalle parti di Amnesty International, spesso così rumorosa quando si tratta di sottrarre un serial killer alla pena di morte. Barak Obama – premio Nobel per la Pace – gira la testa dall’altra parte; il suo motto elettorale era «we can» (“noi possiamo”), ma evidentemente non può rimbrottare la Cina perché obbliga le donne ad abortire. Encefalogramma piatto per l’Unione Europea (anch’essa Nobel per la Pace), troppo impegnata a minacciare l’Ungheria per la sua costituzione che difende vita prenatale e famiglia naturale. Insomma, nonostante le cifre degli aborti cinesi siano impressionanti, e nonostante il carattere illiberale di questa prassi, il mondo occidentale tace imbarazzato di fronte alla strage degli innocenti che si consuma nella terra di Confucio. E tace per due ordini di ragioni.

La prima: la Cina è una super potenza militare, e soprattutto sta avviandosi a diventare la prima potenza economico-finanziaria del pianeta. I sinceri democratici, di fronte ad argomenti così risolutivi, sono pronti a seppellire i principi e i diritti umani sotto una montagna di realpolitik.

La seconda: il bue non può dare del cornuto all’asino. L’Occidente, in materia di aborto, può solo stare zitto. È vero che nel caso cinese il delitto è reso ancor più abietto per via del suo carattere obbligatorio. Ma è anche vero che per poterlo esecrare bisogna ammettere la natura omicida dell’aborto. Ora, gli Stati liberal-democratici proprio questa verità hanno voluto negare attraverso leggi permissive, seguite da decenni di aborti praticati alla luce del sole negli ospedali dello Stato o autorizzati dal potere costituito. Ecco perché «il cosiddetto mondo democratico – per citare Antonio Socci – digerisce tranquillamente, nella più completa indifferenza, l’orrore».

Siamo diventati un poco per volta una nuova civiltà: la civiltà dell’aborto. Ci siamo spinti troppo in là per poter guardare in faccia il mostro. Perché a questo punto dovremmo ammettere che il re, o il presidente della repubblica, la corte costituzionale e i giudici, tutti sono complici di un colossale programma di eliminazione di massa degli innocenti. Né più né meno che il totalitario sistema cinese. Perché chi permette il delitto – e lo finanzia con i soldi dei contribuenti – non è in fondo molto diverso da chi, quel delitto, lo impone con la forza.

***

Ricorda

«Rivendicare il diritto all’aborto, all’infanticidio, all’eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34)». (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, 20).

IL TIMONE N. 123 – ANNO XV – Maggio 2013 – pag. 12 – 13


Contraccezione, perché la Chiesa disapprova

I due aspetti inerenti l’atto coniugale, quello unitivo e quello procreativo, non possono mai essere lecitamente separati. Chi lo fa contraddice la volontà di Dio sull’amore umano. Un uomo che si abitui alla contraccezione finisce con il perdere anche il rispetto della donna.

La Chiesa cattolica insegna che l’uso della contraccezione è gravemente illecito. Detto in parole più semplici: la contraccezione è peccato. Partire da qui è un po’ brutale, e a qualcuno parrà perfino rozzo. Ma indorare la pillola (e mai modo di dire fu più pertinente alla materia) non aiuta nessuno, non fa un buon servizio alla verità e complica cose che, almeno dal punto di vista dottrinale, sono semplici. Difficile, questa sì, è la disciplina di vita che – qui come altrove – il Vangelo ci propone. Ad esempio: Gesù di Nazaret ci ordina di amare (non semplicemente di sopportare) i nostri nemici. Di fronte a un imperativo morale di questa portata – che non trova corrispondenze nel pensiero etico di tutti i tempi – si comprende bene che la sequela di Cristo esige di imboccare strade in salita, mai comode discese.

Ora, poiché la fatica, il sacrificio, la rinuncia, sono articoli che al mercato del mondo non si vendono bene, sono molti anche in casa cattolica coloro che pensano di esercitare la carità occultando la dottrina della Chiesa su questa delicata e cruciale materia. Si tace e così si acconsente alla diffusione di una significativa ignoranza sull’argomento, magari nascondendosi dietro la tesi che «tanto, queste cose le sanno tutti». Così – vuoi per il silenzio dei pastori, vuoi per l’astuzia del gregge (che predilige le discese piuttosto che le salite) –, va a finire che queste cose non le sa più nessuno. O che, se si sanno, si sanno distorte, incomplete, senza un perché.

Proprio la carità esige, in un simile scenario, un colpo di reni e un’inversione di rotta: ritorniamo a dire che cosa insegna la Sposa di Cristo in materia di procreazione umana e di regolazione della fertilità. Risolleviamo chi cade, facendo uso del potente strumento della confessione. Aiutiamo le anime ad aderire con convinzione alla legge di Dio, indicando i mezzi della Grazia e gli strumenti umani che concorrono a fare il bene e a evitare il male. È un diritto di tutti i figli della Chiesa ricevere questo nutrimento sano, essere spronati alla santità ed essere rimproverati, nella misericordia di Dio, ogni volta che escono dalla retta via.

Che cos’è la contraccezione

La contraccezione consiste in una pluralità di strumenti e mezzi che l’intelligenza umana ha messo a punto per tentare di impedire il concepimento come conseguenza dell’atto sessuale. Uno dei più famosi di questi strumenti è la pillola, inventata da Pincus nel 1950 e poi perfezionata nel corso degli anni. Un preparato che, assunto in modo continuativo dalla donna, tende a bloccarne il processo ovulatorio, impedendo così il concepimento. Va subito detto che, secondo alcuni studi attendibili, l’uso prolungato della pillola presenta statisticamente anche effetti abortivi, poiché talora non impedisce l’ovulazione e interviene come antiannidatorio dell’embrione.

Un altro mezzo contraccettivo molto conosciuto e pubblicizzato è il preservativo, che vuole impedire il contatto dei gameti maschili con quelli femminili. Per questi, come per altri strumenti, la qualità di contraccettivi resta vera sia sul piano morale che medico a patto che gli effetti prodotti siano, appunto, precedenti al concepimento; se invece agiscono successivamente (e la pillola è fortemente indiziata di avere anche questo effetto) allora la loro natura cambia e dobbiamo parlare, più propriamente, di abortivi. La cosiddetta “spirale” o IUD è, appunto, un abortivo, sebbene venga spesso presentata come un contraccettivo.

Che cosa dice la Chiesa

La Chiesa parla chiaro: «è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite (…) ogni azione che – o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali – si proponga come scopo o come mezzo di rendere impossibile la procreazione». Questa dottrina è stata solennemente formulata da Papa Paolo VI nell’enciclica Humanae Vitae (HV) promulgata nel 1968. Paolo VI in verità non proponeva un insegnamento nuovo, non rompeva con la tradizione, ma ribadiva quanto già lucidamente espresso dai suoi predecessori. «Dobbiamo ancora una volta dichiarare…» si legge infatti nell’enciclica, poco prima che il Papa ribadisca l’assoluta illiceità dell’aborto volontario diretto, della sterilizzazione diretta e, appunto, della contraccezione. Questa continuità di insegnamento, le ragioni addotte dal Magistero, e la solennità dei pronunciamenti sono tutti sintomi del carattere definitivo e immutabile di questo insegnamento. In altri termini: nessuno si aspetti che la Chiesa modifichi il suo giudizio sulla contraccezione, spinta dalla voglia di “aggiornarsi” o di “adeguarsi” alla mentalità del mondo.

Inoltre, la Chiesa considera questo insegnamento inderogabile, nel senso che nessuna motivazione è sufficiente a rendere lecito l’uso di questi mezzi a scopo contraccettivo. Diverso è il caso di un utilizzo di tali strumenti per finalità che non siano contraccettive: esemplare l’ipotesi dell’uso cosiddetto terapeutico della pillola, quando cioè si assuma il preparato con l’intenzione di curare una malattia, accettando come effetto non voluto e inevitabile la temporanea sospensione della fertilità. Questa ipotesi, peraltro, esige una valutazione molto approfondita sul piano soggettivo, per vigilare sul rischio che i coniugi assumano un habitus morale distorto, e sul piano oggettivo, per le già accennate implicazioni abortive della pillola, che a quel punto imporrebbero una diversa valutazione morale.

Perché lo dice

Come mai la Chiesa dice no alla contraccezione? Perché i due aspetti inerenti l’atto coniugale – quello unitivo e quello procreativo – non possono mai essere lecitamente separati. Nell’Humanae Vitae (n.12), Paolo VI spiega che Dio ha voluto come inscindibili i due significati dell’atto coniugale, poiché quell’atto unisce profondamente gli sposi e li «rende atti alla generazione di nuove vite». In altre parole: Dio ha voluto – in modo ragionevole e pienamente umano – che l’amore fra l’uomo e la donna sia aperto alla vita, alla procreazione; se l’uomo trova il modo di eliminare questa apertura, contraddice la volontà di Dio sull’amore umano. Il processo generativo ha delle leggi; se l’uomo le manipola, si comporta come arbitro delle sorgenti della vita umana, pretendendo di esercitare su di esse un dominio illimitato .

Il lettore avrà notato che la Chiesa definisce tout court «atto coniugale» il rapporto sessuale fra l’uomo e la donna. Questa formula non è casuale, ma denota che esiste un insegnamento preliminare alla condanna della contraccezione; e cioè che l’unico «luogo» lecito all’esercizio della sessualità è il matrimonio: dal tradimento di questo comandamento derivano poi tutti i disordini così diffusi nella nostra società.

I mezzi contraccettivi rappresentano un prodotto della società anti-matrimoniale e libertina, poiché sono proprio funzionali all’esercizio della sessualità come gioco e come divertimento, liberata dalla responsabilità di generare un figlio. Paolo VI, con realismo squisitamente cattolico, lo dice espressamente (HV, n.17): i mezzi contraccettivi aprirebbero una «via larga e facile alla infedeltà coniugale e all’abbassamento generale della moralità». I fatti, e non una teoria, confermano la veridicità di questa previsione, che si è realizzata nel giro di pochi decenni. Un uomo che si abitui alla contraccezione – aggiunge il Magistero – finisce con il perdere il rispetto della donna, ridotta a semplice strumento di godimento egoistico. «Non ci vuole molta esperienza – scrive Paolo VI (HV, n.17) – per conoscere la debolezza umana e per comprendere che gli uomini, e i giovani specialmente, così vulnerabili su questo punto, hanno bisogno di incoraggiamento ad essere fedeli alla legge morale, e non si deve offrire loro qualche facile mezzo per eludere l’osservanza». Parole sante, che mettono in guardia tutti – a cominciare dai sacerdoti e dai teologi moralisti – dal giustificare l’uso della contraccezione, magari con l’illusione di evitare guai più grossi.

Contraccezione e male minore

Capita infatti ormai sempre più spesso che il tema venga “forzato” non tanto nelle sue linee generali, quanto nella sua applicazione pratica e ordinaria: sarebbe meglio non usare la contraccezione, ma poi la vita concreta la renderebbe, almeno in certi casi, lecita e perfino necessaria. In base ai questo modo di ragionare: meglio il preservativo dell’aborto; meglio la pillola dell’aborto; e così via. Nella Humanae Vitae, Paolo VI sconfessa in blocco questo modo di pensare, di agire e di educare. Egli infatti scrive: «Né, a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente infecondi, si possono invocare come valide ragioni il minor male […]. In verità, se è lecito talvolta tollerare un minor male morale a fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male affinché ne venga il bene» (HV, n.14). Parole che risuonano particolarmente attuali oggi, con il diffondersi di una ben diversa e disinvolta “dottrina” del male minore.

Contraccezione, democrazia e collegialità

È utile ricordare che, quando Paolo VI scrive la sua enciclica, ha fra le mani le conclusioni dei lavori di un’apposita commissione di esperti, istituita da Giovanni XXIII nel marzo del 1953. Quel gruppo di vescovi, sacerdoti, teologi, medici, aveva deliberato a maggioranza in senso favorevole alla liceità della contraccezione. Il Papa però non accoglie una simile conclusione, che – scrive Paolo VI – si distaccava «dalla dottrina morale sul matrimonio proposta con costante fermezza dal Magistero della Chiesa » (HV, n.6). Si tratta di un episodio assai significativo, nel quale emerse il primato del Papa e della Tradizione sulle dinamiche democratiche e collegiali che secondo alcuni avrebbero dovuto invece prevalere nel governo della Chiesa e nella definizione della dottrina.

Metodi naturali & gravi motivi

La Chiesa non si limita a vietare la contraccezione, ma propone un’alternativa pienamente lecita e umana: il ricorso ai periodi infecondi. I metodi naturali si differenziano radicalmente dalla contraccezione, poiché essi non impediscono lo svolgimento dei processi naturali, non alterano la fisiologia femminile, ma anzi la rispettano.

La rinuncia all’uso del matrimonio nei periodi fecondi impone un’ascesi e rinsalda l’amore fra i coniugi. Va sottolineato che il ricorso ai metodi naturali è lecito soltanto quando vi siano «gravi motivi» (HV, n.10) che inducono a rinviare una gravidanza. Questa precisazione ci ricorda che l’amore coniugale dovrebbe essere di norma aperto alla vita, e in via eccezionale regolato in modo lecito con i Metodi Naturali per ragioni serie. Non possiamo nasconderci che, spesso, questo rapporto tende a capovolgersi, e a rinchiudere la fecondità in un territorio residuale e quasi eroico. Ciò significa, quindi, che può esistere anche un “uso contraccettivo” dei metodi naturali, moralmente illecito.

Contraccezione e confessione

«Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo – scrive perentoriamente il Papa – è eminente forma di carità verso le anime» (HV, n.29). Questo ammonimento viene collocato da Paolo VI nel paragrafo dedicato ai sacerdoti, affinché non legittimino l’uso della contraccezione. Incontrando le coppie di fidanzati e di sposi praticanti, ci si accorge di quanta sia la confusione tra i cattolici: confessori e teologi zoppicanti, silenzi imbarazzati, paura di chiedere troppo La Chiesa ci insegna che non esiste una «gradualità della legge», e che la scelta di permanere nell’uso della contraccezione è oggettivamente incompatibile con l’assoluzione sacramentale; ciò non impedisce, ma anzi favorisce un cammino pastorale che, in base alla legge della gradualità, aiuti le anime a incamminarsi verso il bene, lottando sinceramente contro il male. Nella fiducia che il bene proposto da Cristo è, con il suo aiuto, sempre possibile.

IL TIMONE N. 112 – ANNO XIV – Aprile 2012 – pag. 36 – 38


Articolo 18. Più facile divorziare che licenziare

In Italia è più semplice abbandonare la moglie (o il marito) che lasciare a casa un dipendente. Incredibile paradosso di una legislazione che ha sacralizzato il rapporto di lavoro e che ha desacralizzato il matrimonio. Abolendo l’indissolubilità fra gli sposi, e “inventandola” in fabbrica.

È più facile divorziare che licenziare un proprio dipendente. Strano ma vero. Ed è sorprendente che nessuno, nemmeno fra i cattolici, si sia accorto di questo paradosso, proprio mentre in Italia infuria il dibattito intorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La legge in vigore parla chiaro: oggi come oggi, se l’imprenditore Mario Rossi ha più di quindici dipendenti, e decide di licenziarne uno, sarà costretto dal giudice a riassumerlo in mancanza di una giusta causa. Ma se quello stesso imprenditore Mario Rossi è sposato e decide di andarsene da casa abbandonando sua moglie, nessun giudice italiano potrà mai obbligarlo a tornare sui suoi passi e a riprendersi la donna che ha sposato.

Si tratta di un fatto clamoroso: l’articolo 18 trasforma il rapporto di lavoro – che è un contratto di diritto civile, che non ha implicazioni affettive, che non comporta l’unione dei corpi e delle anime, che non genera figli – in un vincolo più forte del matrimonio. Impossibile non notare l’enormità di questa situazione, e non offrire una riflessione che si smarchi dai luoghi comuni e dalla solita sudditanza culturale che affligge tanta parte del mondo cattolico.

Articolo 18, le ragioni di una tutela

Si chiama “obbligo di reintegro”, ed è lo spauracchio di ogni imprenditore: consiste nella sanzione inflitta dal giudice, che impone la riassunzione del dipendente che sia stato licenziato senza giusta causa. Anche se il datore di lavoro non vuole più vederlo, non lo vorrebbe nella sua azienda, non si fida più di lui, non lo stima, non “prova più niente per lui”, pensa che “è cambiato, una volta era diverso”; anche se il datore di lavoro nel frattempo ha conosciuto un altro dipendente bravissimo, ha “perso la testa” per le sue doti professionali; anche se tutte queste condizioni si verificassero contemporaneamente, il nostro imprenditore non potrebbe in alcun modo mandare a casa il vecchio dipendente, magari per rimpiazzarlo con quello nuovo, a meno che non abbia una giusta causa di licenziamento per farlo. Insomma: la fine del rapporto fiduciario non permette al datore di lavoro di mettere alla porta il dipendente. Il quale potrà, se lo preferisce, optare per un risarcimento calcolato in un certo numero di mensilità, rinunciando al reintegro in azienda. Ma ciò non toglie che, in termini di stretto diritto, le cose stanno così: fra un datore e un lavoratore ai ferri corti, che hanno magari litigato, il giudice ha non solo il diritto ma il dovere (se viene interpellato) di mettere il dito; e ha un potere che non si limita a infliggere un risarcimento, ma che comporta un obbligo comportamentale, che “piega” letteralmente la volontà e l’autonomia del datore di lavoro.

Mondo del lavoro e parti deboli

Ovviamente, le ragioni storiche che hanno suggerito al legislatore di introdurre nello Statuto dei lavoratori l’obbligo di reintegro non sono peregrine, ma hanno una loro logica. La legge 300 fu approvata nel 1970, ed ebbe tra i suoi maggiori artefici il giuslavorista (di area socialista) Gino Giugni. A quel tempo esistevano ancora le grandi fabbriche, il proletariato e i “capitalisti”; era ancora alta la conflittualità nelle relazioni del lavoro, fatta di scioperi e di sindacati molto combattivi, e di direttori del personale vecchio stampo. In quello scenario, allo Stato pareva giusto intervenire con una legislazione che tutelasse la cosiddetta parte debole nel contratto di lavoro, inserendo un deterrente potentissimo contro il licenziamento facile o arbitrario. E l’obbligo di reintegro fu considerato la soluzione migliore, che avrebbe indotto l’azienda a pensarci due volte prima di lasciare a casa un operaio senza un grave motivo.

Come si vede, non si tratta di una questione banale. Anche perché il rapporto di lavoro di cui stiamo parlando si inserisce in un mondo fortemente secolarizzato, che da decenni ha voltato le spalle alla dottrina sociale della Chiesa e alla visione cristiana della realtà. Ciò vale tanto per l’operaio che per l’imprenditore, salvo lodevoli eccezioni. La conseguenza è l’indebolimento del senso del dovere morale e degli obblighi dettati alla coscienza rettamente formata: da una parte, l’impegno a pagare la celebre “giusta mercede” di cui parla San Giacomo; dall’altra, l’impegno a lavorare sodo e a sentirsi parte stessa dell’azienda. Affievoliti questi imperativi etici, rimane solo il rapporto di forza. Il diritto e il contratto diventano le uniche armi nelle mani delle parti, che vengono difese e consigliate dalle rispettive rappresentanze sindacali.

L’obbligo di reintegro è giusto o sbagliato? La questione è opinabile, e si possono avere sull’argomento posizioni legittimamente diverse. Certo, si tratta di uno strumento, e come tale anche sacrificabile: non lo si trova né sulle tavole della legge consegnate a Mosè sul Sinai, né fra i dogmi della Chiesa cattolica, né tra i precetti della legge naturale. Insomma, parliamone.

E le parti deboli nel matrimonio?

I difensori inamovibili dell’articolo 18 – piuttosto numerosi anche fra i cattolici – dicono: il lavoratore è parte debole, dobbiamo tutelarlo. L’osservazione è fondata. Almeno in linea teorica, poiché oggi non tutti gli imprenditori sono ugualmente “parte forte”. Ma sia pure. Ora, ci chiediamo: e le “parti deboli” all’interno del matrimonio? Per loro non è pensabile alcun tipo di “obbligo di reintegro”?

Un marito se ne va e lascia la moglie contro la sua volontà, senza alcun preavviso e senza che sussista alcuna “giusta causa”. Il giudice potrà obbligare l’uomo a pagare un assegno mensile anche salato. Ma non potrà mai impedire con la forza la distruzione del matrimonio, e la separazione sarà la premessa di un automatico divorzio. In questo caso, nessun sindacato reclamerà “l’obbligo di reintegro” per la povera moglie abbandonata.

Oppure: un marito viene lasciato dalla moglie che ha trovato un uomo con cui rimpiazzarlo. Ci sono anche dei figli in tenera età ma, come si dice oggi, al cuor non si comanda: l’amore deve essere inseguito a qualunque costo, perché altrimenti quella povera donna sarebbe costretta a “rinunciare” ai suoi sentimenti “solo” per tenere in piedi un matrimonio e per accudire dei bambini. Anche in questo caso, le “parti deboli” – il marito sedotto e abbandonato e i bambini che cercano mamma – non possono farci nulla. Potranno, questo sì, pretendere dei soldi, un risarcimento per il danno subito (ammesso che il giudice decida in questi termini, e non punisca viceversa proprio la parte “lesa”, imponendo a lei l’obbligo di mantenimento). Ma nessun giudice potrà obbligare anche un solo padre o una sola madre a “reintegrare” il coniuge per rispetto di quella parte debolissima (altro che il lavoratore!) che sono i figli.

Marxismo e liberalismo: il matrimonio perfetto

Incredibile paradosso di una legislazione che ha sacralizzato il rapporto di lavoro e che ha desacralizzato il matrimonio, uccidendolo nella sua intrinseca indissolubilità. In questa operazione, marxismo e liberalismo sono stati buoni alleati, entrambi riducendo per strade diverse la persona a “homo faber”, ed entrambe attaccando la famiglia come corpo intermedio fondamentale, per rimpiazzarlo con lo Stato oppure con il mercato.

Non ci sfugge che alla legge Fortuna sul divorzio del 1970 si accompagna una mentalità diffusa aberrante, che ormai considera il matrimonio una burletta. Il senso comune considera un posto di lavoro ben più importante della indissolubilità del vincolo fra due sposi. Ma, preso atto di questa situazione concreta, resta da decidere quale sia il dovere della Chiesa e dei cattolici: accodarsi alla marea montante e al trionfo del nichilismo gaio, oppure reagire, rimettendo le cose nel loro giusto ordine? Difendere l’articolo 18 (un vescovo lo ha pubblicamente fatto nelle scorse settimane) e tacere sull’ingiustizia grave della legge divorzista che ha distrutto il matrimonio naturale? Occorre uscire da questo dilemma, e farlo al più presto.

***

Ricorda

«Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Mc 10, 6-9).

IL TIMONE N. 113 – ANNO XIV – Maggio 2012 – pag. 12 – 13


Inganno diabolico

Il demonio non è onnipotente, ma conserva la straordinaria potenza degli angeli. E può confondere e sedurre gli uomini. La Chiesa spiega quali prodigi sono alla portata del diavolo e quali no. Stigmate, levitazioni, estasi possono essere talvolta un “gioco di prestigio” del Nemico. Qualche consiglio per riconoscere la truffa.

Il diavolo può fare dei veri e propri miracoli? No. La Chiesa risponde in maniera inequivocabile: il miracolo è infatti un fenomeno che per definizione eccede le forze di ogni natura, creata o creabile. I demoni però conservano – nonostante il peccato – la potenza propria della natura angelica. Detto in parole più comprensibili all’uomo della strada: il diavolo è molto “più forte” dell’uomo, perché la potenza della natura angelica eccede di gran lunga le forze naturali umane. Questo significa che, anche se non può fare miracoli, tuttavia il diavolo può compiere cose prodigiose, in grado di suscitare l’ammirazione dell’uomo e di trarlo in inganno.

Questo fatto introduce nel tema dei miracoli un argomento decisivo, del quale per altro poco si parla: quali sono i fenomeni straordinari che possono essere causati dai demoni, e quali invece sono certamente estranei alle sue possibilità.

Che cosa il diavolo non può fare

Il diavolo è una creatura, e quindi come tale non è onnipotente. Anche nell’ambito dei fenomeni straordinari, egli opera sotto il segno del limite. In particolare, egli non può:

  • Produrre un fenomeno soprannaturale. Come abbiamo già spiegato, soltanto Dio ha questa facoltà.
  • Creare una sostanza. Creare significa far passare una cosa dal nulla all’essere, ma questo implica un potere estraneo alle creature.
  • Risuscitare un morto. Il diavolo potrebbe far finta di risuscitare un morto, mettere in atto una sorta di “gioco di prestigio”, ad esempio facendo credere che qualcuno sia morto per poi in apparenza resuscitarlo. Ma il diavolo non può fare ciò che invece fece Nostro Signore, quando riportò in vita Lazzaro che era effettivamente morto e defunto nel sepolcro da quattro giorni.
  • Guarire istantaneamente ferite o piaghe profonde. Anche qui si vede tutta l’enorme differenza fra Creatore e creatura: Gesù guariva istantaneamente molti malati che gli venivano messi davanti. Per intercessione della Madonna o dei Santi, Dio opera talvolta guarigioni istantanee. Il demonio non vi potrà mai riuscire.
  • Compiere traslocazioni istantanee di esseri umani. Il demonio, in quanto puro spirito, può trasferirsi da un luogo all’altro senza bisogno di alcun mezzo, né senza farsi fermare dagli ostacoli materiali. Ma se vuole trasportare un corpo, non può farlo senza che questo percorra lo spazio che lo separa dal luogo di partenza al luogo di arrivo. Ne consegue che l’eventuale trasferimento di questo corpo, per quanto rapido, non potrà essere istantaneo.
  • Compenetrare i corpi solidi. Le leggi della fisica impediscono la compenetrazione dei corpi solidi: in uno stesso momento non possono esserci nello stesso luogo due oggetti o due persone. Né un essere umano può attraversare un muro. Il diavolo, puro spirito, può attraversare le sostanze materiali, ma non può far sì che un corpo solido si compenetri con un altro corpo solido, facoltà che è riservata alla sola onnipotenza di Dio. Ergo, il diavolo non può far attraversare un muro a un essere umano. Gesù, viceversa, entrò nel luogo in cui se ne stavano nascosti i discepoli dopo la Pasqua mentre le porte erano chiuse, pur essendo egli non un puro spirito, ma un corpo che recava i segni della crocefissione, che Tommaso poté toccare, e che mangiò insieme ai suoi amici.
  • Compiere vere profezie. Il diavolo è molto abile nel fingere di poter prevedere ciò che accadrà, servendosi della sua capacità di fare previsioni naturali, o usando formule equivoche un po’ come è tipico di certi maghi e fattucchiere. Ma la profezia vera e propria sorpassa le forze diaboliche. Da notare che questo non impedisce l’esistenza dei falsi profeti. I quali, talvolta, possono anche annunciare una cosa vera – come nel caso di Caifa – perché in quel caso essi diventano misteriosamente strumento di Dio.
  • Conoscere i pensieri. Il diavolo può fare delle congetture, ricavando i nostri pensieri dai nostri comportamenti. Ma egli non conosce realmente i pensieri dell’uomo. D’altra parte, il demonio possiede la straordinaria potenza intellettuale propria della natura angelica, e quindi è capace di congetture molto raffinate: conoscendo il nostro temperamento, le abitudini acquisite nel tempo, ciò che abbiamo fatto nella nostra vita passata, l’espressione del nostro volto, l’atteggiamento del nostro corpo, il diavolo può indovinare le nostre più segrete determinazioni interiori. È molto più acuto del più esperto psicologo. Tuttavia, il demonio “ricava” queste congetture, ma non conosce i nostri pensieri direttamente.
  • Penetrare nel santuario dell’anima per piegare la nostra volontà. Il diavolo non può piegare la nostra volontà, o generare delle volontà, perché il territorio dell’anima gli è precluso: solo Dio può entrarvi. Che cosa il diavolo può fare (con il permesso di Dio)
  • Produrre visioni e locuzioni corporali e immaginarie (non quelle intellettuali, che sono riservate a Dio). Il modo per discernere la vera causa di simili fenomeni è quello dei frutti: quando la causa è Dio, l’anima si dà con rinnovato slancio alle virtù; quando la causa è il demonio, l’anima si turba, diventa presuntuosa e superba.
  • Falsificare le stigmate. Il diavolo può riuscirci. Perfino con mezzi meramente umani è stato possibile talvolta produrre fenomeni molto simili, per esempio con l’ipnosi o la suggestione. Per altro, le stigmate soprannaturali si “comportano” in modo molto diverso da quelle che si verificano negli psicotici o negli ipnotizzati: le “vere” stigmate non fanno suppurazione, il sangue che ne esce è puro, non guariscono, producono copiose emorragie benché siano lontane dai grossi vasi sanguigni. Secondo gli studiosi cattolici del fenomeno, talvolta è il demonio a riprodurre le stigmate nei suoi seguaci o nelle sue vittime, allo scopo di confondere la situazione e meglio sedurre i soggetti più deboli. Ancora una volta, sono i frutti a permetterci di distinguere la vera causa del fenomeno: la perfezione di vita, la santità, il distacco dalla schiavitù dei sensi sono sintomi di stigmate di origine divina. In assenza di questi segni, occorre pensare al peggio.
  • Falsificare la levitazione. Essa consiste nella elevazione spontanea dal suolo e nel mantenimento nell’aria del corpo umano, senza alcun appoggio e senza alcuna causa naturale visibile. Il demonio può riprodurre il fenomeno con tutte le apparenze esterne, benché egli non sia in grado di sospendere le leggi di natura, compresa la legge di gravità. Camminare sulle acque, volare, spostarsi rapidamente, fenomeni legati a una seduta spiritica possono quindi essere causati dal maligno.
  • Falsificare la bilocazione. Con il permesso di Dio, il demonio può realizzare la “copia perfetta” della persona da bilocare, che apparirebbe in modo ingannevole come realmente presente.
  • Falsificare l’estasi. In realtà, il demonio non può provocare una vera estasi, poiché intelletto e volontà sono impermeabili ai maneggi diabolici. Tuttavia, egli può contrabbandare delle situazioni analoghe, e indurre in errore l’uomo. Ma anche qui esistono strumenti di discernimento: nell’estasi mistica tutto è santo, soprannaturale e divino. Nell’estasi diabolica, si vive in peccato, si proferiscono parole incoerenti, si cercano luoghi affollati per attirare l’attenzione, si rimane molto turbati quando si ritorna in sé, si viene istigati al male o a un finto bene.
  • Guarire anche istantaneamente certe malattie. Non c’è qui alcuna vera guarigione, ma solo la cessazione delle azioni lesive con le quali il demonio ha prodotto certe strane malattie. All’apparenza, sembra dunque che sia stato operato un miracolo.
  • Produrre odori e profumi. Il demonio può produrre questa falsificazione, sia generando il profumo, sia ingannando gli organi sensibili del singolo soggetto.

Il diavolo nella fede cattolica

Quanto abbiamo scritto fin qui deve sempre essere inserito nel quadro generale delle verità insegnate senza ombra di errore o di smentita dalla Chiesa. E in particolare:

  1. I demoni esistono, e sono un numero considerevole di angeli che Dio creò buoni e che divennero cattivi per propria colpa.
  2. I demoni esercitano – con il permesso di Dio – un influsso maligno sugli uomini, sempre incitandoli al male; talvolta e di rado, invadendo e torturando il loro corpo.
  3. Sia per quanto riguarda le tentazioni, sia per quanto riguarda le torture del demonio, la volontà umana rimane sempre libera, e può sempre dire di no.

Decenni di silenzio su questa materia, o addirittura di false dottrine insegnate all’interno del mondo cattolico, hanno reso particolarmente urgente il recupero della verità, affinché il popolo dei fedeli sia avvertito. E possa difendersi con gli opportuni mezzi.

IL TIMONE N. 114 – ANNO XIV – Giugno 2012 – pag. 44 – 45


Nel segno della speranza

La Chiesa e i divorziati-risposati: molti ne parlano ma pochi conoscono la vera dottrina cattolica sull’argomento. Il Timone ristabilisce in questo articolo tutta la verità, senza scorciatoie. Ma anche senza disperazione.

La posizione della Chiesa nei confronti dei fedeli divorziati è molto chiara. Ma quanti la conoscono veramente? Basta ascoltare i discorsi della gente per accorgersi che equivoci, fraintendimenti ed errori clamorosi sono assai diffusi: si confondono situazioni oggettivamente molto diverse tra loro, in un tripudio di luoghi comuni e di nozioni raccogliticce orecchiate dalla Tv o spigolate su qualche giornale sfogliato dal parrucchiere.

Questa situazione dipende certamente da una diffusa superficialità in materia di fede e di morale, alla quale non sono estranei gli stessi credenti. Ma è anche conseguenza di colpevoli omissioni da parte di coloro che nella Chiesa hanno il compito di insegnare e di “pascere” il gregge affidato da Gesù. Non è raro infatti sentirsi dire che “queste cose ormai si sanno”, e che – per ragioni pastorali, per carità, per rispetto umano – “è meglio non parlare di queste cose nelle prediche o nella catechesi”. Il risultato è che i fedeli in realtà “queste cose non le sanno”, o le sanno in modo approssimativo, ignorando le precise indicazioni del Magistero e soprattutto le ragioni che stanno alla base di questo rigoroso insegnamento.

Il fatto è reso ancor più grave dalla enorme diffusione del divorzio nella nostra società, al punto che quasi tutti ormai hanno almeno un parente o un amico o un collega che vive un fallimento matrimoniale e che, come si usa dire, “si rifà una vita” con un altro partner. È dunque ancora più urgente sapere che cosa la Chiesa dice esattamente, anche per poter fare davvero del bene a coloro che si trovano in questa profonda sofferenza umana e spirituale. Anche per questi fratelli, infatti, Cristo ha parole di speranza. Anche per loro il bene proposto dal Vangelo è possibile.

Luoghi comuni e mala fede

La gente sa in maniera assai vaga che se sei divorziato non puoi ricevere la Comunione. Così capita che ci siano dei divorziati erroneamente convinti di essere colpiti da questa preclusione, mentre in realtà il divieto si riferisce ai divorziati risposati, cioè a coloro che hanno contratto matrimonio civile dopo aver celebrato un precedente matrimonio valido. E ancora: la maggior parte delle persone non sa che anche ai divorziati risposati la Chiesa offre una strada per ritornare alla Comunione. Di più: in alcune parrocchie si va diffondendo l’idea che ogni divorziato risposato decide in coscienza se vuole fare la Comunione, e che nessuno, tanto meno il sacerdote, può interferire in questa scelta. Altri pensano che i divorziati risposati siano degli scomunicati. E in generale si ritiene che la Chiesa escluda questi fedeli dall’eucarestia con un intento punitivo.

Come vedremo in questo articolo, tutti questi luoghi comuni sono davvero molto lontani dalla verità. Sono lontani dal vero anche quei cattolici che inveiscono contro la Chiesa, colpevole di “discriminare” i fedeli divorziati. Un atteggiamento di ribellione davvero singolare, soprattutto se assunto da coloro che magari per anni hanno snobbato la vita cristiana, la Messa domenicale, la confessione, le devozioni, e che improvvisamente “riscoprono” una sospetta “fame eucaristica” proprio nel momento in cui – per loro libera scelta – si sono messi in una condizione irregolare.

L’atteggiamento della Chiesa

I divorziati-risposati possono pensare che la Chiesa provi nei loro confronti disprezzo. Nulla di più falso: i pastori sono chiamati ad accogliere questi fedeli «con carità e amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio». Sono le parole testuali dell’autorevolissima Congregazione per la Dottrina della Fede, che nel 1994 ha inviato a tutti i vescovi del mondo un documento sulla materia. La Congregazione – allora guidata dal Cardinal Ratzinger – aggiunge che i pastori devono suggerire a questi fedeli «con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione». In queste parole c’è tutto il Magistero: la carità di Cristo, la maternità della Chiesa, la possibilità di lasciare alla spalle il male per fare il bene.

Il giudizio della Chiesa

Comprendere non significa però giustificare. La misericordia è autentica solo quando procede insieme alla verità. Ed è per questo che vescovi e sacerdoti hanno il dovere (non quindi una generica possibilità discrezionale) di richiamare ai fedeli divorziati la dottrina della Chiesa, in particolare sulla ricezione dell’Eucarestia. Qual è questa dottrina? Eccola: «Fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura questa situazione».

Una punizione?

Qualcuno può pensare che questa norma contenga una pena, inflitta ai divorziati per sanzionare la loro condotta. Non è così. Nella Familiaris consortio (1982) Giovanni Paolo II spiega limpidamente che il rifiuto della Comunione deriva da due fondamentali ragioni: la prima, che consiste nella oggettiva condizione in cui si trovano questi fedeli, che non sono in grazia di Dio; la seconda, che é di ordine pastorale, perché se queste persone fossero ammesse all’eucarestia ne deriverebbe una grave confusione per i fedeli, indotti in errore circa la dottrina della Chiesa sulla indissolubilità del matrimonio. I vescovi e i sacerdoti dovranno inoltre compiere ogni sforzo affinché venga compreso bene che questa disciplina è frutto «soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo».

Chi decide?

Secondo qualche sacerdote, la disciplina della Chiesa su questa materia si risolverebbe in una classica questione di coscienza. Poiché valutare la giusta disposizione d’animo a ricevere l’eucarestia spetta normalmente al singolo fedele, anche in questo caso sarebbe il divorziato risposato a dover decidere che fare. Con la conseguenza pratica che, sempre secondo taluni sacerdoti, «se un fedele si presenta a fare la comunione, io ho il dovere di dargliela in ogni caso, anche se so che è un divorziato risposato». Questa posizione non è conforme all’insegnamento della Chiesa, che impone un “grave dovere a tutti i pastori”. Qual è questo obbligo grave? Quando qualcuno, convivendo more uxorio con una persona che non è la legittima moglie o il legittimo marito, giudicasse possibile ricevere la Comunione, allora vescovi e sacerdoti – in particolare nel ruolo di confessori – «hanno il grave dovere di ammonire che tale giudizio è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa». Questa dottrina dovrà essere ricordata «anche nell’insegnamento a tutti i fedeli». Dunque ai sacerdoti è richiesta una specifica vigilanza, rispetto ad altri peccati, e la ragione è evidente: il matrimonio è essenzialmente una realtà pubblica.

Nemmeno in certi casi?

Secondo alcuni, in svariati casi bisognerebbe eliminare il divieto di accesso alla Comunione. Tali situazioni particolari sono state evocate dallo stesso documento della Congregazione per la Dottrina della Fede:

  • Quando il divorziato risposato era stato abbandonato ingiustamente dal coniuge, pur cercando in ogni modo di salvare il matrimonio;
  • Quando il divorziato risposato è convinto in coscienza che il precedente matrimonio sia nullo, pur non potendolo dimostrare nel foro esterno;
  • Quando il divorziato risposato si è sottoposto a un lungo cammino di penitenza, ed è assistito da un sacerdote prudente ed esperto.

Nel n. 84 della Familiaris Consortio Giovanni Paolo II esorta i pastori a tenere in considerazione queste situazioni, distinguendole da atteggiamenti colpevoli. D’altra parte, il n. 4 del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede usa parole inequivocabili, che non lasciano scampo a interpretazioni lassiste. Anche in questi casi molto particolari, l’accesso alla Comunione non può essere consentito.

Esiste una via di uscita?

A questo punto, i divorziati risposati potrebbero sembrare dei condannati a una sorta di “ergastolo morale”, una gabbia senza scampo. Ma non è così. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede è anche qui molto preciso: «Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l’acceso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall’assoluzione sacramentale». E a chi può essere data tale assoluzione? «Solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». In concreto ciò significa che i due hanno l’obbligo di separarsi. Ma qualora i due non possono più separarsi, perché ad esempio devono educare i figli, assumeranno «l’obbligo di vivere in piena continenza, astenendosi dagli atti propri dei coniugi». Quindi, due divorziati che vivano “come fratello e sorella” possono accedere alla Comunione «fermo restando l’obbligo di evitare lo scandalo», ad esempio ricevendo l’eucarestia in una chiesa diversa da quella della propria comunità.

La Chiesa potrà cambiare la sua posizione?

No. La prassi di escludere i divorziati risposati dalla Comunione è costante e universale, ed è fondata sulla Sacra Scrittura. Questa prassi è vincolante, e «non può essere modificata in base alle diverse situazioni», poiché «agendo in tal modo la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità».

Due scomunicati?

I divorziati risposati non sono affatto degli “scomunicati”. Questo significa che non sono colpiti da una sanzione grave da parte della Chiesa – come avviene ad esempio nei confronti di chi ha commesso il peccato di aborto volontario – e significa anche che essi devono essere incoraggiati a partecipare alla vita cristiana. In particolare, la Chiesa li incoraggia a non abbandonare la pratica della Messa, anche quando fossero impossibilitati a ricevere la Comunione, perché questa loro partecipazione al sacrificio di Cristo non è senza valore e senza significato. La Congregazione per la Dottrina della Fede nel documento del 1994 li esorta «ad approfondire il valore della comunione spirituale», a pregare, a educare i figli nella fede cristiana, a impegnarsi in opere di carità.

Segnali di speranza

Non ci sono dubbi: un cattolico sincero, trovandosi nella condizione di divorziato risposato, vive nella sua coscienza una sofferenza molto profonda. Le motivazioni umane che lo hanno spinto verso certe decisioni, la forza coinvolgente degli affetti umani, le conseguenze talvolta irrimediabili degli errori, lo avviluppano da ogni parte. È proprio in questa dura prova che il divorziato risposato dovrà resistere ad alcune tentazioni: ribellarsi alla Chiesa; abbandonare la vita cristiana; perdere ogni speranza. Per quanto grave sia la nostra colpa, per quanto ardua sia la strada da percorrere, con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Realmente tutto.

IL TIMONE N. 93 – ANNO X II – Maggio 2010 – pag. 39 – 41


Dio è cattolico!

Qual è il vero volto di Dio? Come riconoscere fra moltissime religioni quella vera? Rino Cammilleri riassume questa sfida apologetica nel suo ultimo libro, che offre una sintesi imperdibile delle credenze più diffuse. A tutto vantaggio della credibilità del cattolicesimo.

Che cos’è l’apologetica? Spesso si fa fatica a definirla in modo preciso, e appare più semplice riconoscere che una certa opera, un libro, un film, è apologetico.

Ad esempio, “Dio è cattolico?” – la più recente fatica di Rino Cammilleri – è un gran libro di apologetica. Uno di quei pochi libri la cui lettura è non soltanto opportuna, ma necessaria. Perché in queste pagine non si parla del futile e dell’effimero, non si parla di spettacolo e di politica, ma si affronta con linguaggio semplice un problema fondamentale, che incombe sulla vita di ogni uomo: qual è la vera religione? Il vero volto di Dio è “il” problema dell’umanità di ogni tempo. Come spiega bene Ettore Gotti Tedeschi nella Prefazione, «nel mondo non funziona più quasi nulla, ma non perché c’è una crisi di valori. Il punto è un altro. Questa crisi di valori discende da una crisi della fede: non credere più nello stesso Dio».

Alla ricerca di ciò che ci divide

L’apologetica è scienza rigorosa, che non ama le mezze misure, le fumisterie, le perdite di tempo, gli slogan facili e confortanti.

L’apologetica si serve di ancelle serie ed efficienti: la logica, la filosofia, la storia.

Ed è a partire dalla logica, e dal principio di non contraddizione in particolare, che Cammilleri imposta la struttura del suo libro: data la pluralità delle religioni, e delle rappresentazioni di Dio, non è possibile che tutte queste rappresentazioni siano contemporaneamente vere. Occorre indagare, usando della nostra ragione, approfondire, conoscere, capire che cosa dicono esattamente le più importanti religioni, e mettere queste religioni a serrato confronto con il cattolicesimo.

Potremmo dire in una battuta che il metodo di Rino Cammilleri – che poi è stato il metodo usato dall’apologetica cattolica per duemila anni – va alla ricerca non già di ciò che ci accomuna e ci unisce, ma innanzitutto e precisamente di ciò che ci differenzia e ci divide. Infatti, non c’è modo più sicuro ed efficace per riconoscere la grandezza e l’unicità del cattolicesimo che scoprire i limiti e le contraddizioni delle altre religioni. Oggi più che mai è necessaria questa opera di comparazione e di distinzione, in un clima che tende ad appiattire tutte le fedi in un’unica enorme super-religione, e che per raggiungere questo obiettivo ideologico non disdegna di tacere dolosamente le differenze, talvolta enormi, fra Chiesa cattolica e resto del mondo. Con il risultato che spesso portiamo nella nostra testa un’immagine del buddismo o dell’ebraismo che ha poco o nulla a che fare con la realtà. Il libro di Cammilleri offre in 270 pagine una vera miniera ricca di cifre, citazioni, notizie, brani di esperti; insomma, fatti e non opinioni.

Che concorrono a fornire un’unica risposta convincente: il volto del vero Dio è quello insegnato da duemila anni nella Chiesa cattolica.

Il lettore si ritrova avvinto, realmente conquistato da una vera e propria inchiesta che mette a nudo, impietosamente, l’insostenibile leggerezza dei più gettonati luoghi comuni su religioni e dintorni.

Pagina dopo pagina, emerge evidente il disegno perseguito dall’autore, che si può riassumere in tre mosse genuinamente apologetiche.

Tre mosse apologetiche

Primo: la fede c’entra moltissimo con la nostra vita concreta di tutti i giorni. Il motivo principale di tanta indifferenza e superficialità dell’uomo contemporaneo di fronte alla fede è la convinzione (erronea) in base alla quale tra religione e vita quotidiana non c’è alcun rapporto. La fede è, nella migliore delle ipotesi, una teoria astratta, uno schema mentale, una filosofia dell’esistenza. Ma la vita è un’altra cosa. Cammilleri, invece, riesce nell’impresa di dimostrare inequivocabilmente il contrario: tutte le nostre scelte, i nostri comportamenti – riguardino essi il lavoro, l’economia, la famiglia, il divertimento – sono segnati dalla religione, dal Dio in cui crediamo (o in cui non crediamo). Le storie delle nazioni e delle civiltà sono impregnate dell’elemento religioso, che le condiziona nel bene o nel male. Il numero dei suicidi, il fenomeno dei serial killer, le abitudini alimentari, la propensione alla carità sono legate alle tradizioni religiose, e Cammilleri ce lo dimostra con il suo stile brillante, imprevedibile, originale, ostinato. Perché sono i dettagli a rivelare spesso gli uomini e i popoli. Dunque, spendere energie per riflettere su Dio e per conoscerlo non è tempo perso, ma il più importante investimento che possiamo fare per vivere bene.

Secondo: una religione non vale un’altra. Cammilleri dimostra oggettivamente la profonda, inconciliabile differenza delle differenti fedi. E dunque confuta i corollari prodotti dall’indifferentismo religioso. Pensiamo, ad esempio, all’idea per cui “la religione del vicino è sempre più verde”, così presente in certi atteggiamenti complessati di alcuni cattolici contemporanei. O pensiamo anche alla tendenza a “dissolvere” la dottrina cattolica, allo scopo di trasformare il cattolicesimo in un ammasso di plastilina, rimodellabile di volta in volta sulla forma della religione con cui si vuole “dialogare”. Il libro di Cammilleri smonta, senza animosità ma anche senza sconti, questi tragici errori oggi così diffusi.

Terzo: la fede cattolica serve per salvarsi l’anima. Da troppi decenni questo aspetto è stato ridimensionato, o più spesso taciuto, in molta parte della predicazione e della pastorale. Con il risultato che la salvezza dell’anima non è più un problema, anche per molti credenti. Questa riduzione “orizzontale” del cattolicesimo ha prodotto due esiti inevitabili: per alcuni, la morte è la fine di tutto; per altri, il paradiso c’è e tutti ci finiscono, mentre l’inferno è vuoto, anzi è un piccolo luogo che ospita un manipolo di irriducibili cattivi: Hitler, il generalissimo Franco, i crociati. In un simile orizzonte, la religione perde inevitabilmente il suo argomento più forte: quello di “via di salvezza”.

La terapia

Cammilleri propone una terapia d’urto, che procede per confronti, con una serie di “scontri diretti” a eliminazione: dapprima il cristianesimo incontra e sbaraglia le civiltà che lo hanno preceduto, nelle quali gli uomini vivevano sotto lo scacco di forze misteriose e divinità capricciose ed essenzialmente demoniache, e le religioni propugnavano riti orgiastici e sacrifici umani. Poi Cammilleri passa al confronto tra cattolicesimo e mondo ortodosso, evidenziando le molte consonanze dottrinali, ma anche la grave ribellione al primato del Papa, che permane ancora oggi. E, a seguire, il cattolicesimo va allo scontro diretto con le confessioni protestanti, che escono sconfitte nonostante il loro numero soverchiante (se ne contano 25.000, e ne nascono una media di cinque nuove ogni settimana). E la famosa “unità delle tre grandi religioni del libro”? Rino Cammilleri dimostra senza fatica l’inconsistenza di questa categoria: Gesù Cristo non ha mai scritto una riga, e il cristianesimo è esistito per oltre tre secoli senza la definizione dei Vangeli canonici, che sono stati ispirati da Dio ma scritti dall’uomo; l’Islam si fonda sulla dettatura del Corano e la sua applicazione letterale; l’ebraismo condivide con il cristianesimo (quasi) tutto il Vecchio Testamento, ma attribuisce maggiore importanza al Talmud.

E ancora: il cattolico crede nella Trinità, il musulmano e l’ebreo no. Insomma: non stiamo parlando dello “stesso Dio”. Cammilleri dedica pagine documentatissime al buddhismo, all’induismo, al deismo massonico, all’ateismo, all’ufologia, al darwinismo, all’ambientalismo: lasciamo al lettore il gusto di scoprirvi numerose, piacevoli sorprese.

La prova del nove

Ma questo libro meriterebbe di entrare nelle nostre case anche solo per le preziosissime citazioni di alcuni convertiti, tra le quali svetta l’elenco di tredici ragioni per cui “farsi cattolico”, scritte nel 1850 dal pastore anglicano Henry William Wildberforce. Un pezzo da “antologia dell’apologetica” che conserva intatta tutta la sua freschezza, e che ogni cattolico potrebbe rileggere ogni giorno per vigilare sulla sua fede, e su quella della sua comunità.

Ecco le tredici ragioni che convinsero il pastore Wildberforce a convertirsi alla Chiesa di Roma:

  1. È la Chiesa fondata da Gesù Cristo e dagli apostoli; le “chiese” protestanti sono tutte moderne.
  2. È infallibile, il che vuol dire che non può insegnare l’errore; è l’antica Chiesa che ha sempre insegnato quel che oggi insegna.
  3. È fondata su Pietro, primo Papa, su cui Cristo edificò la propria Chiesa.
  4. È diffusa universalmente nel mondo e non confinata a un paese.
  5. Insegna le medesime cose in tutti i luoghi e tempi.
  6. Forma un regno a sé stante, distinto da tutti i regimi del mondo.
  7. Rimette i peccati per mano dei sacerdoti e con l’autorità di Gesù Cristo.
  8. Conserva le usanze degli apostoli.
  9. Offre sacrifici quotidiani a Dio.
  10. Conserva tutte le parti della Scrittura, le realizza tutte e non in parte.
  11. Onora e pratica i consigli di perfezione: verginità, povertà, obbedienza.
  12. Vede compiersi di continuo miracoli nel suo grembo, mentre non ne avvengono tra protestanti e gli altri.
  13. È odiata dal mondo: secondo la Scrittura, questo è il segno della vera Chiesa.

IL TIMONE N. 89 – ANNO XII – Gennaio 2010 – pag. 14 – 15


Cattolici in stato confusionale

Il disagio nella Chiesa di fronte alle sortite che contestano apertamente il Magistero. Ecco come riconoscere alcuni fra gli errori più diffusi, anche fra i credenti. Per evitare di fare “naufragio nella fede”.

Ogni tanto capita, con la stessa ripetitività delle stagioni. Una personalità del mondo cattolico rilascia un’intervista nella quale prende le distanze dall’insegnamento della Chiesa. A questo punto i giornali — giustamente — rilanciano con grande fragore la notizia, gli intellettuali discutono, il mondo cattolico ufficiale soffre in silenzio per non alimentare scandali. E il popolo dei fedeli rimane disorientato, stordito. Come un gregge nel quale qualche pecora si mettesse a contestare l’affidabilità del pastore.

In realtà, questi episodi hanno alcuni elementi fra loro comuni, che permettono di smascherarli per quello che sono: l’espressione dell’antica e mai sopita ambizione dell’uomo di essere norma a sé stesso. L’adesione alla Chiesa è un atto insieme di libertà e di sottomissione: fede e ragione si sostengono, ma l’atteggiamento richiesto al cuore dell’uomo è innanzitutto l’umiltà. Dio, e non l’uomo, è l’artefice della Creazione. E dunque, Dio e non l’uomo è il Legislatore. Dunque, la verità è stata affidata da Cristo alla Chiesa. Spetta al Papa custodirla, in conformità alla Tradizione e in comunione con i vescovi. I teologi, gli intellettuali, i sinodi, i convegni ecclesiali, e perfino i singoli vescovi sono voci senza dubbio interessanti; ma non sono la Chiesa.

Ora, basta rileggere alcuni esempi di queste “voci fuori dal coro” del Magistero, per riconoscere che esse mettono a repentaglio la salvezza stessa delle anime. Ricordiamo che, per l’uomo, il rischio più grande è fare “naufragio nella fede”, e perdere così la vita eterna, come San Paolo ricorda con toni accorati a Timoteo. Ecco una sintesi dei principali errori che si ritrovano in queste sortite, compiute da cattolici in stato confusionale.

1. L’importante è dialogare: meglio evitare divisioni che dire la verità. Il cattolico “dialogante” ritiene che affermare delle verità oggettive, insegnate dalla Chiesa e confermate dalla ragione umana, sia un atto di prevaricazione, frutto di preconcetti e di posizioni pregiudiziali. La Chiesa deve scendere dalla sua scomoda cattedra, per lasciare il suo posto ai non credenti, che assumono il compito di insegnare la (loro) verità ai cattolici, che brancolano nel buio. Questo tipo umano sogna un Papa che si affacci dalla sua finestra, solo per benedire e salutare in molte lingue. Ma che sia muto ogni volta che ci sia di affermare verità scomode e impopolari sulla dottrina della fede e della morale. L’importante è evitare affermazioni apodittiche. E siccome i dieci comandamenti sono quanto di più apodittico si possa immaginare, ecco che si propone di ritirare dal mercato il decalogo, almeno nelle sue prescrizioni più contestate.

2. La verità forse esiste, ma l’uomo non può conoscerla. Per questo cattolico, la Chiesa non può dirimere sempre ogni controversia morale, perché esistono delle “zone grigie”, delle aree nebbiose dove la verità non si distingue, e dove la cosa migliore è aprire un dibattito. Quali sono queste zone grigie? Quelle nelle quali si manifesta una diversità di opinioni nella società. Dunque, in una società pluralista e relativista, tutta la vita morale può diventare una sconfinata “zona grigia”, riducendo l’autorità della Chiesa al silenzio praticamente su tutto. Saranno da evitare in particolare pronunciamenti su divorzio, aborto, fecondazione artificiale, eutanasia.

3. La verità è un prodotto del dialogo. Per questo genere di cattolici, la verità non preesiste alla discussione. Non è una realtà che c’è, e che l’uomo ha il compito di scoprire con l’aiuto della Chiesa. No: la verità si rinnova continuamente, grazie alla dialettica: le “parti” esprimono rispettosamente delle posizioni, e così si raggiunge un punto di mediazione (provvisorio) che costituisce la verità accettabile da tutti in quel momento. Se, ad esempio, uno dice che l’aborto è lecito, e un altro dice che non è lecito, la verità prodotta sarà che l’aborto è un po’ lecito: si può fare in certi casi.

4. Anche se sei ignorante, dialoga lo stesso. Per discutere, è buona regola sapere ciò di cui si parla. Ma la foga di dialogare è così forte, in alcuni cattolici, che si va al confronto senza essere preparati. Il tuo interlocutore dice, ad esempio, che l’ootide non è un essere umano? Prendi subito per buona questa solenne corbelleria. Mentre dovresti sapere che dal primo momento della fecondazione in poi il nuovo organismo vivente (anche con due pronuclei, cioè allo stadio di ootide) è caratterizzato da uno sviluppo coordinato, continuo e graduale, che permette di qualificarlo appunto come individuo (umano) e come vivo (A. Serra e R. Colombo, Identità e statuto dell’embrione umano: il contributo della biologia in Pontificia Accademia Pro Vita, Identità e statuto dell’embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998). All’ignoranza scientifica si accompagna talvolta un’imbarazzante impreparazione morale: potrà così accadere che si giustifichi l’aborto facendo leva sul principio della legittima difesa; tesi assurda, che implicherebbe attribuire al concepito il ruolo di “ingiusto aggressore”!

5. Bisogna inventare un “cattolicesimo sostenibile”. Il cattolicesimo oggi è diventato impresentabile di fronte alla modernità: bisogna aggiornarne gli elementi più scomodi per renderlo sostenibile, un po’ come affermano gli ambientalisti di fronte allo sviluppo. La prima regola per questo lifting è astenersi dal giudicare frettolosamente: meglio discutere serenamente per non creare inutili divisioni, e far derivare le regole da ciò che i più pensano e fanno. La sociologia sostituisce la riflessione morale e soppianta la legge naturale. La prassi genera la norma. Per cui, se a gente chiede la fecondazione artificiale, noi gliela dobbiamo dare.

6. Il male non si combatte: si regolamenta. Secondo questo falso cattolicesimo, si può anche riconoscere che una certa condotta sia cattiva. Ma – in base al principio assoluto che si deve dialogare con tutti – bisogna in un certo senso dialogare anche con il male. E scendere a patti con esso. Quindi, le leggi dello Stato non vieteranno l’aborto. Se lo facessero, si creerebbero inutili divisioni. Meglio regolamentare il fenomeno. Così, il male non consiste più nell’atto dell’uccidere il concepito. Il male è l’aborto clandestino (che minaccia la vita delle donne) mentre l’aborto legale diventa “buono”, perché fatto secondo le norme dello Stato. Verranno uccisi molti innocenti, è vero; ma sarà salva la pace sociale e il dialogo permanente con tutti i sopravvissuti.

7. Chi compie il male va capito e giustificato. La Chiesa insegna una dottrina esigente e offre insieme un perdono senza limiti da parte di Dio. Invece, per il cattolico del dissenso (dal Papa) il perdono sostituisce la dottrina. Siccome chi commette un male può agire in circostanze molto difficili, allora occorre sospendere il giudizio sulla sua condotta, ed evitare ogni condanna. Questo approccio non ha solo valenze morali – potremmo dire “da confessionale” – ma pretende di avere conseguenze giuridiche e politiche. Esempio: una donna abortisce. Peccato, ma poiché ha vissuto un dramma, come può la società prevedere una pena, anche lieve, per la sua condotta? E ancora: un uomo elimina con l’eutanasia sua moglie. Non è bello. Però, vista la sua sofferenza, quale giudice potrà dichiararlo colpevole? Questo criterio potrà essere applicato ad altre infinite “zone grigie”: un uomo scopre che la moglie lo tradisce, e la uccide. Ma in quest’ultimo caso, il cattolico politicamente corretto si dichiarerà inflessibile e per nulla comprensivo, nonostante le “terribili circostanze” in cui il delitto è avvenuto.

Come si vede, quello che alla fine ci resta in mano è soltanto un pallido ricordo del cattolicesimo.

Un corpo freddo e morto, che ha perso per strada l’amore per la Verità e la certezza della presenza viva e reale di Cristo in mezzo alla Chiesa. Un cattolicesimo senza croce e senza testimonianza, in fuga di fronte al martirio quotidiano dell’incomprensione del mondo. Non rimane che aiutare questi fratelli con l’apostolato della verità. E pregare per loro, perché grande è il pericolo che rappresentano per la salvezza di molte anime. A cominciare dalla loro.

IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 10 – 11


Questo Papa non ci piace – di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro – 2013

Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.

Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.

Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a “Civiltà Cattolica”.

Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. È tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.

Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della Veritatis splendor, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.

Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’“Osservatore Romano”, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione Unigenitus Dei Filius in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel Sillabo, un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla Pascendi dominici gregis 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al Denzinger non farebbe male.

Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al cattolicesimo.

Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla “Civiltà Cattolica”. “Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini. 

Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a “Civiltà Cattolica” dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non c’era, ma per averlo inventato.

L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.

Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea. 

Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.

Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.

Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.

Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.

Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.

Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.
È l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.

Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo vicario.

Condividi:

  • Tweet
  • Altro
  • WhatsApp
  • Telegram
  • Condividi su Tumblr
  • E-mail
  • Stampa
  • Pocket

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Correlati

dossieraborto, apostasia, apostati, Articolo 18, ateismo, bioetica, cattolicesimo, collegialità, contraccezione, democrazia, demoni, dialogo, diavolo, Dio, divorziati-risposati, divorzio, eucarestia, eutanasia, Evangelium vitae, Familiaris consortio, Giovanni Paolo II, giuramento di Ippocrate, Humanae Vitae, Il Timone, infanticidio, inganno diabolico, liberalismo, male minore, Mario Palmaro, marxismo, matrimonio, medici, miracoli, morte, Palmaro, Paolo VI, peccato, pro death, pro life, progressismo, relativismo, sessualità, speranza

Navigazione articolo

← Celibato sacerdotale, la risposta della Catechista
Esame critico della teologia del gesuita Rahner →

Google Traduttore

Chi siamo

Ave Maria!
Siamo fieri di essere Cattolici Romani e cooperatori della Verità!

 

  • Facebook
  • Twitter
  • YouTube
  • Vimeo
  • Pinterest
  • Soundcloud
  • Telegram
  • Tumblr
  • Link
  • Link

Aggiornamenti Articoli

  • Discorso 46 di sant’Agostino ai Pastori che non fanno bene il loro dovere
  • Pio XI enc. Mit brennender sorge 14.3.1937 sulla purezza della dottrina cattolica in Germania e nel mondo
  • Se il Sinodo o sinodalità non porta la Verità tradisce la propria missione
  • Una scuola sull’Insegnamento sociale di Benedetto XVI. Con il cardinale Müller e il Vescovo Crepaldi
  • Polonia: arriva uno tsunami di fango “rosso” contro Giovanni Paolo II

Aggiornamenti Video

Canta che ti passa…

Calendario liturgico

Lo scopo del Calendario liturgico è quello di contenere le norme che disciplinano le ricorrenze e le celebrazioni di tutti i giorni dell’Anno liturgico.

 

AFORISMA

“Vi sono cristiani più che soddisfatti e senza la minima inquietudine di fronte alla nostra attuale situazione. Ma la loro soddisfazione non è secondo il volere di Cristo. Essa deriva da un compromesso con il mondo, da un rifiuto di guardarlo in faccia per paura di riconoscervi l’opera del demonio e di doversi ricordare della Croce di Cristo.”

— Padre Roger-Thomas Calmel, OP

Le nostre rubriche

Oracolo di Cooperatores Veritatis

Beata Suor Elena Aiello: Dio castigherà l’Italia e il mondo? Sembra proprio di sì…

Beata Suor Elena Aiello: Dio castigherà l’Italia e il mondo? Sembra proprio di sì…

Il 2 marzo scorso ricorreva il 100° anniversario della stigmatizzazione della Beata Elena Aiello. Vogliamo ricordarla elencando alcuni messaggi che ella ha avuto dal Cielo. Si tratta di messaggi drammatici, perché annunciano un grande castigo, ma pieni di speranza perché rimandano alla promessa di Fatima.

Concilio Vaticano II

Il Vaticano II, il concilio degli ideali da raggiungere

Il Vaticano II, il concilio degli ideali da raggiungere

Al Vaticano II ci furono molte idee che furono soprattutto ideali da raggiungere. Quando le idee però non sono ben setacciate e rimangono solo ideali si possono facilmente trasformare in ideologie.

Pius PP. XII

Papa Pio XII, Fatima e il “suicidio della fede”

Papa Pio XII, Fatima e il “suicidio della fede”

Il venerabile Pio XII fece un’impressionante profezia che in parte vediamo oggi realizzata ma che, nel suo contenuto più preoccupante, si apre ad un futuro che sembra non lontano da noi. Vediamo di cosa si tratta.

San Pio da Pietrelcina

Una Confessione per la conversione

Una Confessione per la conversione

Nastava una sola Confessione con padre Pio per cambiare la vita di qualcuno e questo non solo spiritualmente, ma anche materialmente.

Catholic PicQuotes

Catholic PicQuotes

Rassegna Stampa

Rassegna Stampa

Seguiteci anche su

Blogroll

  • Amici Domenicani
  • Antiquo robore
  • Apostoli di Maria
  • Ass. Alessandro Maggiolini
  • Aurea Domus
  • Corrispondenza Romana
  • Cultura Cattolica
  • Difendere la vera Fede
  • Dogma TV
  • Ecclesia Dei
  • Edizioni Fiducia
  • Edizioni Piane
  • Europa Cristiana
  • Fatima Oggi
  • FSSP
  • FSSPX
  • Gloria Dei
  • Il Cammino dei Tre Sentieri
  • Il Pensiero Cattolico
  • Il Timone
  • Istituto Cristo Re
  • La Nuova BQ
  • Lo Straniero
  • Maràna tha
  • Mons. Luigi Negri
  • Muniatintrantes
  • Osservatorio Card. Van Thuan
  • Radicati nella Fede
  • Radici Cristiane
  • Radio Buon Consiglio
  • Rossoporpora
  • Settimo Cielo
  • Sotto il cielo di Roma
  • Stella Matutina
  • Testi del card. Caffarra
  • Tradizione Famiglia Proprietà

Copyright

© 2022 Cooperatores-Veritatis.org

Archivi

Categorie

Statistiche del Sito

  • 2.592.157 visite

Classifica Articoli e Pagine

  • Download
  • Home
  • Sanctum Rosarium (in latino e in italiano)
Follow Cooperatores Veritatis on WordPress.com

Inserire l'indirizzo email per seguire il Sito e ricevere notifiche e aggiornamenti.

Unisciti a 766 altri iscritti
Crea un sito web o un blog su WordPress.com
  • Segui Siti che segui
    • Cooperatores Veritatis
    • Segui assieme ad altri 603 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Cooperatores Veritatis
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Copia shortlink
    • Segnala questo contenuto
    • View post in Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...
 

    %d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: