Benedetto XVI insegna: •Il sacerdote non insegna proprie idee. • Una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace. • Il sacerdote non parla da sé. • Non parla per sé. • Per crearsi forse ammiratori o un proprio partito. • Non dice cose proprie. • Proprie invenzioni. • Ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente. • Propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti. • Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di sé stesso: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16). • Cristo, cioè, non propone sé stesso, ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. • Anche il sacerdote deve sempre dire e agire così: • La mia dottrina non è mia. • Non propago la mie idee o quanto mi piace. • Ma sono bocca e cuore di Cristo e rendo presente questa unica e comune dottrina, che ha creato la Chiesa universale e che crea vita eterna”. BENEDETTO XVI – Udienza Generale – 14 aprile 2010 – OGGI IL RISCHIO DI TANTA CONFUSIONE, È NELL’ ASCOLTARE DUE TIPI DI SACERDOTE! IL PRIMO INSEGNA A NOME DI CRISTO, IL SECONDO INSEGNA A NOME DI SE STESSO.
«C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse un oggetto della nostra abilità manipolatoria.
La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste.
Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali.
Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuità con questa liturgia viene messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente di questo genere; così è l’intero passato della Chiesa a essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente, se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, a essere franco, perchè tanta soggezione, da parte di molti confratelli Vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all’interno della Chiesa.
Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti. Se nessuno sa più nemmeno cosa significhi “Kyrie” o “Gloria”, allora si è verificato un depauperamento culturale e il venire meno di elementi comuni.
Ci dovrebbe anche essere una parte recitata in latino che garantisca la possibilità di ritrovarci in qualcosa che ci unisce.»
Ratzinger ha firmato un Documento della Congregazione della Dottrina della Fede 1989: Alcuni aspetti della Meditazione Cristiana (Yoga, pratiche orientali, occultismo, false apparizioni, ecc…) – nell’intervista che lo spiegava rispondeva a queste due domande:
Può esistere uno “yoga cristiano”?
“uno yoga “cristiano”, ovviamente, non può esistere è già una ideologia in termini.
…(..) nello yoga i movimenti del corpo hanno una diversa implicazione di rapporto con Dio, che non è quella della liturgia cristiana. Occorre la massima prudenza perché dietro questi elementi corporali si nasconde una concezione dell’essere come tale, della relazione tra corpo e anima, tra uomo, mondo e Dio, che non è quella cattolica..
(..) anche il concetto del mantra e quindi poi le varie posizioni del corpo, è una preghiera che non è rivolta a Dio, ma ad altre divinità che non sono Dio ma idoli, così anche gli elementi del corpo, la posizione, la compostezza, che sono importanti per la trascendenza cristiana, con queste pratiche sparisce, assumono scopi ben diversi come far sparire l’inginocchiamento.”
Quale è, in termini spirituali, il prezzo di queste pratiche?
“La perdita della fede e la perversione della relazione uomo–Dio, e un disorientamento profondo dell’essere umano, cosicché alla fine l’uomo – senza quasi accorgersene – si sposa con la menzogna.”
10 dicembre 2000: come il Card. Joseph Ratzinger spiegava ai Catechisti e ai Docenti di Religione…
La Conversione
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Quanto ai contenuti della nuova evangelizzazione è innanzitutto da tener presente l’inscindibilità dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il contenuto fondamentale dell’Antico Testamento è riassunto nel messaggio di Giovanni Battista: Convertitevi!
Non c’è accesso a Gesù senza il Battista; non c’è possibilità di arrivare a Gesù senza risposta all’appello del precursore, anzi: Gesù ha assunto il messaggio di Giovanni nella sintesi della sua propria predicazione: Convertitevi e credete al Vangelo (Mc 1, 15).
La parola greca per convertirsi significa: ripensare – mettere in questione il proprio ed il comune modo di vivere; lasciar entrare Dio nei criteri della propria vita; non giudicare più semplicemente secondo le opinioni correnti.
Convertirsi significa di conseguenza: non vivere come vivono tutti, non fare come fanno tutti, non sentirsi giustificati in azioni dubbiose, ambigue, malvagie dal fatto che altri fanno lo stesso; cominciare a vedere la propria vita con gli occhi di Dio; cercare quindi il bene, anche se è scomodo; non puntare sul giudizio dei molti, degli uomini, ma sul giudizio di Dio – con altre parole: cercare un nuovo stile di vita, una vita nuova.
Tutto questo non implica un moralismo; la riduzione del cristianesimo alla moralità perde di vista l’essenza del messaggio di Cristo: il dono di una nuova amicizia, il dono della comunione con Gesù e quindi con Dio.
Chi si converte a Cristo non intende crearsi una autarchia morale sua, non pretende di costruire con le proprie forze la sua propria bontà. “Conversione” (Metanoia) significa proprio il contrario: uscire dall’autosufficienza, scoprire ed accettare la propria indigenza – indigenza degli altri e dell’Altro, del suo perdono, della sua amicizia. La vita non convertita è autogiustificazione (io non sono peggiore degli altri); la conversione è l’umiltà dell’affidarsi all’amore dell’Altro, amore che diventa misura e criterio della mia propria vita.
Qui dobbiamo tener presente anche l’aspetto sociale della conversione.
Certo, la conversione è innanzitutto un atto personalissimo, è personalizzazione. Io mi separo dalla formula “vivere come tutti” (non mi sento più giustificato dal fatto che tutti fanno quanto faccio io) e trovo davanti a Dio il mio proprio io, la mia responsabilità personale.
Ma la vera personalizzazione è sempre anche una nuova e più profonda socializzazione.
L’io si apre di nuovo al tu, in tutta la sua profondità, e così nasce un nuovo Noi. Se lo stile di vita diffuso nel mondo implica il pericolo della de-personalizzazione, del vivere non la mia propria vita, ma la vita di tutti gli altri, nella conversione deve realizzarsi un nuovo Noi del cammino comune con Dio.
Annunciando la conversione dobbiamo anche offrire una comunità di vita, uno spazio comune del nuovo stile di vita.
Evangelizzare non si può con sole parole; il vangelo crea vita, crea comunità di cammino; una conversione puramente individuale non ha consistenza…
(Card. Joseph Ratzinger – dall’Intervento effettuato durante il Convegno dei Catechisti e dei Docenti di Religione, 10 Dicembre 2000)